Parte prima: definizioni, modi, strumenti ed obbiettivi

 

I metodi dell’esoterismo

 

Abbiamo visto il motivo della segretezza e il suo legame con il linguaggio.

Ora, per addentrarsi nel modus operandi dell’esoterismo dobbiamo sempre tenere presente che siamo di fronte ad una realtà senza espressione linguistica, o meglio che viene espressa ed incanalata dalla dimensione linguistica ma ne rimane fuori.

Facciamo un esempio: Due uomini in riva ad un fiume, uno vi si è già bagnato mentre l’altro no.

Il primo sa che l’acqua e fredda e vuole comunicarlo al secondo.

Adesso, se glielo dice a parole o glielo fa capire a gesti usa il linguaggio per trasmettere questa esperienza.

Quello che avrà acquisito l’altro uomo è un’idea generale del concetto freddo legato ai suoi ricordi riguardo ad esperienze simili e non l’esperienza di quella Realtà, di quel fiume in quel momento.

Ma diversamente sarebbe se l’uomo che già conosce desse indicazioni a quello che non conosce sul come bagnarsi senza annegare, di mettersi i sandali per non ferirsi con le pietre aguzze del fondale e così via.

Insomma l’esoterista usa il linguaggio per indicare il modo migliore per fare un’esperienza; il linguaggio per lui è un mero veicolo che conduce ad una meta di esperienza ricercata.

Dunque sarà proprio l’esperienza e non la parola dell’esoterista a costituire l’apprendimento esoterico.

Inoltre il tipo di linguaggio usato dagli esoteristi per accennare ad una serie di esperienze è di genere diverso di quello comune.

Il cammino di ognuno verso la Realtà, necessita di tecniche in grado di distogliere il soggetto dalla realtà del linguaggio per farlo giungere a questa esperienza.

Un esempio tipico di questo genere di metodi consiste nel kouan [1].

Il kouan consiste in un gioco domande e risposte tra maestro e discepolo nel corso del quale chi insegna cerca di fare raggiungere a chi lo ascolta la rottura degli schemi logici abituali.

Apparentemente il kouan è impostato su basi assurde, in realtà è un tentativo di rottura radicale con le trame concettuali della via quotidiana.

L’effetto è l’andare oltre i limiti di ciò che è costituito ed accettato per trovare la Realtà.

Ecco un esempio di un kouan classico:

Il discepolo chiede: “Che cos’è il Buddha?”

E il maestro risponde: “Tre matasse di lino al fondo del giardino”

Le coordinate della logica si spezzano nella ricerca di un significato reale, non astratto, senza l’aiuto di strutture precostituite.

Bisogna notare che il kouan non può essere spiegato, o lo si coglie o non lo si coglie.

Non si può parlare a tale proposito di conoscenza o comprensione in senso comune ma è più corretto parlare di intuizione.

Esperienza di una realtà che, trovandosi oltre il linguaggio, non può essere spiegata né capita, non ha senso, ma è.

In tutte le tradizioni troviamo qualcosa di molto simile al kouan, e gli esempi sono numerosi anche tra i detti popolari.

Rabelais ce ne offre un esempio stupendo quando illustra il dialogo su questioni metafisiche tra Panurgo, un perditempo e Thaumaste, un grande sapiente inglese, nei capitoli dal diciottesimo al ventesimo del secondo libro della sua opera capitale Gargantua e Pantagruel.

Nell’Islam troviamo tutta una serie di racconti assurdi ma particolarmente stimolanti per la coscienza.

Tra tutti gli sheikh o “maestri d’illuminazione”, Mulà Nasrudin [2] viene ricordato come maestro del sorriso.

Riporto un aneddoto che è un ottimo esempio di kouan in forma di un aneddoto riguardante Nasrudin:

Un giorno Mulà Nasrudin fu visto cercare affannosamente qualcosa per strada, al che un passante gli chiese: “Cosa cerchi Mulà?”

“Le mie chiavi” rispose l’interessato

“E dove le hai perse?”

“A casa mia”

“E allora perché le cerchi qui?”

“Perché qui c’è più luce”

Gli aneddoti riguardanti i sette saggi della Grecia antica sono una vera e propria miniera d’oro, il vero deposito sapienziale dell’occidente, una raccolta formidabile di kouan.

Il fatto che lentamente questo materiale abbia perso di interesse alla fine dell’epoca rinascimentale per andare sostanzialmente perduto dimostra come la chiave d’interpretazione fosse caduta nell’oblio e che questi brani iniziatici hanno finito per essere considerati dei semplici aneddoti ameni senza importanza.

Eppure fatto che questa fosse la sapienza su cui si basava la società dell’antica Grecia prima di Socrate dovrebbe mettere in guardia sulla profondità e la particolare natura di questi detti che venivano trasmessi oralmente, di bocca in bocca ed erano attribuiti a mitici “sette saggi” ovvero ad una fonte divina, solo in un secondo tempo identificata con personalità storiche.

Riporto un altro aneddoto che di solito viene attribuito a Solone o a uno dei sette saggi della Grecia antica: Un re un tempo decise di far dire sempre la verità ai suoi sudditi, e per questo motivo affisse un bando alle porte della città e fece costruire un patibolo.

Il bando avvisava che tutti sarebbero stati interrogati  e tutti coloro che avrebbero mentito sarebbero stati immediatamente impiccati.

Giunse Solone (o chi per lui) e gli chiesero “Dove vai?” “Vado a farmi impiccare”, rispose lui, “Questa è una bugia!” gridò il capitano delle guardie.

“Va bene, allora impiccatemi e io avrò detto la verità”.

Al che Solone chiede ingenuamente “Tu hai trovato la tua verità capitano?”.

In occidente il concetto aristotelico di considerare sapere solo ciò che è trasmissibile col linguaggio che è passato al cristianesimo e poi alla rivoluzione scientifica ha cancellato questa tradizione.

Tradizione che sopravvive sotterranea nella forma dei detti popolari, ingiustamente ritenuti semplici giochi di parole atti a suscitare divertimento ed ilarità.

In particolare ci tengo a riportare un divertente racconto popolare del centro Italia che ho ritrovato quasi del tutto uguale come vero e proprio koan utilizzato in Giappone [3]:

Francescani e Gesuiti vengono a litigare per stabilire di chi sia la proprietà di un terreno.

Presentatisi alle autorità, queste, un po’ imbarazzate, decidono che la proprietà del terreno conteso andrà a chi tra i rappresentanti dei due ordini uscirà vincitore da una contesa verbale.

Però, visto il vantaggio dovuto alla maggiore cultura del gesuita, tale contesa dovrà tenersi senza proferire parola ma solo tramite dei gesti.

Dunque, dopo essersi seduti uno di fronte all’altro davanti ad una tavola, il gesuita fa la prima mossa poggiando una pagnotta di fronte all’avversario; questo dal canto suo risponde poggiandovi accanto una bottiglia di vino.

Il gesuita dunque alza un dito, il francescano alza due dita, il gesuita ne alza tre, il francescano indica con le mani le sue parti basse.

La contesa è terminata con la vittoria del francescano.

Il rappresentante dell’autorità che non ha capito nulla della discussione si reca dal gesuita a chiedere spiegazioni.

Quello risponde: “Ha vinto lui perché quando io gli ho indicato il pane, il corpo di Cristo, lui mi ha risposto con il vino, il sangue di Cristo, allora io ho indicato l’Uno, il Padre e lui mi ha risposto con il Figlio, dunque io gli ho rammentato lo Spirito Santo; a quel punto egli ha invocato il sommo dogma della Concezione ponendo fine ad ogni possibile obiezione.”

Ma il nostro buon rappresentante della legge è per natura un uomo curioso e poi non è che questa delucidazione lo abbia molto aiutato nella comprensione, così si reca a chiedere spiegazioni anche dal francescano che così gli risponde:

“ Quello là mi fa: “prendi questo che non ci avete manco il pane da mangiare”, allora io gli faccio: “tò, guarda che noi ci abbiamo pure il vino””.

Allora lui mi fa: “guarda che ti acceco un occhio”, allora io gli rispondo: “io te ne acceco due” e quel fesso mi fa: “io te ne acceco tre” al che gli faccio “col piffero che me ne accechi tre!” e così ho vinto”

Dov’è la verità?

 

 

[1] Il koan è un gioco di domande e risposte nel quale vengono rotti i legami della logica ordinaria in modo da poter riuscire a fare raggiungere all’ascoltatore lo stato di “satori” o illuminazione improvvisa.

“satori” in giapponese significa tra l’altro anche “pugno” ad indicare la natura di questo risveglio subitaneo tanto simile all’effetto di un pugno in faccia.

Alcuni, all’interno del buddismo pensano che il koan sia di per se una forma di decadenza, dal momento che si tratta di uno stratagemma per raggiungere il satori invece di percorrere la lenta strada della meditazione e dell’autoperfezionamento.

[2] Fu un monaco musulmano del quale si conosce pochissimo; pare infatti che non sia nemmeno esistito e che, al contrario, costituisca un personaggio mitico che rappresenta il lato più assurdo ed irrazionale dell’iniziazione sufista.

Idries Shah dice che fu saggio, uomo di corte, mendicante, medico, giudice, maestro e pazzo.

Riassume in sé tutte le potenzialità dell’essere umano, della sua capacità di sfuggire alla logica quotidiana e di trasformare il mondo in un sistema assurdo all’interno del quale dobbiamo trovare in qualsiasi modo il cammino che conduce alla verità. Nasrudin riesce a trovare la via attraverso l’allegria e una reazione contro ogni logica razionale.

Ogni regione lo proclama come cittadino onorario.

È certo che il personaggio riuscì ad inventare un tipo di humour molto vicino al koan.  

[3] A cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps 101 storie zen pagg. 42 “Dialogo commerciale per avere alloggio” (vedi biografia)

 

 


 

 

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