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Il giorno uno “Dio disse: Che la luce sia. E la luce fu”. Il noto versetto del Genesi pone subito una questione di metodo suscettibile di trasformarsi in un problema sia di natura teologica che cosmologica. Non è mia intenzione l’esegesi né la rassegna di tutto ciò (forse troppo) che su questo versetto si è detto e scritto. Mi limiterò ad attirare l’attenzione su qualche interrogativo che discende dal primo dei dieci “Dio disse” del Berechith o Genesi [i]

Un primo interrogativo è se la luce preesista alla creazione. Il Sepher ha Zohar [ii] non ha dubbi in proposito, ritenendo la luce già esistente e fonte di un segreto indicato dalla gimatreya [iii] dei nomi luce e segreto aventi entrambi lo stesso valore numerico [iv]. A questo segreto si allude allorché è detto che una fiamma oscura, troppo oscura per essere vista, zampilla dall’Infinito. Si tratta di En-Soph-Or luce infinita che non si lascia vedere. Da questa infinita pagina oscura e velata come notte profonda si leva improvviso un minuscolo punto di luce.

Una metafora, accessibile all’esperienza comune, per descrivere questo fremito dell’Infinito è la fiamma che sale da una brace o da una candela che brucia. Nella fiamma che sale si notano due luci, la prima bianca e brillante, l’altra, più in basso, nera e che serve da trono di gloria alla luce bianca. Le due luci sono indissolubilmente legate. Il Sepher Yetzirah [v], forse il più antico testo ispirato alla Qabalah, presenta in proposito un’immagine che ebbe molta fortuna nelle speculazioni dei primi cabalisti storici. Si tratta delle fiamme che divampano alimentate dal carbone ardente. Tali fiamme sono le luci o sephiroth [vi] che si diffondono a partire dal primo punto di luce distintosi nella nerezza del carbone. Quel punto è la corona dalla quale ben presto si estendono altre nove luci: “Quando è conformato, Egli produce nove luci, che risplendono fuori di Lui, dalla Sua conformazione. E da Lui stesso queste luci scaturiscono, ed emettono fiamme, e si slanciano fuori e si estendono da ogni lato, come da un’alta lanterna i raggi di luce dardeggiano giù in ogni lato. E quei raggi di luce, che si estendono, quando qualcuno si avvicina per esaminarli, non si trovano, e vi è solo la lanterna. Così è Lui il Santissimo Antico Uno: Egli è quell’altissima Luce nascosta con ogni Nascondiglio, e non è trovato; eccettuati quei raggi (…) Ma Egli è in verità la Luce Superna, che è nascosta e non è conosciuta. E tutte le altre luci sono accese da Lui e da Lui derivano il loro splendore.  C’è un’altra metafora, non accessibile a tutti, e che forse è già più di una metafora: è la visione ad occhi chiusi  del mistico che tutta la letteratura sull’argomento descrive come l’apparire, dal fondo buio, di un chiarore improvviso seguito da uno splendore su cui si staglia una forma o si accende l’intero spettro dei colori [vii]. Per chi si diletta di ghematrie non sarà inutile osservare come la parola h z j m  Machazeh [viii], che in ebraico significa visione, faccia riferimento per il suo valore numerico ad altre significative parole. Del resto, la stessa esperienza quotidiana ci mostra, anche se su piani diversi e, per così dire, inferiori, che ogni nascita avviene nella luce ma prende forma nel buio. Senza neppure voler approfondire il discorso su taluni rituali collettivi in cui dono e appropriazione della luce ricapitolano simbolicamente il primo istante della creazione [ix]

Quel punto di luce, adombrato dalla luce infinita e per noi oscura, è il primo dei dieci “Dio disse” del Genesi ed è anche il primo istante della creazione. Facendosi altro da sé, l’Infinito si determina ad essere il finito illimitato. É davvero così? L’invisibile puntino da cui lo yud [x] (la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico) è tracciato è davvero altro? Osserviamo intanto che quel puntino di luce è per noi invisibile[xi] proprio come la luce oscura e, dunque, partecipa della stessa natura di questa. Da che riconoscere allora la luce che si diffonde da quel primo punto? La risposta è nel successivo versetto del Genesi: “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre”. La separazione consentì all’uomo - vista l’impossibilità di percepire il puntino luminoso o primo istante della creazione - di vedere finalmente la luce attraverso le cose. Ciò che significa vedere la luce nel contrasto con le tenebre. Naturalmente questa oscurità non ha nulla a che vedere con l’Oscurità da cui scaturì il primo punto di luce: “Questa luce scaturì dal cuore dell’Oscurità (…) dalla luce nascosta prese forma una segreta via d’accesso grazie all’oscurità del mondo di quaggiù e la luce poté manifestarsi”. Poco dopo, Rabbi Yossi chiarisce che l’oscurità che consente alla luce i manifestarsi nelle cose del mondo non ha nulla a che vedere con l’oscurità originaria: “Rabbi Yossi lo spiega così: (non si tratta dell’oscurità originaria) perché se tu affermi che è di questa Oscurità chiusa che sono state scoperte le profondità, sappi che tutte le supreme corone sono lì ancora nascoste e che per questo sono dette profondità”. Insomma, parafrasando lo Zohar, si può dire che sulla pagina scura dell’Infinito appare la pagina bianca della Thorah, così come su questa pagina bianca appaiono le lettere scure della Thorah.

A guardar bene, tuttavia, non c’è né doppia oscurità né doppia luce perché l’oscurità di quaggiù è solo apparente e l’oscurità di lassù non è altro che l’infinita luce che si svela in un punto e subito si nasconde per manifestarsi nel contrasto. Che la separazione della luce dalle tenebre sia soltanto apparente lo Zohar non si stanca di ripeterlo: “Élohïm separò la luce dalle tenebre (Genesi 1:4). Ora non bisogna credere che si tratti di una vera separazione. Infatti il giorno scaturì dal fianco destro della luce, la notte da quello sinistro. Entrambi nacquero insieme e poi furono separati…” Più avanti la separazione luce-tenebre è assimilata a quella tra maschio e femmina. Ciò non è detto per sminuire la donna come sembrerebbe a prima vista, perché semmai, a pensarci bene, la luce non si manifesta che a partire dal buio e questa pare proprio una verità che, anche se per motivi diversi, vale tanto per lassù come per quaggiù: “ Rabbi Isacco domandò: se così è, perché è detto: Élohïm differenzierà la luce dalle tenebre (Genesi 1:4)? Egli ricevette la risposta seguente: la luce fa nascere il giorno, l’oscurità fa nascere la notte. Dopo di che Egli li riunisce insieme ed essi diventano uno, come è scritto;  fu sera fu mattina, un (solo) giorno (Genesi 1:5), ciò significa che la notte e il giorno sono chiamati uno. Quanto al versetto citato sopra: Élohïm differenzierà la luce dall’oscurità, questo riguarda il tempo dell’esilio in cui regna la separazione. Rabbi Isacco disse: sino a quel momento il maschio era luce, la femmina oscurità. Dopo di che furono riuniti per essere uno. Essi non furono separati che per distinguerli (…) poiché in effetti non erano che uno, perché non c’è luce che per l’oscurità né c’è oscurità che per la luce. Essendo uno, differiscono nei loro colori ma restano sempre uno, così com’è scritto: Giorno uno (Genesi 1:5)

Occorre tener presente che l’assimilazione della luce infinita con Dio, che sembra emergere da quanto detto sopra, è solo un’approssimazione concettuale e che la possibilità di descrivere sia l’infinita luce (En Soph Or) che l’infinito (En Soph) è negata risolutamente sia dalle prime scuole storiche della Qabalah sia dalle speculazioni successive che hanno nello Zohar il loro punto di riferimento. Si consiglia piuttosto di astenersi da simili indagini e addirittura si arriva a dire che sarebbe meglio non essere mai nati piuttosto che rivolgere l’attenzione in questa direzione. Quando, nella scuola di Isacco il cieco, si nomina En Soph è più che altro per sottolineare l’impossibilità di conoscere l’infinito, [xii] mentre nello Zohar non si smette di ripetere che è impossibile afferrare l’essenza del segreto di ogni segreto, del senza principio e senza fine, di quell’infinito di cui si riesce ad immaginare appena, attraverso i sephiroth, una particella di luce piccola come la testa di un ago. In tutta la Qabalah regna pieno accordo sull’idea che; il Santo nome è ugualmente celato e manifesto. É celato come infinito (En Soph) e come luce infinita (En Soph Or), è celato però anche come finito illimitato, uno, testa, corona o Kether perché è un punto di quella infinita luce che si rivela solo nel diffondersi delle sue nove luci e nel contrasto con l’ombra dei corpi. E se pure Dio fosse identificato con l’infinita luce, bisognerebbe comunque distinguere questa concezione da tutte quelle che identificano Dio con la Luce per contrapporgli, in eterna lotta, il principio o dio delle Tenebre. Simili concezioni dualistiche non hanno cittadinanza né in Genesi, né in Zohar e neanche nella posteriore Qabalah di Luria. Neppure si dovrebbe parlare di ideali punti di contatto tra Qabalah e Gnosi, considerando che “La linfa segreta che anima i vari mondi gnostici è una concezione radicalmente dualistica, che oppone il corpo allo spirito, questo mondo di tenebre al mondo della luce…”  

 

 

 

[i] Dio disse, è citato nove volte nel 1°Capitolo del Genesi e precisamente ai versetti: 3-6-9-11-14-20-24-26-29. Compare una sola volta nel versetto 18 del 2°Capitolo. Qui, tuttavia, il nome di Dio non è più soltanto Élohïm, perché è preceduto dal Tetragramma o nome di quattro lettere: yud-he-vav-he. La questione riguardante il nome o i nomi di Dio è assai complessa. In particolare perché solo la decima volta che appare Dio disse, il nome Élohïm è preceduto dal Tetragramma? Una possibile risposta è data dall’osservazione che nelle precedenti nove volte Dio crea singoli aspetti della realtà, mentre la decima volta, dopo il cielo e la terra, Egli crea anche l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza. Si veda sulla questione: Yehudah ha-Lewi (medico e teologo castigliano vissuto tra il 1086 e il 1141) in Il re dei Khazari, trad.it. di E.Piattelli. Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp.193-197 e 214-217. Sull’importanza della creazione dell’uomo in funzione della completezza del nome di Dio, Isacco il Cieco, maestro della prime scuole storiche di Qabalah ebraica sorte in Provenza e in Catalogna attorno al 1200, soleva dire che nel giorno in cui Dio creò il cielo e la terra il nome non era completo perché l’uomo non era stato ancora creato e il sigillo non era stato ancora posto. Cfr. C.Mopsik,  Les Grands Textes de la Cabale, Verdier, 1993,  p.74. Mi sembra significativo osservare (in prospettiva di quanto dirò più avanti) che Isacco è detto il cieco perché in possesso di un eccesso di luce, cfr. Azriel de Girona, Quatro Textos Cabalisticos, introd. trad. y notas por M.Eisenfeld, Riopedras Ed., Barcellona, 1994, introd. p.26. [Torna al testo]  

[ii] Sepher-ha Zohar o Libro dello Splendore è un vero e proprio corpo completo di letteratura della Qabalah e si compone di 24 sezioni oltre ad alcuni trattati. Sugli argomenti, la data di composizione, l’autore: cfr. G.G. Scholem, La Cabala, trad. it. Roma 1989, pp.215-244 e il recente G.Busi, La Qabalah, Laterza, Bari, 1998, pp. 70-75. Per un maggiore approfondimento cfr. i capitoli V e VI di Le grandi correnti della mistica ebraica di G.G. Scholem nella traduzione italiana pubblicata nel 1965 per le edizioni Il Saggiatore, Mondadori. Una nuova edizione del libro è apparsa nel 1990 per la casa editrice, Il Melangolo di Genova. [Torna al testo]

[iii] S’intende con gimatreya il valore numerico dato dai cabalisti ad una singola parola o ad un’intera preposizione in forza del corrispondente valore numerico d’ogni lettera dell’alfabeto ebraico. I segreti numerologici (scrive G.G. Scholem, La Cabala, cit. p. 40) sodot, avevano due scopi. In primo luogo, assicuravano che i nomi fossero scritti esattamente come i compositori di ghematriot li ricevevano dalle fonti orali e scritte (…) In secondo luogo con questo mezzo era possibile assegnare significati mistici e intenzioni (kavvanot) a questi nomi, che servivano d’incentivo ad una meditazione più profonda. [Torna al testo]

[iv] z r Raz segreto ha lo stesso valore numerico (207) di r w a Or luce. Infatti, Raz è formata delle lettere resch (200) e zain (7), mentre Or dalle lettere alef (1), vav (6) e resch (200). Circa il valore numerico delle lettere ebraiche, tra i tanti testi in circolazione, si consiglia: P.A. Carrozzini S.I., Grammatica della lingua ebraica, Marietti, 1988. [Torna al testo]

[v] Sul Sepher Yetzirah o Libro della creazione, la cui data di composizione secondo gli studiosi oscilla tra il II e il VI secolo d.C. cfr. G.G. Scholem, Le Origini della Kabbalà, Bologna, 1990, pp.32-44 e, dello stesso autore, La Cabala, cit. pp. 14, 30-61, 70-72, 96, 101 e ss. [Torna al testo]

[vi] Sephiroth è stato spesso tradotto con emanazioni, facendolo derivare dall’etimologia greca, con ciò stabilendo un collegamento tra Qabalah e neoplatonismo. Più corretta è la derivazione dall’ebraico r p s Safor che significa contare e che dei sephiroth fa dunque dei numeri. Numeri primordiali della creazione, ben distinti dai misparim o numeri ordinari. I sephiroth sono perciò luci o pure forme del molteplice. Nella tradizione cabalistica, i sephiroth si dispongono sui tre pilastri dell’Albero della vita. Ad ogni sephirah o luce o forma del molteplice è attribuito un nome. Alla colonna centrale appartengono: 1 Kether (corona), 6 Tepheret (bellezza e armonia), 9 Yesod (fondamento o generazione), 10 Malchuth (regno o terra). Alla colonna di destra: 2 Hochmah (sapienza), 4 Hesed (grazia), 7 Netzach (vittoria). Alla colonna di sinistra: 3 Binah (intelligenza), 5 Gheburah (rigore o severità), 8 Hod (splendore). [Torna al testo]

[vii] L’esperienza mistica della visione dei colori è compresa (a parere di Abulafia 1240-1291, forse il maggiore tra i mistici ebrei) tra quelle della Qabalah, sebbene di tipo inferiore. Cfr. M.Idel, L’esperienza mistica in Abraham Abulafia, trad. it. Jaca Book, Milano, 1992, p. 61. Di rilevante interesse su Abulafia anche il IV capitolo del citato Le grandi correnti della mistica ebraica. [Torna al testo]

[viii] Il valore numerico di Machazeh visione è 60, con lo stesso valore: Kli recipiente (uno dei 72 nomi di Dio), Ganaz nascondere, Hineh ecco! Halakhah regola di vita, Gaon sapiente. In Abulafia è anche frequente la gimatreya ha Machazeh (65) la visione con Adonaï (65), terzo tra i nomi di Dio, dopo il Tetragramma ed Élohïm. [Torna al testo]

[ix] Così, è per l’iniziato della massoneria che entra nel buio del tempio per ricevere la luce, luce che gli sarà concessa dalla loggia che pure è immersa nell’oscurità o meglio che brilla di una luce troppo oscura per essere vista… [Torna al testo]

[x] Così, l’Infinito penetra la sua stessa aria e scopre un punto, lo yud. Cfr. Le Zohar, cit. 16 b, p.100. [Torna al testo]

[xi] La luce che il Signore, baruk ha-shem, aveva creato (…) fu subito nascosta, perché gli impuri non potessero gioirne (…) Ella fu riservata per i giusti (…) Ma sino il giorno stabilito (il giorno del mondo a venire) rimarrà nascosta, custodita in segreto. Cfr. Le Zohar, cit. Berechithh II, 31 b-32 a, p.179.  [Torna al testo]

[xii] Cfr. G.G.Scholem, Le origini della Kabbalà, cit. p.330. Sulle prime scuole di Qabalah, su Isacco il cieco e i suoi allievi, oltre al già citato testo del Mopsik, ibid. pp. 247-588.  [Torna al testo]

 

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