LA RELIGIONE DELL'AVESTA

Sommario. 1-2. Avesta, non Zendavesta, il codice sacro zoroastriano. 3-4. L'Avesta quale è al presente. 5. Il Yasna e il Vispered. 6. Il Vendîdâd. 7. I Yasht e il Khôrda Avesta. 8. L'Avesta primitivo. 9-10. Cagioni probabili della dispersione dei libri dell'Avesta e sue prime redazioni. 11. L'età dell'Avesta. 12. La patria dell'Avesta. 13. La lingua dell'Avesta. 14. Anquetil-Duperron alla traccia dell'Avesta, e sua traduzione. Interpretazione razionale dell'Avesta. 15. Ricostruzione metrica dell'Avesta per opera del Geldner. 16. Natura particolare della dottrina religiosa dell'Avesta 17. Concetti religiosi naturalistici entrati nel sistema religioso de l'Avesta. 18-19. Concetti religiosi genuinamente zoroastriani e origine della dottrina dualistica. 20. Elementi stranieri entrati nel Zoroastrismo.

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1. - Tre momenti di massimo splendore ebbero la cultura e la civiltà iranica, e questi si appuntano e assommano, per così dire, in tre nomi altrettanto gloriosi e illustri che sono Zarathustra, Dario, Firdusi. Appartengono i due primi all'evo antico, e uno è un gran legislatore, fondatore inoltre d'una religione novella; l'altro è un gran principe, unificatore del patrio regno. Appartiene il terzo all'evo medio, ed é un gran poeta, degno di starsi accanto ai maggiori d'Occidente.

 

2. La tradizione nazionale attribuisce a Zarathustra l'Avesta, né si smentisce mai. Per essa, Zarathustra ne é l'autore, o meglio, per essa, il libro sacro fu rivelato a lui da Ahura Mazdao stesso, dal creatore del mondo e d'ogni cosa bella che è nel mondo. Altri lo chiam Avesta; ma anche nel capitolo precedente abbiamo osservato essere erronea questa designazione. Aggiungiamo ora che essa é dovuta al francese Anquetil-Duperron, primo scopritore e traduttore del libro, che la sparse per tutta Europa, mentre in Oriente, specialmente dai Parsi che sono gli ultimi superstiti seguaci di Zarathustra, esso é chiamato Avesta, riserbato il rimanente della parola, Zend, a designarne il commento. Per loro, Avesta e Zend significa l'Avesta col commento che gli va riferito.

Inutilmente fino ad ora si è cercata la derivazione e il significato della parola. Tacendo delle altre congetture meno felici, ricordiamo soltanto quella dell'Oppert, secondo il quale, dicendo il re Dario d'Istaspe, in un punto della sua celebre iscrizione di Behistan, ch'egli, vivendo e regnando, si è sempre comportato e regolato secondo l''abastâ, s'inferirebbe che la parola persiana abastâ altro non può e non deve significare che legge, e legge dover significare ancora la corrispondente voce, anzi affine, avesta. Ma altra cosa é dire legge in generale, cioè legge morale, legge di giustizia in genere, come appunto sembra voglia dire il re, e altra cosa è voler designare, con quella voce, una data legge, un codice sacro, quale é l'Avesta, nel che ci sarà sempre dubbio per noi. Sappiamo soltanto che Dario ha voluto dire che s'è governato secondo una legge, o una data norma, non che quella legge o quella norma fosse appunto L'Avesta. Sennonché alla congettura dell'Oppert si oppone, con ogni maggior probabilità d'esser nel vero, il fatto che il Jackson, visitando ed esaminando di recente, nel 1903, la rupe di Behistan al punto della voce ora in questione, ha creduto leggervi ârasta, che vuol dire la retta via, confermando così l'ingegnosa congettura d'un altro dotto, il Foy, e trovando così il vero senso della frase.

 

3. - L'Avesta quale ora l'abbiam noi, è ben lontano da quello che doveva essere un tempo quand'esso formava come un'ampia e vasta enciclopedia. Né esso fu il codice sacro, il libro sacro di tutti gl'Irani, sì bene di una parte sola della nazione. Non fu dei Persiani nell'antichità, perché da ciò che dice Erodoto intorno alla loro religione, e da ciò che si rileva dalle iscrizioni degli Achemenidi, risulta ch'essi professavano una religione molto affine, non però quella dell'Avesta. i Persiani, invece, la abbracciarono assai più tardi, cioè dopo l'Era volgare, quando i Sassanidi la proclamarono solennemente, con l'Avesta, religione ufficiale del regno. Né esso fu il libro sacro dei Medi, sì bene d'una casta eletta (non direm setta, che sarebbe sconveniente), che metteva capo a Zarathustra, ed era quella famosa dei Magi, originaria tuttavia, come pare, della Media. Ciò nell'antichità e nel primo Medio Evo iranico. Fattasi poi musulmana la Persia, i Parsi o Guebri, cioè i seguaci di Zarathustra rimasti fedeli, parte ripararono in India, parte rimasero in patria, ristrettisi ad abitare il territorio di Kirman-shah, non molto ben veduti, ma non molestati tuttavia. In India, invece, si diedero ai traffici e ai commerci, e ora, a Bombay, costituiscono una colonia ricca e prosperosa, con università, collegi e stamperie, intenti come sono a tener viva la memoria della patria letteratura e della religione. Presso di essi appunto, come vedremo, si rinvennero e si poterono avere e studiare dagli Europei i venerandi resti dell'Avesta antico.

 

4. - Esso, quale è pervenuto a noi, consta al presente di quattro parti che hanno i seguenti titoli: Yasna, Vispered, Vendîdâd, Yasht o Khôrda-Avesta.

 

5. - Il Yasna (cioè l'offerta sacrificale) é libro essenzialmente liturgico, contenente le preghiere e gl'inni da recitarsi durante il sacrifizio, che consiste nell'offrire e nel libare la bevanda sacrificale detta haoma. Questa si ricava da una pianta dai fiorini gialli, comune nelle terre varie dell'Iran, specialmente nel Ghilan, detta dai botanici asclepias acida e anche cynanchum viminale, e ha certo sapore agro, tutto suo particolare. Le cerimonie del prepararla pestandola ne'mortai, dell'offrirla, del far la professione di fede religiosa, dell'invocare il dio creatore Ahura Mazdao, vanno insieme alle preghiere e agl'inni pii, alle invocazioni uguali, infinitamente ripetute, che si contengono in questo libre. Si suol recitar per intiero dai sacerdoti ufficianti. Pochi tratti di colorito poetico che darem tradotti al loro luogo, ne animano d'alquanto la monotonia noiosa e uniforme. Devesi però far eccezione per ventisei capitoli di esso che sono altrettanti canti, detti Gâtha, perchè si differenziano di molto dagli altri e nella lingua e nelle cose dette. Sembrano contener la parola vera e genuina di Zarathustra, essere opera sua, e rappresentare le idee sue proprie. Il Yasna stesso, nelle altre parti, ne parla con venerazione grandissima e li chiama le sante Gâtha. Libro assai meno importante è l'altro. Dal titolo, che è Vispered, cioè tutti i duci, si deve intendere che esso contiene le invocazioni pie rivolte dal fedele ai duci o capi sotto i quali, secondo un concetto prettamente zoroastriano, vanno schierate e ordinate le cose tutte della creazione, come, per esempio, i duci degli spiriti celesti, i duci degli esseri terreni, quelli degli acquatici, quegli degli aligeri, e simili. Non è libro originale, ricucito invece, in gran parte, di passi del precedente; e si recitava soltanto in certi dati giorni solenni.

 

6. - Il Vendîdâd è il libro ordinato contro la malvagia e rea opera dei demoni che col loro creatore e duce, il dio malefico Anra Mainyu, infestano il creato. Ciò è detto dal suo nome stesso che nell'originale dell'Avesta suona Vîdaêvô-dâtem, cioè creato o dato contro i Daêva, che sono appunto gli spiriti del male. Altro non contiene che minute e cavillose prescrizioni per guardarsi dalla contaminazione dei demoni, e descrizioni di cerimonie per purificarsene, dovute parte a concetti superstiziosi, parte anche a precauzioni che ora diciamo igieniche, e in ciò son buone. Ma contiene anche alcune parti di ben diversa natura, statevi aggiunte, non si sa bene il perché, le quali ne abbellano alcun poco le pagine aride e monotone. Una di esse, posta a capo del libro, enumera certi paesi stati creati buoni e santi da Ahura Mazdao, inquinati poi da certi mali o vizi introdottivi da Anra Mainyu. È documento importante per conoscere le idee geografiche di quei tempi. Un altro dice della potestà regale conferita da Ahura Mazdao al bello e virtuoso Yima figlio di Vivanhant, che fu, in terra, propagatore della fede e iniziatore fra gli uomini dell'agricoltura. Accenna anche ad un diluvio avvenuto al tempo del detto monarca, che si salvò con gli uomini migliori e con gli animali più belli e più forti in un recinto, di cui Ahura Mazdao stesso gli aveva dato il disegno. É un'eco, anche questa, di antiche tradizioni note presso altre genti antiche dell'Asia. Un altro passo fa belle e degne lodi dell'agricoltura che gl'Irani (e già l'abbiam detto altrove) tenevano in onore grandissimo; e un altro, in fine, narra certa tentazione di Zarathustra per parte di Anra Mainyu, vinto e ributtato da lui, che ha certa singolar somiglianza con quella che di Cristo, da parte di Satana, si legge nel Vangelo. Ma le altre parti tutte, più consentanee alla natura propria del libro, parlano minutamente di purificazioni del fuoco, delle acque, ove questi elementi siano stati contaminati, di purificazioni di contatti avuti con cadaveri, di prescrizioni per nascite, per funerali, per seppellimenti.

 

7. - Non sono ben nettamente distinte fra loro le due ultime parti dell'Avesta (generalmente, anzi, vanno intese come una sola e unica), cioè gli inni detti Yasht e il Khôrda-Avesta. I primi sono inni laudativi, con frequenti e ripetute invocazioni alle antiche divinità dell'Olimpo iranico; in qualche parte, anche, sono descrittivi e narrativi, e allora fanno chiari e vivi cenni ai re e agli eroi dei tempi epici, mentovandone con lode entusiastica le imprese gloriose. Abbiamo in essi, in tal caso, come una prima composizione epica che strettamente si congiunge al Libro dei Re che verrà poi, cioè alla grande ricomposizione epica di Firdusi. Altri, invece, sono assai brevi, e vanno enumerando le qualità tipiche, le virtù, i pregi degli Dei buoni, e si riferiscono, in tal caso, all'antica religione naturalistica della nazione iranica, alla quale, come vedremo, per opera di Zarathustra e de'suoi seguaci andò sovrapposta una dottrina monoteistica dapprima, e poi dualistica. Alcuni poi sono alquanto recenti; altri molto più antichi, almeno nei pensieri e nelle idee, pur con molti rifacimenti e interpolazioni. Ai laici,

invece, pare fosse destinato in particolare il Kh6rda-Avesta o il minore Avesta, raccolta alquanto indigesta di preghiere e di giaculatorie. La lingua n'è in parte quella stessa del restante Avesta, in parte n'è la così detta parsi, Che è la pehlevica, spoglia degl'ideogrammi d'origine aramaica. S'aggiungono alcuni frammenti, che si rinvengono citati nelle opere pehleviche del Medio Evo zoroastriano, coi quali si compie tutto ciò che ai nostri giorni possediamo dell'Avesta. Ma l'antico, l'originale Avesta quale e quanto doveva essere?

 

8. - L'antico Avesta, secondo una unanime tradizione viva ancora presso gli scrittori musulmani e i Parsi, comprendeva ventun capitolo o parte o libro che dir si voglia. L'Anquetil poi notava che l'Avesta presente non è altro che un complesso di frammenti dell'antico, sebbene considerevoli, e che il Vendîdâd, che ne era il diciannovesimo, n'é anche l'unico pervenuto integro a noi. Questa notizia ci è pienamente confermata da un libro pehlevico del IX secolo d. C., detto il Dîn-kart, cioè il trattato della religione, secondo il quale i libri o capitoli erano appunto ventuno. Dai titoli di ciascuno si può rilevare quale anche ne era il soggetto. In questo, pertanto, si trattava, per esempio, della creazione, in quello del cerimoniale liturgico; in un altro, dell'ufficio sacerdotale; poi, del diritto criminale, della storia del genere umano, formandosi così una vera e propria trattazione di tutto il sapere di quei tempi. Questi libri, inoltre, erano ordinati e disposti per tre classi. La prima era tutta una raccolta di canti e d'inni; la terza era tutta di natura giuridica, mentre la seconda tramezzava, come pare, tra la prima e la terza. Confrontando ora diligentemente le parti dell'Avesta che tuttora possediamo, con cotesta serie di libri e coi loro titoli, apprendiam facilmente che esse non sona altro che i frammenti superstiti di questo o di quello dei libri antichi, frammenti superstiti di una gran rovina, stati poi assai inettamente posti l'uno accanto dell'altro e anche più inettamente ricuciti. Unico libro pervenuto a noi nella sua integrità è, come abbiam detto, il Vendîd. Le Gâtha poi formano alla loro volta tutto un complesso che sta da sé e appartengono alla prima delle tre classi, a quella dei canti, mentre le parti restanti dovevano appartenere ora a questa ora a quella classe, secondo la natura degli argomenti.

 

9. - Abbiamo accennato or ora ad una grande rovina a cui sarebbe soggiaciuto il sacro libro. Lasciando da parte le dubbiose e incerte notizie che intorno ai libri attribuiti a Zarathustra ci danno gli scrittori greci, Erodoto, Ermippo, Nicolò Damasceno, Dione Crisostorno, Strabone, ci atterremo piuttosto alla tradizione indigena dei Parsi, dalla quale, tolte le parti leggendarie e favolose, si raccolgono con una quasi certezza le notizie che ora diremo. E ci si attesta anzitutto che, prima che Alessandro Magno passasse in Asia, esisteva già formata e ordinata l'ampia raccolta dei libri dell'Avesta nel numero e nell'estensione che avanti abbiam detta; che dopo Alessandro essi andarono dispersi, perduti anzi in gran parte, e ciò per opera rea di esso Alessandro, come affermano i Parsi; che una prima ricerca e una prima raccolta dei frammenti superstiti fu fatta per ordine del re Valkhash, della dinastia dei Parthi; che un primo e proprio riordinamento ne fu fatto al tempo del re Ardeshir (226-240 d. C.), primo dei Sassanidi, per opera dell'arcimago Tansar ovvero Tosar; che un'altra revisione ne fu eseguita al tempo del re Shahpur I (240-271 d. C.); che finalmente un riordinamento definitivo, che è poi la redazione dell'Avesta o meglio l'Avesta stesso venuto fino a noi, fu quello ordinato e condotto dal re Shahpur II (310-379 d. C.). A quel tempo, un insolito ardore per la fede paesana aveva invaso gli animi tutti, e lo stesso ardore che spingeva il re a perseguitare fieramente il Cristianesimo in Siria (è questa la grande epoca dei martiri siri), lo induceva a pubblicare un decreto secondo cui si ordinava ai sudditi di riconoscere come autentica e canonica tale ultima redazione dell'Avesta, ordinata da lui ed eseguita per lui dall'arcimago Azer-pad. Il decreto reale fu, s'intende, obbedito, sì che anche oggi i Parsi, quando fanno lor professione di fede, dichiarano anche di accettare e di riconoscere l'Avesta soltanto nella forma che l'arcimago Azer-pad gli ha data.

 

10. - Vengono ora opportune alcune osservazioni. Non c'è alcuna fondata ragione per accusare Alessandro della dispersione dell'Avesta e della conseguente perdita di molti fra i libri d'esso, anche se di ciò lo accusano i Parsi, essi che sogliono chiamarlo, per l'odio che ne hanno, il maledetto. Provenendo dall'odio, l'accusa non può essere interamente giusta, e d'altra parte è noto che Alessandro non era intollerante verso le religioni dei popoli da lui visitati e vinti, non si occupava né dei loro riti né delle loro credenze, che, mentre aveva ben altre cose a cui attendere, poco o nulla gl'importavano. Anzi, se gl'importavano, gl'importavano in senso favorevole, perché è pur noto che i soldati macedoni che l'avevano seguito in Oriente, l'accusavano, rozzi come erano e incolti, di assumere costumi e riti asiatici, i persiani in particolare. Non può affermarsi o supporsi adunque ch'egli volesse offendere tanto gravemente la nuova gente in mezzo a cui si trovava, col distruggerle nientemeno che il libro che essa credeva rivelato dalla Divinità. Diodoro Siculo tuttavia e Quinto Gurzio attestano ch'egli fece ardere il palazzo reale di Persepoli, dove, secondo certa tradizione, era custodito l'archetipo dell'Avesta; e in questo senso potrebbe anche esser vera l'accusa dei Parsi. Ma quell'archetipo era forse il solo, l'unico esemplare dell'Avesta, per cui, arso quello, tutto doveva essere perduto?

O piuttosto la vera cagione di tanto si deve cercare nel perdersi e nel diminuire, avvenuto quasi d'un tratto quando l'ellenismo penetrò dopo Alessandro in Oriente, del sentimento nazionale e religioso. Ricordiamo che erano greci i successori immediati di lui, che fautori della cultura greca erano i re Parthi o Arsacidi, venuti dopo i successori di Alessandro, che le arti e le lettere greche erano coltivate con grandissimo ardore in tutte le grandi città dell'Asia, dal Mediterraneo, si può dire, all'India. Comunque sia, una certa dispersione e una parzial perdita dei libri dell'A Avesta c'è stata, e presto, cessato l'ellenismo e il favore che lo seguiva, si sentì il bisogno di ricoverarli dove che fossero e di riordinarli, si che, per tutto ciò, deve esser nel vero la tradizione dei Parsi, anche se in alcuni punti errata. Di quanto poi fosse grave la perdita e lontana la dispersione e di quanto laboriosa la ricostruzione, s'intende dal disordine in che si trova l'Avesta, quale ora l'abbiamo. La lingua poi, sgrammaticata in più punti in modo barbarico, indica troppo chiaramente che chi tenne a memoria quei dati frammenti, non la intendeva più, e però la storpiava. La lingua, infatti, dell'Avesta, appartiene all'antico evo iranico, e nell'evo medio, ovvero nell'avvicinarsi dell'evo medio, già era cessata dall'uso comune.

La tradizione indigena soggiunge, inoltre, essersi dato un primo pensiero al ricuperar l'Avesta soltanto al tempo del re dei Parthi, Valkhash. Questo Valkhash non é che il Vologese degli scrittori classici. Ma cinque re Parthi portarono questo nome, e la tradizione non ci sa dire di quale dei cinque intenda parlare. Il primo Vologese era contemporaneo di Nerone; ma, a quel tempo, l'ellenismo era ancor troppo sparso e radicato in Oriente perché si potesse pensare a farvi una opposizione qualunque. Però è meglio passare al terzo che regnò dal 148 al 191, e che, nel lungo e pacifico regno, potè pensare meglio che ogni altro sovrano a ristorare quei libri nei quali era come depositato il pensiero della nazione accanto ai dogmi della fede.

L'Avesta adunque che ora possediamo, passato per tante vicende fortunose, riveduto e rifatto più volte, non è che l'ultimo lavoro dei redattori di più generazioni, dal tempo del terzo Vologese a quello di Shahpur II, il cui regno scende fino all'anno 379. L'ultimo compositore od ordinatore fu l'arcimago Azer-pad. Ma, con quali criteri l'arcimago Azer-pad abbia condotto la difficile e importante opera, è quanto ora non si sa e, forse, non si saprà mai.

 

11. -  Ma, quale l'età, quale la patria, quale la lingua dell'Avesta?

Poiché esso non ha, non porge alcun dato cronologico per fissarne, anche approssimativamente, l'età, bisogna appagarci di porre certi termini, veramente tutt'altro che sicuri, certi limiti, entro i quali sembra probabile ch'esso abbia potuto iniziarsi e svolgersi, essendo esso non già l'opera di una persona sola, ma di più persone, vissute, inoltre, in tempi diversi. Quanto all'età della sua ultima composizione, dopo ciò che avanti si è detto, non sembra che rimanga più alcun dubbio. Essa cade tra il 310 e il 379 d. C. Quanto al principio, noteremo che altro è considerar l'Avesta come codice o libro sacro, quale è, procedente dal pensiero dalla dottrina di un legislatore, e altro è tener conto di certe idee o dottrine o concetti religiosi primitivi che possono, come vedremo, averlo compenetrato in parte. Nel primo caso, tutta la questione e la soluzione sua consistono nel fissare e determinar correttamente il tempo in cui il legislatore ha vissuto; nel secondo caso, essendo quelle idee o concetti quasi tutti propri di religione naturalistica, affini ai concetti dei Vedi indiani, e rimontando in gran parte fino alle prime origini della gran famiglia indoeuropea, ognuno intende che è affatto impossibile determinarne l'età prima, che si perde nell'antichità più remota.

Dato poi, per il primo caso, che Zarathustra sia personaggio veramente storico, non già mitico o favoloso, poiché tante testimonianze autorevoli, orientali e classiche, lo attestano, si può con certa tal quale probabilità affermare ch'egli dovette vivere nel quinto o nel sesto secolo avanti l'Era volgare. Verrebbero così direttamente da lui quei primi e vetusti canti, le Gâtha, annunzianti una dottrina elevata, pura, monoteistica; le altre parti dell'Avesta sarebbero dovute ai discepoli primi e poi ai continuatori suoi nei secoli susseguenti, che seppero bellamente convertire in dualistica la dottrina monoteistica di lui, facendola inoltre andar d'accordo coi concetti religiosi naturalistici del grosso della nazione. Tutto cotesto non é che mera congettura, ma congettura con la quale soltanto s'intendono e si spiegano molte cose; e tutto consiste nel determinare con la maggior sicurezza probabile l'epoca in cui visse Zarathustra. Gli scrittori classici gli attribuiscono un'antichità favolosa, perché Xanto il lidio ne pone l'età a seicento anni prima della guerra di Troia, ed Ermippo a cinquemila, e Aristotele ed Eudosso a seimila avanti Platone. La tradizione dei Parsi, invece, é assai più attendibile, e la data di cinque o sei secoli avanti l'Era, assegnata di sopra, ci è suggerita da essa. Essi dicono che il loro profeta visse tre secoli prima di Alessandro, che fu contemporaneo di Ciro il grande, fondatore della monarchia persiana, col qual sovrano appunto ci troviamo all'epoca ora congetturata.

 

12. - Più difficile ancora determinar la patria sia dell'Avesta, sia di Zarathustra. L'Avesta conosce e va mentovando molti luoghi, molte regioni dell'Iran orientale e occidentale; prevale tuttavia, così almeno pare, la conoscenza della orientale. Sennonché, grandissima parte di quei nomi di regioni, di paesi, di acque, che vi si leggono, è di natura mitica e favolosa, e nessuno veramente saprà dire in qual parte del mondo si trovi, per esempio, il monte Hara-berezaiti, che circonda la terra, o il lago Kansava, da cui verrà il Salvatore alla fine dei giorni. Poco fondamento, perciò, ci possono dare simili notizie geografiche. Osserviamo poi come di passaggio che anche tutto quanto il lungo racconto epico del Libro dei Re si riferisce alla parte orientale dell'Iran, e che alle imprese degli eroi che esso ci narra e descrive, fa non infrequenti cenni l'Avesta stesso. Ma, anche con tutto ciò, assai più gravi ragioni ci fanno intendere, come si vedrà da quanto diremo appresso, che l'Avesta, opera complessa di più persone e di più età, appartiene all'Iran occidentale e propriamente alla Media dove la casta sacerdotale dei Magi elaborò lungamente e svolse teologicamente la prima dottrina gettata come primo seme da Zarathustra. Ma ciò, ripetiamo anche una volta, si vedrà meglio e s'intenderà da quanto si dirà innanzi. Che se poi certi racconti epici dell'Avesta appartengono all'Iran orientale, ciò vuol dire che si è sentita necessità di dover toccare, appunto nell'Avesta, anche quei racconti che dovevano essere ed erano tanto cari al popolo e dei quali non si potè smentire il luogo d'origine in alcuna maniera. Ma, anche di questo connubio, per così chiamarlo, di una dottrina elevata religiosa con le antiche saghe epiche, si parlerà a suo luogo con quell'ampiezza che sarà necessaria.

 

13. - Della lingua dell'Avesta abbiam già detto alcun che nel precedente capitolo, né giova ripetere ora ciò che già é stato detto. È certo che essa è una lingua schiettamente iranica, sorella della persiana usata dai monarchi persiani nelle loro iscrizioni; che forse appartenesse alla Media abbiamo anche accennato prima, pur non essendo la sola lingua della Media dove tante razze s'erano incontrate. Le Gâtha invece sono composte in un dialetto affine; ma nemmeno di questo si conosce la patria, non essendo certo per nulla che esso fosse della Sogdiana come si volle congetturare da qualche dotto studioso. Dato poi che alcune parti dell'Avesta siano anche di età alquanto recente, nulla ci vieta di supporre che, cessata nell'uso la lingua Avestaica in un tempo che non sappiamo determinare, essa si usasse, come lingua dotta o lingua sacra, dalla casta dei Magi di Media allo stesso modo che la lingua latina e la sanscrita lungamente furono adoperate da dotti e da sacerdoti quando già da gran tempo non erano più parlate.

 

14. - Notizia, sebbene incerta e confusa, di libri stati composti da Zoroastro si aveva già dagli scrittori greci e latini e anche del Medio Evo; ma nessuno sapeva né che ci fossero o dove fossero o se fossero veramente esistiti. Nelle biblioteche d'Europa, in quelle particolarmente di Copenaghen, d'Oxford, di Parigi, si vedevano manoscritti dell'Avesta, ma nessuno sapeva leggerli o accertare se erano quelli veramente i tanto vantati scritti. Così eravamo alla metà del secolo XVIII, quando un animoso e geniale francese, Abramo Giacinto Anquetil-Duperron, concepì il disegno di recarsi in India presso i Parsi per rintracciarli e farne anche, se era possibile, una traduzione. Non aveva i mezzi per l'impresa ardita. Non poteva aspettare che l'Accademia di Francia glieli fornisse, e però entrò in qualità di soldato gregario nella Compagnia inglese delle Indie, e partì con essa il 7 di Febbraio del 1755.  Il 10 di Agosto di quell'anno era a Pondichéry. Superate le prime e inevitabili difficoltà, dal 1758 al 1761 stette a Surat, fattosi discepolo d'un sacerdote zoroastriano, di nome Darab. Sotto la guida di lui, tradusse l'Avesta. Tornato in Europa, a Parigi, nel 1771, pubblicò, compresa in tre volumi, quella sua traduzione in francese, che subito, come è facile intendere, levò rumore grandissimo.

Ma se degno di ogni più bella lode è l'atto ardito del nobile e generoso francese, l'opera sua reca difetti gravissimi, non veramente per colpa di lui, tanto che ora, divenuta ben presto e antiquata e inservibile, non ha altro merito che quello d'aver destato e richiamato la mente degli studiosi su d'uno dei più solenni monumenti della letteratura orientale. N'erano poi difetti capitali, in primo luogo, il non essere stata condotta sul testo dell'Avesta, come, del resto, l'autore in buona fede si credeva, sì bene, non sappiamo se per inganno del maestro o per altro, sulla versione pehlevica, non sempre sicura; in secondo luogo, la scarsissima conoscenza dell'Avesta e delle cose Avestaiche da parte di Darab, ignorante al pari degli altri correligionari suoi. Questi anzi, al dire dell'Haug che ne conobbe alcuni in India, tanto poco sapevano della lingua dell'Avesta che asserivano di non poter comprendere come il nome del Dio creatore, Ahura Mazdao, di tanto in tanto mutasse di forma! Non intendevano, cioè, che esso cambiava secondo i casi in cui era declinato, e confessavano intanto, con mirabile candore, la totale ignoranza di ciò che più dovevano sapere.

Quanto all'Europa, i più, gl'Inglesi in particolare, accolsero con certa diffidenza l'opera dell'Anquetil. Gli  Inglesi anzi, per certa lor particolare gelosia perché molti di essi eransi già occupati, e con bella lode, delle letterature orientali, e l'India era già stata da loro molto studiata, impugnarono arditamente l'autenticità dell'Avesta quale, almeno, si leggeva nella traduzione del francese. Il Jones poi dispettosamente attribuiva a Zoroastro gli errori dell'Anquetil, e proclamava inoltre impostore e ciarlatano esso Anquetil, spiegando in ciò una virulenza d'animo che ancora gli fa torto. Eppure era anche lui valente e stimato cultore di lingue e di letterature orientali, specialmente della persiana! Dubitò dell'autenticità della lingua originale dell'Avesta, chiamandola un gergo inventato dai Parsi, e quanto a Zoroastro e alla pretesa opera sua, diceva: “ Tutto il collegio dei Guebri (i Parsi) farà quel che potrà per persuaderci, ma noi non crederemo mai che il più inetto ciarlatano abbia potuto scrivere le scempiaggini di cui formicolano i vostri due ultimi volumi. O Zoroastro non aveva il senso comune, o non ha scritto il libro che voi gli attribuite. Se non aveva il senso comune, bisognava lasciarlo nella turba volgare e nella oscurità. S'egli poi non ha scritto questo libro, è stata una impudenza la vostra nel pubblicarlo. Così, o voi avete offeso il gusto del pubblico offrendogli delle scioccherie, o voi l'avete ingannato spacciandogli delle imposture, e voi, nell'uno e nell'altro caso, ne meritate tutto il disprezzo”.

La disputa così andò innanzi ora più ora meno acerba, finché, pur con stento, si giunse a riconoscere, anche coi molti e gravi errori in cui egli era caduto, la buona e perfetta onestà dell'Anquetil, e l'autenticità dei libri da lui tradotti e pubblicati. Ciò avvenne in particolare quando il danese Rask, dottissimo, intorno al 1820, cioè quasi cinquant'anni dopo la pubblicazione dell'Anquetil, pensò di decifrare per il primo il testo vero dell'Avesta, da che la versione pehlevica erasi mostrata insufficiente. Lavorò sui manoscritti che se ne conservano nelle biblioteche di Copenaghen, e i lavori suoi segnarono allora soltanto il principio d'una vera ricerca razionale. Questa fu dottamente proseguita da Eugenio Burnouf, eminente e geniale filologo francese, che tra il 1833 e il 1835 diede fuori il suo Commento del Yasna, e vi adoperava, per decifrare l'ignota lingua, la comparazione con la persiana e con la sanscrita. Accettava però la tradizione dei Parsi, ed eragli di aiuto intanto, pur guardandosene dagli errori, quella versione pehlevica su cui l'Anquetil prima di lui aveva lavorato. Ebbe illustri discepoli e seguaci, lo Spiegel, il Justi, il De Harlez, il Geiger, per opera dei quali l'Avesta fu tutto, dietro le orme di lui, interpretato e dichiarato. Restano ancora alcuni punti oscuri, massime nei canti zoroastriani, che forse non si potranno mai adeguatamente dichiarare; ma, intanto, l'Avesta, mercè questi valentuomini, è libro ornai che si può leggere e intendere come qualunque altro libro di letteratura.

Questa del Burnouf fu detta la scuola tradizionale, perché, interpretando l'Avesta, si appoggiava in gran parte alla tradizione là dove essa poteva essere valevole guida. Ma ecco levarsi di contro un'altra scuola che fu detta dei sanscritisti, perché chi v'appartenne, tra primi il Benfey e il Roth (quest'ultimo, uno dei compilatori del grande dizionario sanscrito di Pietroburgo), intendeva che il testo dell'Avesta dovesse spiegarsi con l'aiuto soltanto della comparazione col sanscrito, ripudiando interamente da capo a fondo tutta la tradizione. Confrontando la lingua dell'Avesta con quella dei Vedi, a forza di etimologie e di derivazioni non sempre giuste e sicure, facevano o tentavano di fare una certa loro traduzione dell'Avesta, e non s'accorgevano di fare opera molto arrischiata e temeraria come di chi volesse tradurre i più antichi monumenti della letteratura latina aiutandosi soltanto col greco di Omero. Non si nega che la lingua dell'Avesta abbia strettissima affinità con quella dei Vedi e adoperi non di rado frasi, formule sacre e preghiere quasi identiche (nel che c'è affinità non solo di vocaboli, ma anche di idee), ma non tutto, assolutamente tutto, va inteso così, perché è molto pericoloso abbandonarsi alla sola etimologia o affinità delle parole per tutto volere intendere e interpretare. Anche se le voci sono e restano affini in due o più lingue quanto alla forma, ne può variare assai il contenuto, cioè l'idea che esprimono, e si provi qualcuno a confrontar tra loro voci affini latine, italiane, francesi, e vedrà quanto spesso ne vari, e quanto profondamente talvolta, il significato.

 

15. - Ulteriore studio che permise di penetrare assai più addentro nella struttura originale del testo e di scoprirne in parte la forma primitiva, fu quello, ardito e geniale veramente, di Carlo Geldner, professore a Tubinga. Nel 1877, pubblicò egli un suo volumetto intorno alla metrica dell'Avesta, col quale, escludendo i canti zoroastriani, si avvisò di ridurre alla primitiva forma metrica, versificata, le altre parti che la traduzione ci ha tramandate come scritte in prosa. Che l'Avesta, sempre escluse le Gâtha, composte in un metro perfettamente uguale a quello dei Vedi, fosse stato composto in prosa fin dal principio, era stata fino al Geldner l'opinione costante e dei Parsi e degli studiosi d'Europa. Ma egli, poiché le Gâtha avevano un dato loro metro, congetturò che anche le altre parti dovessero averne uno o uguale o di poco disuguale. Datosi all'opera, il geniale tentativo gli riuscì, almeno in gran parte. Il libro che più facilmente egli potè ricondurre alla forma metrica, fu quello dei Yasht, e v'ha ragione di ciò, perché quel libro contiene inni alle divinità antiche della nazione, alcuni anche sono di natura epica, e ogni antico racconto epico, nazionale, viene e procede dal popolo che soltanto in forma metrica sa e può celebrare le geste degli Dei e degli eroi.

Il metodo era geniale e proprio. Il Geldner ristabiliva il metro perduto con alcune poche regole, cioè dando la retta e congrua quantità a vocali e a dittonghi, che il testo reca non sempre esattamente scritti; dividendo in due, quasi a modo di dieresi, alcune vocali in certi determinati casi in cui il testo le notava semplici; restituendo certe vocali non notate nel testo, ma implicite nella organica struttura di questo o di quel vocabolo; contraendo in una vocale sola due vocali brevi o brevissime; levando tutte le glosse interpolate da copisti o da commentatori, per le quali visibilmente il metro era guasto.

L'ardita ma bella novità suscitò subito, s'intende, non poche dispute e controversie. Ma poi, col tempo, si capì che il Geldner doveva aver colto nel vero, sì che ora, per merito di lui, l'Avesta appare come opera originariamente stata composta in un metro particolare che all'ingrosso rende il suono dell'ottonario nostro, metro antichissimo ed essenzialmente popolare presso tante nazioni. Ma se egli ha colto nel segno nelle generali, nelle particolari non ha sempre colto; anzi, appunto per soverchio ardore di applicare in tutto e per tutto la regola sua sistematica, ora ha forzato il testo, ora lo ha stroncato, ora vi ha aggiunto qualche particella o voce sebbene di non grande rilievo. Ha voluto provar troppo, e da ciò è venuto il malanno, anche se rimane integra e buona l'innovazione sua. È sempre pericoloso, del resto, il cacciar le mani nei testi antichi e rifarli talvolta secondo il proprio talento. Nel caso poi di cui ora parliamo, appunto per provare al Geldner che anche un testo notoriamente scritto in prosa si può, ove qualcuno ci si metta di buona volontà, ridurre in versi, il De Harlez, che pur gli dava ragione in massima, ridusse in versi alcune parti delle prediche del Bossuet. Noi, in Italia, sappiamo come certe orazioni dello Speroni assai facilmente poterono essere ridotte in versi quinari che lo Speroni, benché studiosissimo dell'armonia del periodo, non si avvisò mai di fare.

 

16. - Fin qui la storia esterna, se così può dirsi, dell'Avesta. Bisogna ora che se ne faccia la storia interna.

Esso è il codice sacro, ritenuto come rivelato dalla Divinità, d'una particolare dottrina religiosa che, col Giudaismo e il Cristianesimo, è una delle più pure ed elevate dell'antichità. Il Brahmanesimo, invece, e il Buddhismo, più che religioni, sembrano essere due profondi e molto elaborati sistemi filosofici, accessibili, nella loro essenza vera, soltanto a menti molto elevate, laddove la dottrina dell'Avesta, pur con gli alti concetti del fondatore, volge maggiormente alla pratica della vita. Ha pochi dogmi, ma reca al fedele insegnamenti altissimi; ammette la vita futura, promette la venuta, alla fine del mondo e quando risorgeranno i morti, d'un Salvatore, annunzia il premio che toccherà ai buoni, e la pena dei malvagi che però non sarà eterna, inculca una morale nobile ed elevata, non inerte e inoperosa perché non conosce l'ascetismo brahmanico e nemmeno l'indifferenza e la calma del Buddhismo, inculca il lavoro, quello specialmente, proclamato da essa il più santo, il più utile, dell'agricoltura, insegnato dallo stesso dio creatore, Ahura Mazdao, al primo re, Yima, e da Yima propagato con l'esempio tra i primi mortali.

Questa dottrina ebbe nomi diversi. L'Avesta stesso la dice religione ahurica, dal nome di Ahura Mazdao, e zoroastriana dal nome del primo che la predicò. Da noi ora si dice Mazdeismo, dal culto tributato ad Ahura Mazdao, anche dualismo per certa particolar dottrina dualistica che la informò poi, come vedremo, e anche zoroastrismo. Comunque sia, essa è un bene ordinato e architettato sistema di religione che, come il Mosaismo, il Cristianesimo e l'Islamismo, procede dalla predicazione e dall'opera feconda d'una persona sola. Vi si sono aggiunte poi, e ne vedremo il come, alcune altre parti, dovute indubbiamente ad altre idee religiose e ad altri culti preesistenti, quelle radicate fin dal principio nella mente della nazione, questi praticati fin dall'antichità, che la dottrina di Zarathustra non potè cancellare.

Nella dottrina zoroastriana pertanto, quale ci risulta dall'Avesta, distinguiamo anzi tutto un fondamento, un substrato di primitive idee che diremo ariane, e anche indoeuropee; poi, tutta la parte, religiosa in più alto senso e anche filosofica, dovuta alla mente e allo spirito di Zarathustra, legislatore e novatore; in fine, tutte quelle parti che o sono venute da altre fonti, fonti straniere, ovvero sono rampollate per naturale e organico svolgimento, opera indubbiamente di discepoli e di seguaci nei tempi susseguenti, dalla dottrina stessa di lui.

 

17. - Senza dubbio la primitiva religione iranica era un naturalismo politeistico, proprio, del resto, a tante altre nazioni quando si trovano ai primordi della civiltà, ovvero nella età ancor primitiva. Le divinità del primitivo Olimpo iranico erano il Cielo, il Sole, la Luna, l'Aurora, la stella Sirio, le Acque, il Fuoco. Dal culto, anzi, di questa ultima divinità fu detto, sebbene erroneamente, che gl'Irani erano esclusivamente adoratori del Fuoco. Gl'inni vedici, quelli in particolare del Rigveda, son pure consacrati a simili ed equivalenti divinità, ciò che dimostra quanto stretto fosse il vincolo che congiunge la primitiva religione iranica all'indiana. E, del resto, attesta Erodoto che i Persiani del suo tempo adoravano soltanto il Sole, la Luna, la Terra, il Fuoco, le Acque, gli Astri, i Persiani, che, come pare, non professavano il Zoroastrismo, sì bene avevano una religione più semplice e di carattere più primitivo, vicina perciò all'originaria religione degl'Irani. Come gl'inni vedici, così anche gl'inni del quarto libro dell'Avesta, quello dei Yasht, si comportano verso le singole divinità con un loro fare particolare, del quale, tra noi, non si potrebbe trovare alcun altro riscontro se non in qualcuno degl'inni omerici. Narrano sovente e descrivono con certo entusiasmo che sta tra l'epico e il lirico, le imprese gloriose delle divinità, massime se queste son di natura guerriera. Veggasi, per esempio, l'inno a Mithra, che è uno dei più belli e più epicamente descrittivi.

 

18. - La parte che è dovuta in modo speciale a Zarathustra, si può determinare (pur con molte riserve e con molta circospezione) in una sua riforma per la quale egli portò in mezzo a quelli che poi gli si fecero seguaci, una spiccata idea monoteistica, che almeno da principio dovette fortemente contrastare col prevalente politeismo. Ma poi, per ragioni insite in questo stesso monoteismo di lui, ecco che la nuova religione, dopo lui, si volse al dualismo, e tanto in questo senso degenerò, che la religione dell'Avesta, quale si mostra in esso e quale fu professata e si professa tuttora, altro non é che un rigido e sistematico dualismo. Dire dualismo o zoroastrismo, ora, è la stessa cosa. Tutto ciò fu indubbiamente lungo e lento lavorio di scuole sacerdotali, venute su dopo il fondatore della nuova religione. Che poi Zarathustra inclinasse apertamente al monoteismo, s'intende già dal concetto ch'egli aveva del dio supremo, del dio creatore Ahura Mazdao. Il nome Ahura, come il nome Yahveh che la Bibbia dà al Dio d'Israele, significa l'Essere, cioè l'Essere per eccellenza; ed é ovvio l'intendere che simile concetto, alto e sublime, mera e pura astrazione metafisica, non può procedere che da una eletta mente speculativa, non può appartenere all'ordine delle idee proprie delle religioni naturalistiche. E sarebbe forse, questa idea, venuta a Zarathustra dai Semiti, anzi dagli Ebrei?

 

19. - Dato poi, come sembra vero, che gl'inni detti le Gâtha procedano direttamente da lui e ne riflettano il pensiero genuino, appunto sul monoteismo essi insistono manifestamente, e di concetti monoteistici si mostrano come compenetrati e pervasi, pur rinchiudendo in sé un certo germe di dualismo che doveva svolgersene poi. E il modo molto probabilmente deve esserne stato questo, cioè che Zarathustra, considerando che nell'animo umano sono innate due inclinazioni diverse, anzi opposte fra loro, l'una volta al bene, al male l'altra, l'una e l'altra va considerando e trattando come due spiriti diversi, contrari fra loro, dai quali procedono le azioni tutte dell'uomo quaggiù, le buone dal buono spirito, le ree dal reo. Dal concetto di questi due spiriti contrastantisi fra loro nel profondo dell'animo dell'uomo, fu ovvio, fu agevole passare all'altro di un contrasto tra bene e male insito in tutto quanto l'universo, ad una eterna battaglia tra due spiriti creatori, l'uno del bene, personificato in Ahura Mazdao, l'altro del male, personificato in Anra Mainyu, in una parola alla dottrina del dualismo che scinde in due campi opposti tutto quanto il creato. Per tal via, il dissidio del mondo interiore fu trasportato nel mondo universo esteriore; e ciò non altro poté essere che opera e lavorio speculativo e teologico dei seguaci di Zarathustra che in tal modo logicamente ne svolsero la dottrina. Ma se il dualismo venne poi, esso col monoteismo, sebbene non del tutto puro, di Zarathustra, si dovette imporre e sovrapporre a quel primitivo fondo di idee e credenze politeistiche e naturalistiche che di sopra abbiamo assegnate alla fede primitiva nazionale. Ne vennero indubbiamente contrasti e dispute e riluttanze, come avvien sempre in simili casi. E veramente Zarathustra, nello stesso Avesta, ci è presentato come un apportatore, in nome della Divinità, d'una dottrina novella fortemente contrastante con le idee e le credenze comuni e volgari, e gl'inni suoi si lagnano sovente di ciechi e di sordi in materia di fede, di eretici, di miscredenti.

È certo però che nessuna gente che abbracci una fede novella, tanto dimentica la fede antica da non trovarsene più alcuna traccia in tutto ciò che accetta e crede dopo la sua conversione. Chiamasi perciò superstizione tutto ciò che in essa rimane delle abbandonate credenze. Ma troppo grande, nel caso della voluta riforma di Zarathustra, dovette essere la distanza tra i concetti monoteistici di lui e le idee politeistiche della nazione, perché queste potessero cancellarsi e toglier via d'un tratto, anche lasciando dietro di sé residui e tracce. Ed ecco che, appunto per ciò, dovette farsi come un compromesso, secondo cui tutto quanto l'antico Olimpo iranico, con visibile studio, fu sottoposto ad Ahura Mazdao, primo creatore e supremo iddio, che divenne perciò padre del fuoco, cioè dell'antico dio del Fuoco, creatore del dio Sole, della santa e pura Armaiti che è la dea della terra, creatore e autore primo degli esseri tutti celesti e terrestri. Ne nacque pertanto una mista e nuova gerarchia celeste, bene ordinata veramente, ma pure alquanto ibrida, nella quale é ancor manifesto un primitivo e originario politeismo stato mascherato di monoteismo, degenerato, o piuttosto svoltosi poi e ridottosi ad essere un dualismo. È naturale inoltre che, anche essendo divenuto un dualismo, esso dualismo conservò e comprese le antiche divinità, ma le benefiche schierò e ordinò sotto Ahura Mazdao, le malefiche sotto Anra Mainyu.

Tanto è vero cotesto, che l'edificio novello, quantunque assai abilmente architettato, mostra i pezzi aggiunti e i tasselli. Ciò accade in particolar modo là dove era necessario far risaltare l'idea, il concetto di Ahura Mazdao, signore assoluto e creatore dell'universo, sopra le altre divinità lungamente enumerate ed esaltate nel testo primitivo. Quei testi, anzi, che più degli altri vanno pregni di concetti naturalistici e politeistici, recano più spesse che gli altri e più visibili le tracce di questo lavorio. E sono altrettante aggiunte, cioè interpolazioni fatte posteriormente, le quali aiutarono assai il Geldner nel ricostruirne nel modo che di sopra abbiam detto, il metro originario; o forse sarà meglio dire che, riconosciute da lui come interpolazioni e però tolte via, il metro originario gli risultò fra le mani nettamente rifatto. Ma chi fu l'autore di quelle aggiunte, di quelle interpolazioni? Non certamente Zarathustra; senza dubbio, invece, i discepoli suoi e i seguaci delle età posteriori.

 

20. - E v'è anche, nel Zoroastrismo, qualche parte che venne di fuori. Del monoteismo, come di dottrina d'origine semitica e forse ebraica, abbiam già fatto or ora un cenno. Si può aggiungere il concetto della creazione, o meglio il modo con cui viene espresso e nel linguaggio dell'Avesta e in quello della Genesi nella Bibbia l'atto del creare, il quale è inteso come uno spaccare, uno scindere, un lavorare, quasi materialmente, alcun che. A principio dell'Esodo si legge che l'Iddio d'Israele si chiamava Yahveh, che vuol dire l'Essere, cioè l'Essere supremo, l'Essere per eccellenza, il solo Essere, ed Essere, e non altro, significa il nome che l'Avesta dà al dio creatore, Ahura. Molti racconti ha l'antichità intorno al diluvio, ma quelli che maggiormente si assomigliano fra loro sono il semitico, nelle due forme date l'una dalla Genesi, l'altra dai cuneiformi assiri, e l'iranico secondo l'Avesta, nel quale altresì la descrizione del recinto in cui riparò Yima per ordine di Ahura Mazdao con la famiglia e con certe coppie di animali e di piante, ha una somiglianza singolare con l'arca in cui, per ordine del Signore, riparò Noè con i suoi. E il modo, inoltre, di rappresentar sui monumenti l'immagine sacra di Ahura Mazdao sovrastante, per così dire, ad un simbolico cerchio con due ali di sparviere aperte e stese, deve esser venuto agl'Irani, con ogni maggior probabilità, dai Babilonesi che l'avrebbero avuto, alla loro volta, dagli Egiziani.

 

 

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