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Esoterismo e Gnosi nel Paradiso di Dante

Tutte le immagini della Divina Commedia di "Gustave Doré"


 

La coscienza storica - attraverso la varietà dei suoi tentativi, ed anche le fluttuazioni, le forme inadeguate, la moda dei tempi - testimonia nell'interesse (talvolta tormentoso) provato per Dante, che la Divina Commedia é essenzialmente un'opera di umanità meditativa, un'opera cioè di pensiero e di ricerca, qualcosa che investe la spiritualità della famiglia umana nel complesso dei suoi valori perenni.
Noi oggi non possiamo ancora definire il perché della Divina Commedia. Potremo trovare tutte le giustificazioni dettate dalle cognizioni storiche ed estetiche: potremo dire che fonte della Commedia sia l'anima di una Donna mortale, di Beatrice Portinari; oppure lo spirito di un Uomo il quale si sentiva destinato a ricondurre i credenti al vero Cristianesimo, Apostolico e Francescano; oppure il senso di disgusto per la miseria dei tempi e la consapevolezza di annunziare alla umanità disfatta dietro falsi miraggi, la parola della Pace nel simbolo di un Potere Universale; oppure ancora il motivo lirico della Bellezza, trasmesso per oscuri filoni, prima del Rinascimento, dalla poesia classica al nuovo ed antico poeta, che si assideva fra i sommi dell'antichità come un continuatore (ricordate la scena del Limbo). Ma, qualunque soluzione vogliamo dare al problema di una giustificazione ideale e pratica della Divina Commedia, non potremo mai fare a meno di ritrovarci su questo fondamento: La Divina Commedia é il prodotto di una spiritualità che medita sul mistero della vita.
In questa meditazione, l'uomo, il genio, perno di tutta la vicenda, vuole mostrarci che egli non è più se stesso, ma l'umanità, la quale ricanta la sua eterna canzone, affacciata sul vuoto a guardare l'infinito. E l'infinito, dalle immense pianure d'azzurro, risponde con la voce di una malìa senza nome: «Ciò che è in alto è come ciò che è in basso».
La vita é simile ad un circolo pieno di ritorni. Tutto è scorrere e rifarsi, anche se tutto é desiderare ed attendere. Ogni giorno che passa, noi ci tormentiamo inutilmente per vincere il senso del vuoto. E non ci accorgiamo che questo vuoto é per se stesso immobile. Siamo come alberi confitti nell'humus ove ritorneremo, ove si intrideranno le nostre ceneri in mezzo a tante altre scorie. Ed appunto perché siamo confitti alla terra, dovremmo avere gli occhi costantemente rivolti verso il cielo. Dovremmo capire insomma, che questa vita, la vita che noi riempiamo continuamente di cose inutili, di piccole ambizioni, di desideri sconfinati verso il possesso di benefici illimitati; l’esistenza da noi dedicata con una sollecitudine degna di miglior causa, a configgerci sempre più alla terra, anziché avvicinarci al cielo, a materializzarci, in una parola; questa vita ha pure un tono di disequilibrio e di tormento, il quale non si esaurisce nella semplice solitudine dell'io disfatto dalla meditazione corrosiva, ma trae la propria origine dal ricordo di antiche vite, (direbbe Platone), dalla sete dell'universale, (dice la saggezza di ogni tempo).
La sete dell'universale é il segno più sicuro della nostra «umanità ». Umanità mentale; umanità fatta ad immagine di Dio, ovvero del Cosmo; umanità in quanto «res sacra », appunto perché contrapposta alla bestialità, al disvalore, al particolarismo: meglio anzi, al culto del nostro «particulare », secondo Guicciardini ed Hobbes.
Se vi é un punto nel quale noi possiamo veramente sentire la pienezza, anche tormentata, della vena umana e poetica di Dante, essa é proprio qui: é il punto in cui l'io si risveglia e si accorge di non essere soltanto persona, ossia maschera, come dicono Saggi, ma anche Io con l'iniziale maiuscola, come scriveva Fichte, ossia Personalità, non intesa nel senso comune, bensì quale appellativo di colui che é membro effettivo di una invisibile Comunione di anime. Esse vivono nella sete della universalità vissuta, nell'armonia dell'Essere, la quale é Giustizia. E formano - invisibilmente - la comunione dei cittadini del kantiano Regno dei Fini, dell'evangelico Regno di Dio. Formano insomma, una realtà esclusivamente interiore, e non dipendente da alcun fattore eteronomo, e si raffigurano nel dantesco Concilio dei Cavalieri del Graal di ogni tempo, avvolti nelle tradizionali Stole Bianche.
Comunque si prendano, questi simboli o questi concetti - ritrovabili del resto, con ricchezza inesauribile, in tutte le filosofie, in tutte le scuole di Oriente e di Occidente, in tutte le Chiese, in tutti i tentativi dello spirito umano di rinascere Uomo, superando la bestialità del particolare fisico o a dirittura fisiologico - una é la traduzione la quale di più ci avvicina alla meravigliosa utopia vissuta in arte da Dante. Essa vuol dire il conato perenne dell'io per superare le bassure ed attingere la visione del cielo, la certezza chiara e precisa della Legge che regola i mondi, dell'Iperuranio col suo corteggio di Idee incorruttibili, di Stelle condensate in grappoli di luce ed in collane immaginifiche. Legge guidante le cose - come canterà nei tempi più vicini a noi, Giuliano Kremmerz - a passare nel circolo dell'universale cangiamento, «dall'arena al diamante ».
È la stessa purificazione cosmica bandita da Empedocle, sacerdote e pensatore, e di cui vedevano l'approssimarsi nei calcoli misteriosi dell'astronomia, i Pitagorici, quando parlavano di Fuoco Centrale e di fine e risorgere del mondo. La stessa purificazione di Eraclito immaginante una vampa inesauribile che assorbirà tutte le scorie e, nello spazio sidereo, darà il via al mondo nuovo; ed é la stessa idea in fondo, concepita dagli Scandinavi, in attesa del Crepuscolo degli Dei, dello scatenarsi delle forze del male, vinte infine dal possente palpito dell'Armonia: il regno di Baldero. É l'ascendere dell'uomo incontro a un ideale di universalità, non semplicemente terreno ed associativo, ma cosmico e perenne, secondo un piano di evoluzione integrale, che é la descrizione stessa della vita, umana e divina ugualmente.
Kant diceva che la nostra maniera di agire é veramente morale, solo quando é suscettibile di diventare una norma per il maggior numero di individui; traduzione in termini di filosofia e di cultura, di una nostra aspirazione originaria ed eterna, la quale trova in Dante la più viva estrinsecazione in forma d'arte.
Dante è uno spirito assorto nella contemplazione del cielo. I suoi molteplici riferimenti astronomici non sono puri motivi di erudizione, ma rimandano ad uno sconfinato amore delle altezze. Lo stesso amore che faceva sognare Goethe e Kant sotto le stelle, ed ispirava al Bailly, dinanzi alla morte, un pensiero profondamente attuale: la morte ed il male sono nulla dinanzi allo spettacolo del Cielo! É una astronomia spirituale dunque – un dilatarsi psichico nei piani dell'immenso, un moto di espansione, non di contrazione. Non é certo la cappa di piombo della erudizione tolemaica: quella che costò sudore e sangue a Galileo e a Keplero. Dante vedeva nel rapporto terra-cielo, un irraggiarsi della vita dell'lo, rifatta luce pian piano, verso le sfere di più complete integrazioni. Si può dire che, in una segreta linea di accordi - (la ispirazione non é sempre ciò che si vede, ma serpeggia nel mistero delle anime, per esperienza incomunicabile) - Dante abbia ispirato Bailly, lo spirito umanitario, l'utopista travolto dalle contingenze fatali dei tempi, ed abbia ispirato pure Emilio Praga, quando questi dice a Miss Werther, vittima di un amore infelice, nella ridda della sorte cieca: «Or già l'anima tua fatta é splendore ».
Dante é tormentato da questa sete dell'eterno, da quest'opera di rifacimento nella Luce. Non allora o ieri, od oggi soltanto, ma in ogni tempo ed in ogni luogo, in tutte le lingue e in tutte le «verità», essa ha l'umanità intera per protagonista. Dante sentiva nel suo piccolo palpito l'Uomo; e non l'uomo hic et nunc, ma colui che cammina incontro al sole gridando Excelsior! comunque gridi questo desiderio. Ecco perché egli vedeva cielo e terra darsi la mano nella costruzione del suo poema, e si giudicava degno dei lauri, investito della missione sacrale, iniziato ai Misteri della Morte e della Rinascita, della Discesa e dell'Apoteosi, dal più grande Vate del passato: Virgilio; e si ripeteva costantemente l'ammonimento a salire più in alto, a non aver paura degli uomini (la tentazione di consistere nel particolarismo, nella preoccupazione del contingente, nel conformismo che uccide la follia dei saggi reietti dal mondo), facendoselo ripetere da fantasmi poetici incarnati, volta a volta, dagli amici, dagli avversari, o dai parenti suoi. Da ciò il lento e faticoso svelarsi della conoscenza, nell'acuirsi sempre più evidente della sua possibilità di vedere, cioè di comprendere e di aver coscienza, fino a quando la visione non diviene ricchezza suprema: visione cioè del Sole, della totalità del Concilio degli spiriti superiori, visione infine di Dio. É la scoperta del Mistero dell'Unità assoluta della vita, nello spiegamento logico del Ternario: mondo divino, inondo umano, mondo fisico; Dio, l'Umanità, la Natura, i tre cerchi di colore diverso e d'una contenenza.
E vediamo allora, per una sintesi rapidissima, quale sia l'ideale universalità della Commedia, intesa appunto non come semplice poesia, né come semplice ispirazione di Dante, figlio di un'epoca ormai fatalmente inattuale, bensì come meditazione interiore dell'uomo universale, dell'Uomo in una parola, assorto dinanzi al destino - tragico e meraviglioso ugualmente - di se stesso.
Se la Divina Commedia fosse soltanto un poema, il documento psicologico di un uomo, grande quanto si voglia, l'umanità non avrebbe motivo di ritornarvi su con tanta costanza e con tanto desiderio. L'umanità invece, vive perennemente il mistero della Divina Commedia, poiché esso é in fondo il proprio enigma; e l'universalità di Dante, ciò che lo rende poeta dell'universale, é la sua qualità di storico del mondo, di interprete della Vicenda cosmica sospesa «fra il tutto e il nulla ».
La vita é dissociazione e ricomposizione, passaggio dalla oscurità alla luce, dalla incertezza alla chiarezza, e ritorno alle tenebre, e rifacimento di nuovi involucri di luce, e lotta senza fine e quindi desiderio ed opera inchiodati in termini fissi.
Lo spirito che é luce, capacità di visione, armonia vivente si avvolge nelle caligini, si occulta, si maschera, perde la nozione di se stesso. La sua coscienza si oscura, mentre le tenebre si addensano: è la discesa, da cui noi, figli della terra, dobbiamo necessariamente prendere le mosse per incominciare a parlare di una storia umana, Quando Vico descrive il tracciato di una storia ideale eterna - é stato osservato dal De Ruggiero («La filosofia moderna ». III. Lat. pag. 69 e segg.) - qualcosa resta fuori stranamente isolata e senza nesso logico col resto del disegno evolutivo della storia universale. Vico infatti esclude dal normale racconto delle vicende della umanità, la storia degli Ebrei, rifiutando di applicare ad essa i criteri generali della propria teoria esegetica. Effettivamente non vi è una giustificazione razionale di tutto questo, a meno che non si voglia pensare a quelle tipiche forme di «nicodemismo », imperanti nella storia, in tempi di persecuzione religiosa (si pensi alle ultime opere del Campanella, scritte da uno spirito fiaccato da decenni di prigione). Ma non é forse questo il motivo della dichiarazione preliminare del Vico. La storia degli Ebrei non ha per noi tanto valore in quanto Storia degli Ebrei o Storia Sacra, bensì in quanto documento simbolico di un aprirsi della vita, di un inizio della storia, in funzione dello stato di caduta dell'uomo. Si può parlare di storia, quando ci si rende conto di questa tremenda verità: la discesa della natura creata (e qui intendiamo non l'uomo puro e semplice, ma l'Essere Cosmico staccatosi da Dio) nella tenebra del mondo materiale, nella caligine, nella «selva» nello stadio insomma, della mortificazione e dell'abbattimento, della non luce. Il grido di dolore di Dante é il grido del Primo Uomo.
La storia dell'umanità intera incomincia da tale punto. La caduta é avvolta nel mistero: essa stessa é quel mistero tremendo di cui parlava Empedocle; l'allontanarsi volontario dalla Sfera dell'Amore, il discendere per conseguenza, nella fluttuazione e nella incertezza, il rivestirsi di tuniche pesanti, di lembi di tenebra, di sete di distruzione e di involuzione.
La scintilla di luce precipita sempre più in basso, percorre bolge senza fine, attraversa gironi e cerchi, sente nell'intimo tutto l'orrore di se stessa, fino al supremo disgusto. Opportunamente è stato osservato che Dante, quanto più scende nell'inferno, tanto più perde di gentilezza e forse di dignità. In realtà diviene quasi cattivo anche lui: irride, beffeggia, mente: si ricorda Frate Alberigo, con cui Dante é sottilmente crudele (1). É evidente dunque che l'Inferno non é né la descrizione dei peccati di un uomo, né la riflessione sui peccati di un'epoca, né la meditazione ispirata al peccato in generale (nel senso cristiano e medioevale del termine). L'Inferno é la descrizione della involuzione del cosmo, della discesa della Luce in mezzo alle Tenebre, della fruttificazione malefica di questa Luce deviata, la quale, per egoismo, ha abbandonato il seno di Dio, ed ora continua a creare. Ma crea mostri, fantasmi, creature assurde, crea un mondo che gli antichi Gnostici chiamavano ektroma; e del quale in fondo, il nostro mondo fisico, é un riflesso particolare, giacché la nostra esistenza é retta fatalmente dalla legge biologica di riproduzione e distruzione; onde il più grande ingerisce il più debole, le termiti corrodono ogni cosa, la migale assorbe il volatile affascinato, e la formica gigante spolpa ii nostro corpo, se ci addormentiamo in piena foresta.
L'anima umana - e anche l'Anima del Mondo - é simile ad un viandante sperduto tra le bolge infernali. Quale valore fisico, geografico, potremmo dare noi all'Inferno - e così al Purgatorio e al Paradiso - se volessimo localizzare in un qualsiasi punto della vita del cosmo, in uno dei tanti mondi ad esempio, queste tre forme della esistenza universale? Probabilmente non sapremmo rispondere niai ad una domanda di tal genere, senza fare appello alla fantasia più aerea. Ma se ragioneremo un poco sulla realtà di questi mondi, vedremo che essi esistono davvero: non in una località geografica al di qua o al di 1à della morte, ma nella visione interiore, nella esperienza psicologica di ciascuno. Non Dante solo, ma ognuno, ha in sé il dramma di tutta la vita: male, purificazione, apoteosi; poiché ognuno é impastato di fango: di tutto il fango dell'inferno, ed é pieno di cielo, di tutto il cielo dell’Empireo.
La intuizione dell'uomo come essere rappresentativo dell'universo, come punto ove cielo e terra si congiungono, ispirava ai Maestri dell’Umanesimo, l'idea della copula mundi. Dante é il più grande precursore dei tempi moderni, proprio perché egli affida all'opera dell'lo, al soffrire ed al desiderare di ciascuno di noi, al tormento del nostro essere vero, il riscatto della divina scintilla dal mare di tenebre rappresentato dall'Inferno.
É l'etica di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, sotto le varie sfumature possibili. Perchè l'Umanesimo fu sopra tutto una profonda rinascita morale. Pose l'uomo al centro del mondo, e gli diede una responsabilità immensa, insegnandogli che egli non é soltanto cittadino della terra, tua cittadino dell'universo: la grande verità consacrata col sangue e col fuoco da Giordano Bruno. Ecco la vera rinascita della filosofia e della religione, una rinascita dell'io, dal particolarismo storico all'universalità, dal piccolo dramma della propria salvazione, al riconoscimento di se quale parte integrante del inondo, e quindi collaboratore, «amico», come diceva il Divino Maestro, di Dio.
Dante sapeva tutto questo, o almeno dovette intuirlo con una lucidità meravigliosa, poiché ha fatto del sito poema la descrizione della vita umana, la quale, dall'empirismo storico, tende ad integrarsi, a salvarsi, nell'universale cosmico. E siffatta intuizione - che naturalmente, dati i tempi non ancora maturi, Dante adombrò con molta saggezza «sotto il velame de li versi strani» - é modellata artisticamente con i mezzi che il Medioevo offriva, ossia con i concetti scientifici, filosofici, religiosi, dottrinari in generale, i quali formavano l'impalcatura della cultura ufficiale del tempo. Di tutto Dante seppe servirsi, restandone sempre al di sopra: e ciò è naturale possibilità, in rapporto alla potenza comprensiva del genio.
Dante vedeva dunque, oltre i tempi; e non aveva bisogno di essere tanto profeta, nel senso normale del termine, poiché il Neoplatonismo é la stessa fonte di ispirazione del dramma eterno avente per attori, Dio, l'Uomo, la Natura. Il Neoplatonismo infatti, non é solo una filosofia ellenistica, ma é pure il lievito profondo della parte più vitale del pensiero del Medioevo, da Scoto Eriugena agli Arabi.
Ma tale sistema non può considerarsi fine a se stesso. Esso é un aspetto della Filosofia, la quale non é strettamente, tecnicamente «filosofica », bensì meditativa e religiosa ugualmente. II mito della discesa, della caduta, o, come diceva Plotino, della Emanazione e della Conversione, è una intuizione complessa, ove religiosità e meditare, fede e logica, si ritrovano sorelle. E la Gnosi - manifestazione incoercibile di questo rifacimento assolutamente interiore e cosmico, del messaggio religioso di tutti i tempi - é la sintesi viva della Tradizione Misterica e del Cristianesimo, é anzi la rivelazione della loro sostanziale identità. Dante dunque ritrova, in siffatta posizione universalistica, la meditazione della storia e del viaggio dell'Essere Cosmico. E tale posizione è eterna ed attuale: in essa Dante continua a vivere attraverso la nostra stessa vita, attraverso la nostra discesa negli Inferi, il nostro desiderio di vedere le Stelle, la nostra sublimazione avvenire nel mito della perenne verità.
Giunto al fondo del calice, lo spirito umano trova nelle proprie energie interiori, nella esperienza attiva ed armonica della ragione illuminante, la forza di capovolgersi, di rifarsi, di rinascere. La favilla della luce ritorna alla matrice eterna, proprio facendo perno del suo risalire, il corpo di Lucifero, della luce prigioniera. Ed allora ha inizio il viaggio della sofferenza e della purificazione, ed ogni nuova esperienza é coronata da un nuovo successo, da un ulteriore alleggerimento cioè, simboleggiato dal cancellarsi dei peccati sulla fronte del mistico pellegrino. Mentre il Purgatorio - c ciò è stato posto giustamente in rilievo dallo Schelling - é luce ombrata, talvolta penombra, talvolta notte solcata da sogni profetici e da visioni, comunque un misto di chiarezza e di pesantezza d'ombre, il Paradiso è la ripresa pia intensa e feconda del Canto della Luce. Plotino diceva che tutta la nostra vita é opera di conversione, ossia di rifacimento; attraverso le virtù più semplici, quelle civili ed estetiche, alle virtù più propriamente morali, ed infine alla esperienza religiosa. L'arte, la moralità razionale, la cittadinanza operosa e solerte, sono le vie che salvano Dante dal baratro del disfacimento, e trovano la loro immagine sintetica in Virgilio, il quale assomma appunto le qualità di uomo buono, erede delle antiche virtù, vate della più perfetta autorità politica, quella Imperiale. In un secondo tempo Dante realizza nella figura di Beatrice, l'ideale mistico della potenza visiva, della lue completamente liberata. Infatti egli vede per mezzo di Beatrice, e tutta l'ascesa paradisiaca consiste in un acuirsi della potenzialità di visione.
La Gnosi narrava agli spiriti assorti nel mistero del male, la storia di un principio di vita allontanatosi dalla unità spirituale del tutto, dal piano cosmico dell'Opera Divina (Pleroma), e precipitato sempre più in basso, destinato a dare consistenza ad un mondo di fantasmi e di rovine: il nostro mondo, rigurgito di desideri aberranti e di infernali involuzioni.
Poi l'opera del Cristo, disceso fin nel seno del male, ricopertosi di una larva umana come la nostra, per riscattare il Principio caduto nella bassura, ricanta la vicenda della Luce a che é discesa nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno ghermita» secondo la profonda ispirazione gnostica del IV Evangelo. Noi, figli della Luce, ed in un certo senso figli anche del Male, vincolati ad una complicità innegabile, attraverso la nostra solidarietà colpevole con le Ombre, dobbiamo sentire tutto il peso della lontananza; dobbiamo provare il desiderio bruciante di risalire, dobbiamo immensamente amare, desiderare oltre ogni limite, per renderci degni di riprendere la via dell'ascesa. Quando tutto il genere umano avrà capito la necessità di riprendere la via della Luce, l'opera del Cristo, che é continua ed attuale, nel visibile e nell'invisibile, potrà dirsi finalmente compiuta, ed Acamoth, l'eone caduto, si trasformerà definitivamente nella immagine di Sophia, la Vergine, la Purità, la Figlia della Luce Perfetta. Se guardiamo un poco al Paradiso, scorgeremo appunto un processo di progressiva spiritualizzazione, in cui l'umanità si rende trasparente, e celebra la sua apoteosi nell'ideale della Purezza Assoluta, ossia della Luce liberata. Dante incomincia il viaggio con Lucia: la via della Luce, ed il principio femmineo diviene sempre più dolce e musicale. Beatrice é sublime forma, Veicolo Mistico, essenzialmente luminoso. Pensiamo per un momento alla limpida etica spinoziana, sfociante nella realizzazione dell'«homo sub specie aeternitatis », e vedremo in Beatrice «l'amore intellettuale di Dio» Ella non è la donna fisica, storica, reale, della vita di Dante. Probabilmente una Beatrice Portinari non é mai esistita; tanto più che Dante, rigido assertore della moralità familiare (si ricordi la rievocazione delle antiche donne di Firenze), non avrebbe mai commesso un torto eterno» verso la madre delle sue creature. Ed invece, proprio sul più bello, nella cantica della Espiazione, la Donna del Novenario, se la volessimo identificare ad una Beatrice Portinari storica, sembrerebbe, con la sua aggressività, niente più di un'amante gelosa. É invece la manifestazione più intensa di questo ideale di purificazione della umanità, la quale, riassunta nella pienezza della luce, diviene degna di accogliere la vita divina. Essa ci appare allora Myriam, la Purissima, la Rosa Mistica, il «Bel Fiore» cantato dai Sufi d’Oriente, l'ispirazione suprema del leggendario Maestro Cristiano Rosenkreutz, la «Turris Eburnea» delle litanie cattoliche, la Luna Nascente degli antichi discepoli di Ermete, il pegno sacro dato da Gesù sulla Croce al Suo più grande Discepolo: la Vergine Madre (2)



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Ecco dunque lo specchio schematico della meditazione di Dante sul problema eterno della umanità storica, ed il perché Dante debba considerarsi - prima che poeta legato ad un certo periodo di tempo poeta di tutte le epoche, poeta dell'universale cosmico. Il sogno mistico del Bruno, il quale si sentiva figlio del Sole e della Terra e cittadino del mondo, lo presentiamo nei versi di Dante. L'Eros celeste infatti, congiunge l'uomo a Beatrice; ed é l'eros uranico di cui parlava Platone nel Convito: il mediatore universale, il restauratore della unità delle cose, spezzata dall'egoismo particolaristico. Questo mito classico, determinante di poi «l'eroico furore», Dante lo sente e lo esprime in tutti i campi. Poiché egli é pur sempre uomo, e la sua umanità, (quando indulge all'egocentrismo inevitabile dell'esteta), é essa stessa ragione di grande poesia. Dante é legalo alla realtà della vita da un mistero, eterno come l'umanità che attanaglia: il Dolore.
Il dolore era provocato in lui dalla ingiustizia del mondo, ed il poeta riscontrava la fonte di questa ingiustizia, nella mancanza di orizzonti vasti, in una carenza di valori universali, tipica dei suoi tempi e un po’ di tutti i tempi.

Come Platone in mezzo ai tiranni ed ai pericoli della politica contingente, così Dante Alighieri é, nel turbinio degli interessi cozzanti, un pellegrino del Mito Umanitario. Dinanzi alle prevedibili reazioni della intolleranza religiosa - quando pone perfino i Pagani nel Cielo - egli invoca l'umiltà di stare al quia, nel concetto di una predestinazione occulta, destinata evidentemente a tramutarsi in salvazione universale. Primo apostolo della tolleranza, egli precorre così, i banditori di una Religione Eterna, superiore aspirazione c pure fondamento, di tutte le Fedi Rivelate. Sarà questo appunto il sogno dei Socino. E come egli voleva una Riforma delle Religioni, la quale avvicinasse il Cristianesimo storico delle Chiese al Cristianesimo mistico dell'ideale del Tempio, dell'Edificio eterno «murato di segni e di martiri », così nella politica, invocava la realizzazione del sogno ghibellino nella sua forma più pura: il potere internazionale.
Dante vedeva nell'Impero, non una forma storica, ma un ideale di Giustizia. L'Impero dunque, non poteva identificarsi per lui, nella persona e nella nazionalità di un capo. Giuseppe Rensi ha rivalorizzato appunto Dante, in quanto precursore di una legislazione internazionale e superpolitica, la quale consenta all'individuo (il valore assoluto della persona, intuito definitivamente dalla scienza moderna), di sentirsi svincolato dai poteri particolaristici dello stato geografico, ed invece cittadino di una Comunione Mondiale.
Ecco perché Dante, uomo senza focolare e senza legge si rivolgeva direttamente all'Imperatore, come fratello a fratello, come consigliere al delegato dei popoli, come figlio al padre, senza intermediari di vassalli o di comuni. Ecco perché Mazzini amò tanto Dante politico. Mazzini trasse dall'Impero Ghibellino, non il concetto di uno stato medioevale o il culto puro e semplice della tradizione di Cesare e di Traiano. Egli riconosceva nell'Impero Dantesco la Santa Alleanza dei popoli, la Costituente dell'avvenire. E come Dante, credeva ed operava, affinché un giorno - per la Costituente delle Nazioni ed il Concilio del Mondo - divenissero alfine sorelle tutte le Chiese, sorelle tutte le Patrie.
Perché Dante si affida proprio a Virgilio, quando dà inizio al viaggio nel grande ignoto ? Virgilio era la ragione concreta, la ragione aderente alla prassi. Virgilio non offre al suo discepolo, sperduto ed in pericolo, disquisizioni morali, argomentazioni teologiche, sillogismi ecc., tutte cose care ai filosofi, almeno a quelli ortodossi, ufficiali, del Medioevo.
Il Maestro impone immediatamente a Dante, la necessità di attraversare il mistero della vita, di penetrare l'oscura voragine che sta sotto i piedi a tutti noi - uomini del medioevo o del secolo XX - con la propria capacità sperimentale. Provare direttamente, pagare di persona, soffrire, in una parola. Tale è il verbo della esperienza concrea, della ricerca attiva, della creatività del destino secondo ragione ed armonia. É l'ideale del Rinascimento. Ed attraverso questo ideale di ricerca attiva e consapevole - per cui Virgilio non è la ragione degli Scolastici; ossia l'Aristotelismo più o meno incanalato in vie prefisse, bensì la ragione moderna - possiamo fermare le linee del Mito di Ulisse.
La figura di Ulisse, da sola, richiederebbe una trattazione a parte, ma noi la considereremo qui semplicemente come il naturale suggello, plastico ed immaginifico, dell'ascesi universalistica contenuta nella Divina Commedia.
Si veda innanzi tutto Ulisse, fuori della cornice un poco convenzionale, della colpa e della pena. Ulisse é stato posto tra i consiglieri fraudolenti, e questo riguarda l'uomo. A noi interessa il tipo, cioè - in un termine sintetico esprimente un orientamento dello spirito incentrato nella fissità di un punto ideale - il mito di Ulisse. In tutte le figure dantesche - si noti incidentalmente - é evidente lo sdoppiarsi del personaggio. Da una parte l'uomo storico, legato ad un particolare destino, e quindi coinvolto in una determinata pena, secondo l'architettonica (talvolta tradizionale rispetto ai tempi, talvolta innovatrice), della Divina Commedia. Dall'altra, l'uomo in quanto simbolo, più reale del primo forse, comunque l'individuo trasfigurato in una realtà poetica e filosofica. Farinata, ad esempio, in un senso é un dannato, nell'altro é l'amor di patria incarnato in un grande spirito. Costanza, da un canto é una beata, ma dall'altro è la madre di Federico II, la genitrice del rappresentante augusto dell'Impero, dell'inviato da Dio, che bisognava riscattare dalle dicerie di incubi e succubi immaginari, delle cattive lingue guelfe. Cacciaguida non é solo un antenato del Poeta, é piuttosto il mezzo di cui Dante si serve per consacrare la propria missione. E così via.
Vediamo dunque Ulisse: l'uomo che muore sul cammino della conoscenza, lo spirito della ricerca insonne, proprio di tutte le epoche, di tutte gli sforzi della immensa opera umana. É il mistico amante della Virtù e della Conoscenza, e cioè della Scienza e dell'Arte, della potenza illuminante, la quale sorge dallo spirito, per restituire alla natura umana la sua missione. Ulisse incarna l'ideale della evoluzione degli uomini, nei termini l'illuminismo Moderno: perché l'Illuminismo non é solo quello del secolo XVIII: é invece in ogni tentativo di dare alla coscienza, la piena responsabilità di una missione razionale. Dante é veramente Padre della stirpe nuova, non per una ragione estetica o linguistica pura e semplice, bensì per una reale paternità spirituale e storica. Il suo dar linfa al volgare, sia attraverso la trattatistica («De vulgari eloquentia »), sia mediante l'assunzione dell'idioma ancora oscuro, ad altissima poesia, é un'opera di illuminazione attiva, che affonda le radici in una ispirazione superiore ed occulta. Essa contrapponeva alla lingua del clero - ormai divenuta nella mente di tutti, il linguaggio per eccellenza (l'unico adatto alla vera cultura ed alle cose divine) - la lingua del laicato; ed offriva ai costruttori dell'avvenire, un prezioso strumento per l'aprirsi di nuove strade alla ricerca del pensiero, alla indagine, ed alla discussione dei problemi. Il monopolio chiesastico della cultura (e quindi della spiritualità umana in ogni sua possibile forma), veniva così infranto per sempre.
L'eroe greco impersona l'illuminismo dantesco: quel suo bisogna di allargare a tutti la mensa del sapere. Non era questo l'ideale del «Convivio» ? Passare dalla brutalità alla conoscenza, dalla cecità dell'istinto alla chiarezza del vero, dalla assurdità della vita vegetativa al tormento della ricerca sperimentale: ecco l'ideale di Dante, che Ulisse rappresenta, simile ad una esteriorizzazione fantastica dello stesso Poeta, sperduto nella distesa di ombre, rotte qua e là da fiammelle innaturali, ed assorto in fondo, nella contemplazione del proprio destino.
Ulisse non possiede tutto il principio base della Divina Commedia. La sua stessa fine alle soglie del Monte mistico é simbolo dell'ascesa della civiltà, fatta di precursori e di realizzatori, ma senza trionfi (se vogliamo, senza arresti) in modo assoluto. «Excelsior!» canta l'oscuro eroe di Longfellow, movendo presso la vetta intravista nella tempesta e nella foschia; dalla montagna, Mosé, legislatore e civilizzatore dà al suo popolo i canoni della Tradizione, e poi muore in vista della Terra Promessa; la civiltà intera é un tessuto di rinunzie, di sacrifici, di eroismi, spesso solitari ed ignorati. Quanti sono i maestri ignoti del vero? Noi onoriamo i geni che costituiscono i punti fermi, le manifestazioni tipiche, le zone conclusive, del grande dramma della civiltà. In arte, noi ci prostriamo dinanzi alle opere eccelse, e lasciamo volentieri indietro - spesso senza guardarle nemmeno - le opere dei precursori, di coloro i quali appaiono simili agli strati anonimi, ma necessari, su cui poggia il piedistallo del genio. Siamo portati ordinariamente a credere che il genio sia una efflorescenza autonoma, indipendente, assolutamente inaspettata; e dimentichiamo quante generazioni di esseri oscuri preparano la tecnica dello scalpello o del pennello, elaborano i soggetti imprecisi ed informi, abbozzano le idee ancora fantomatiche ed incerte; e lavorano così, ammucchiando uno sull'altro, le loro speranze deluse, i loro sogni spezzati, i loro desideri senza risposta, fino a quando non compaia l’Io superiore destinato a rappresentare tutta un'epoca, a conchiudere un mondo e a gettare un nuovo seme, a fare luce insomma per l'avvenire dell'umanità.
II Genio é una tappa del cammino degli animi, diceva Mazzini. E quel che abbiamo detto per l'arte, vale ancora più per la scienza. Oggi gli scienziati hanno dimostrato sperimentalmente che la materia é vita, perché le sostanze si trasformano una nell'altra; che non vi sono più barriere tra gli elementi, che il moto é insonne nella profondità delle cellule. Anche l'atomo ha svelato finalmente il suo segreto, segreto che l'ilozoismo presocratico intuiva millenni prima della bomba atomica, e che gli Alchimisti avevano annunziato all'umanità. Eppure oggi che, perfino la cosa più assurda, la fabbricazione dell'oro artificiale, é diventata vera, chi ricorderà i nomi di Paracelso, di Francesco Borri, di Frate Elia da Cortona? La chimica moderna é stata resa possibile, come ha dimostrato Gino Testi (Dall’Alchimia al Panteismo), dalle migliaia di oscuri Adepti della Grande Arte, folli e impostori;per l'ignoranza dei tempi, bruciati sui roghi ed esuli in perpetuo, costretti all'anonimo per sfuggire alle persecuzioni, eppure depositari della sublime verità: La natura é trasformazione e purificazione, é desiderio di luce che va dalla materialità allo spirito, dal Piombo all'Oro dall'animalità all'alito divino.
Ancora recentissimamente, la lebbra, é stata vinta. Essa resterà tra breve - per l'ultima scoperta di uno scienziato giapponese - il semplice ricordo di un passato mostruoso e terribile. Ebbene, si celebri in noi, tra la memoria dei precursori, il sacrificio sublime del medico greco dal nome fatidico Socrate Lagoudaki, che, nel secolo scorso, per studiare il male fin dal periodo più antico della incubazione, iniettò a se stesso il bacillo, offrendo il proprio corpo al disfacimento.
Ulisse è eterno: é il prototipo di questa schiera di martiri senza nome, di santi senza altare, di precursori dimenticati. Ulisse deve cadere nel gorgo, perché altri possa procedere oltre. La civiltà non é ottimistica esplicazione di disegni provvidenziali preordinati, ma è tormento di anime che cercano e ricercano la luce.
Ulisse doveva perire. Dante ha voluto insegnarci che la storia del mondo è la storia del dolore, e che la conquista del vero, l'estendersi dello sguardo dell'io ai confini del mondo, quella sete di universalità che innanzi abbiamo visto, sono condizionati alle rinunzie silenziose, ai sacrifici senza ricordo. Dante ha espresso in Ulisse un momento dell'opera, il momento più tragico, e senza dubbio quello maggiormente circonfuso di spiritualità etica. II retaggio ulissiaco fu cantato dall'Autore delle Laudi, in senso individualistico e nietzchiano; ma l'individualismo é falso perché non può mai divenire la fonte di un sacrificio. Lo capì - non per una sovrastruttura moralistica, ma per profonda intuizione - lo stesso D'Annunzio, quando infuse in Mila di Codro, il desiderio di farsi bruciare innocente invece di Aligi. Per questo atto, la donna che esprime ne «La Figlia di Iorio », il crisma della prassi vampirica e del disfacimento, diviene, nella parola profetica di Ornella, sorella «in Gesù ». In tale riflesso appunto, il mito ulisseo si libera di tutte le scorie dell'individualismo romantico, e l'eroe appare, non antitesi, ma forma, umile forma comunque, di una concezione Cristica dell'esistenza, di quel Cristianesimo (non legato ad una formula storica, bensì eterno), che il grande spirito di Ernesto Buonaiuti incarnava tra noi quando diceva essere l'insegnamento evangelico condensato in una semplice frase: metter la propria vita allo sbaraglio.
L'Ulisse di tutti i tempi, resta ghiacciato nel gorgo, mentre la vita continua, e continua per opera sua. Anche noi dobbiamo proseguire la strada, senza dimenticare coloro i quali ci hanno preceduti nella ricerca e nella meditazione, e sono caduti; caduti in tutti i campi, su tutte le barricate, onorando la verità.
Perciò, in serenità conciliativa, spogliato Ulisse dalle sovrastrutture mitologizzanti, sia dei consiglieri fraudolenti, sia dell'edonismo romantico, noi potremo ritrovare nella pura linfa della ispirazione dantesca, la glorificazione di questo primo momento, tragico ed oscuro, il quale segna l'inizio del risveglio dell'anima alla suprema realtà del Mito Universale, Consapevoli allora, della necessità di discendere agli Inferi, di sprofondarci nella cupa onda, di vivere di silenzio e di tormento, per rivedere un giorno le Stelle, ricanteremo a noi stessi - con le melodie del Grande Fratello Gabriele - il mito di Dante poeta dell'Universale, poeta della Morte e della Vita:
 

«Tutta la cenere è seme,
tutti gli sterpi sono germogli,
tutto il deserto é primavera ! ».



 



1. La bolgia dei traditori non impietra soltanto per l'orrore degli elementi scenografici, ma anche per la crudeltà del Poeta, ammantata perfino di gesuitico moralismo. Si pensi alla voce accorata la quale ricorda a lui (libero ed immune da pena), di non essere cattivo con i condannati dell'eterno:
 

«va’sì che tu non calchi con le piante
le teste dei fratei miseri lassi»
 

Dante invece, dapprima blandisce per curiosità, e quasi per pettegolezzo, Bocca degli Abati; poi lo «schioma» per obbligarlo a parlare, Infine, promesso a Frate Alberigo di liberarlo dalla ghiaccia accumulatasi sul viso, passa oltre dopo aver saputo quanto gli premeva; ed aggiunge una giustificazione volutamente etica: povera cosa per un uomo che tremava anche lui di freddo e che andava in cerca dell'Eros divino, già segnato comunque, dalla Misericordia. (Inferno: XXXII - XXXIII). Non è qui certo il Dante uomo, vittima e nemico degli ipocriti, bensì il Dante simbolo.

2. San Giovanni è l'ultimo dei tre Discepoli eletti dal Cristo alla Istruzione segreta (oltre a Pietro e Giacomo), che esamini Dante. La triplice prova del Poeta, adombrata in un esame teologico (a parte la libera ricerca dell'esaminando su certi problemi, che è apparsa per esempio, una riprova del diritto affermato da Dante - uomo e laico - a discutere questioni di fede), costituisce in realtà una vera e propria iniziazione per gradi. In essa, l'ultima e la più alta consacrazione rituale è l'esame giovanneo sul mistero sublime della Carità. S. Giovanni infatti è per Dante (discepolo Rosa + Croce):
 

«colui che giacque sopra il petto
del nostro pellicano; e questi fue
di su la croce al grande officio eletto».

 


 

Il documento che presentiamo ai nostri graditi Ospiti è opera d'ingegno di CARLO GENTILE dell'Università di Pisa. Il contenuto non esplicita necessariamente il punto di vista della Loggia o del G.O.I. Ogni diritto è riconosciuto.

 

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In questa stessa sezione:

Dante: Poeta dell'Universale

Tutte le immagini della Divina Commedia di "Gustave Doré"


 

PREMESSA

La Commedia - in quanto storia dell'ultimo atto di un amore partecipante dello umano e del divino, del visibile e dell'invisibile - si definisce, nell'aprirsi della scenografia paradisiaca, con la profilata sintesi Dante-Beatrice: ritrovamento ed insieme operazione magica, sostanzialità unitaria dello Amante e dell'Amata, rinsaldato piano della Conoscenza - Visione - Amore della Verità. Il Paradiso è dunque l'approdo a Sophia ed il suo primo canto ne riquadra, programmandolo, l'intero profilo esoterico.


L'AZIONE
Per la stessa qualità di canto proemiale, il I° del Paradiso si configura in una imponente dichiarazione della nuova materia (la elevazione completa dell'anima al Cielo), del fine anche umano e storico che quella materia si propone (l'esempio del meritato lauro, in tempi d'indifferenza e di antagonismo), ed infine della nuova atmosfera in cui Dante verrà a trovarsi, e dalla quale si dà subito saggio. Si tratta di tonalità ambientale completamente diversa dalla terra, ed il Poeta puntualizza quest'ultima parte, prospettando la meraviglia e facendo ad essa corrispondere la immancabile spiegazione di Beatrice.
In sintesi, Dante narra di essersi mosso verso il cielo, mentre si trovava sulla cima della montagna purgatoriale, che avrà permanenza nella parte maggiormente irradiata dalla penetrazione di Dio, cioè nell'Empireo, e pertanto userà linguaggio non comune e non saprà o potrà ridire tutto a chi è abituato alla terra; che, per quanto la sua memoria lo aiuti, chiede l'assistenza di Apollo a completare quella delle Muse, fino ad ora beneficiata; che il lauro di Dafne, ossia la consacrazione poetica cui egli aspira, forse darà esempio ad altri, in epoca ove raro è che trionfino cesari e vati. Finalmente, a mezzogiorno e nella temperie primaverile-astrologica in cui il sole sorge «con miglior corso e con migliore stella» - la triplice misura di croce formata dai quattro cerchi (orizzonte, equatore, eclittica e coluro equinoziale) intersecantisi contemporaneamente in un punto dell'orizzonte - Beatrice appare «rivolta in sul sinistro fianco», e contempla il sole, simile all'aquila. Dante, fissando i propri occhi nei suoi, guarda anch'egli il sole e subisce una metamorfosi affine a quella di Glauco, «trasumanare» ineffabile. Ma, accorgendosi che l'armonia e la luce si accrescono inspiegabilmente, riceve da Beatrice, la quale gli legge nel pensiero, la spiegazione ch'egli non è più in terra e sta viaggiando nella sfera a velocità di folgore (al modo di qualche proiettile-razzo). Prospetta allora la tesi, come possa attraversare «i corpi lievi», e Beatrice gli risponde essere tutte le creature, dalle più alte alle infime, attratte da Dio per forza naturale, salvo non si allontanino dalla via che ad essa è propria, per volere deviante. Tutto ciò che accade dunque è spiegabilissimo e normale: «quindi rivolse in ver lo cielo il viso».



L'ARTE E LA UNITA' DEL CANTO PROEMIALE
La tonalità ieratica ed il significato programmatico di altissime verità conferiscono a questa poesia un evidente timbro solenne. Ma il Poeta, pure assumendo la fisionomia di discepolo ed essendosi finto ignorante, onde prospettare alcune soluzioni dottrinali, non perde l'occasione per ribadire il concetto aristocratico della missione illuminante e della qualità solare. Si potrebbe dire anzi che un contrasto è innegabile tra la invocazione ad Apollo, la ricognizione del Sole nel punto più alto e nella posizione astrale più favorevole, ed il richiamo ad Ovidio (Glauco trasumanato) da una parte e dall'altra il «farsi grosso» e l'aria di non capirci niente, di trovarsi in mezzo a suoni e luci, di credersi ancora sulla terra, perfino dopo aver guardato, attraverso gli occhi dell'amata, la fonte della luce ed esservisi, per così dire, sprofondato. Si potrebbe qui parlare di una mancanza di sutura tra il fattore storico-psicologico (la consacrazione del poeta civile, perché tra i seguaci di Apollo si contavano anche i Cesari), dottrinale (in principio dominante con la introduzione descrittiva ed invocativa e nella seconda parte, con la trattatistica cui d'ora in poi ci si dovrà abituare), quello sentimentale (dato che in fondo l'occasione è stata utile ad un ulteriore omaggio alla donna amata e sapientissima), ed infine il fattore estetico. Si può dire del resto che i personaggi del canto siano davvero Apollo (prima personificato nel dialogo, poi oggettivato nel Sole) e Beatrice, ricca di allotropia meravigliosa. Sembra statua da contemplare, aquila in volo, sorgente di maestà dottrinaria, e del pari comprende e l'animo commosso» di Dante, e guarda con spirito materno a lui come a figlio ammalato, anzi in delirio. Ella è così umana da non sdegnare, malgrado la paradisiaca imponenza, un sospiro di commiserazione. Con tutto il e pio» aggettivo data da Dante, resta una piacevole nota di curiosità, poco didattica per il vero, almeno nello spirito della scuola moderna.
Il canto possiede tuttavia una unità che non è solo estetica; il lato estetico anzi è il riflesso di un'altra unità, più profonda e consapevole, degna di venire ripresa e approfondita nella multilateralità delle sue prospettive e nella dilatazione che i principi emergenti dalla unità suddetta riescono a presentare verso altri punti o tappe della Cantica celeste.
 


LA IMPOSTAZIONE NEOPLATONICA: LA GNOSI, BEATRICE, APOLLO E ROM.
Domandiamoci innanzi tutto quale sia la impostazione generale del canto, che è poi di tutto il Paradiso, e praticamente costituisce la teleologia dell'intero Poema. La penetrazione di Dio inteso come fonte suprema della Luce, nell'universo, con riflessi «in una parte più e meno altrove», chiaramente equivale al principio neoplatonico della emanazione che, in termini cristiani, si è svolto nello Gnosticismo: Dio è luce emanante dall'infinito verso l'infinito, senza possibili distinzioni di tempo e localizzazioni di modi. Qui infatti l'unico punto di differenziazione è la maggiore o minore risplendenza, derivante dal termine antitetico della Materia. Nelle misteriosofie si celebrava il Sacrificio cosmico, ossia la limitazione (quindi il soggiorno sul piano particolare ed empirico che noi chiamiamo e materia») della Divinità, allo scopo di trarre dalla propria espansione innumerevoli esseri, i quali poi partecipano alla Sua gloria, risalendo il cammino della luce. Dante incarna il destino dell'uomo sulla falsariga degli antichi riti di «trasumanazione» ch'egli aveva appreso dal e bello stile» di Virgilio.
Non è certo uno stile letterario, sia perché Dante non era tipo da vivere all'ombra di nessuno, sia perché la Divina Commedia non l'ha scritta in Latino. Egli intende rappresentare, con il Paradiso, la seconda fase della rappresentazione neoplatonica, cioè la conversione. E come Plotino aveva preordinato la pratica di molteplici virtù, morali e religiose, ma anche estetiche e politiche, così Dante riunisce nel serto della propria consacrazione apollinea, tanto il valore poetico, quanto quello civile. Apollo è illuminazione ovvero conoscenza, non soltanto bellezza, ed il mondo abbandonato alla opacità e alla indifferenza, deve compiere una palingenesi completa (1)
Gli gnostici avevano affermato che la salvezza consiste nella conoscenza. Dante riassume in sé medesimo, il valore simbolico della salvezza di tutto il genere umano, sia dalle catene del peccato, sia da quelle della schiavitù politica. È infatti apprezzato da Catone che aveva preferito morire libero anziché vivere suddito. Egli prospettava subito - nella sede della salvezza e della verità - un progressivo aumento di conoscenza, con il simbolo di Beatrice, la quale evidentemente è il pensiero universale, la immagine gentile della scienza cosmica, ed in questo canto in particolare, un grazioso trattato di astronautica. Commento dunque alla introduzione del Paradiso ha dato Giuseppe Mazzini quando ha scritto: Veniamo in nome di Dio, di cui il nostro mondo un raggio e l'universo una incarnazione.
Nel secondo profeta e maestro della tradizione italica, con una continuità che potrebbe essere stata condotta benissimo sul filo di musica inattingibile (quella delle sfere cui Dante accenna con la «novità del suono» secondo la dottrina pitagorica), rivive Virgilio. Dante simile ad Enea, dopo essersi sprofondato nell'Averno ed avere parlato con i morti, ora deve fondare la la nuova città e la nuova stirpe: Roma nel senso dell'Amore universale.
Alla umanità deviante dal piano divino 'ed ambasciata dalle prepotenze dei Re, dall'anarchia dei Comuni e dalla intolleranza della Curia Romana, egli presenterà il piano ideale del mondo, la città avvenire: il principio che aveva ispirato Omero e Virgilio ed ispirerà le future epopee. Il Paradiso è Roma-Amor-Orma-Ramo, è «quella Roma - non teocratica e politica, ma spirituale ed universale - onde Cristo è romano».
Virgilio dunque è ancora presente; perché non è affatto andato via, il e beatissimo padre». Qui siamo nell'irraggiamento del lauro di Apollo, dei Cesari e dei Poeti, cioè nel trionfo del ramo d'oro di Enea, che egli aveva cantata fino alla concomitanza politica e storica dell'Impero, e che Dante, sviluppando e completando l'opera sua - tutt'altro che imitatore letterario - realizza con il Paradiso (2).


IL SIMBOLISMO DEL FUOCO E DELLE TRASFORMAZIONI: I NOMI DELLA LUCE
Il punto ideale di raccordo delle diverse immagini del canto, è il Fuoco: mare di fuoco in cui il Poeta si trova improvvisamente immerso, ricordo di Apollo con il fulgore connaturato alla immagine, splendore massimo del sole nel luminoso settenario dei quattro cerchi con le tre croci, sfavillare degli occhi di Beatrice, commistione degli sguardi dell'amante e dell'amata su linea di luce la quale direttamente indica la via solare.
Se vari sono i motivi che riuscirebbero a definirlo, la definizione più plastica potrebbe essere: il canto della luce fiammeggiante. Il principio inoltre riesce molto utile a chiudere la funzione del proemio nel quadro dell'opera. Da una parte infatti, l'idea rimonta a quella prova del fuoco che Dante subisce per vedere Beatrice e che è adombrata nel XXVIII canto del Purgatorio. Il cammino di Dante attraverso le fiamme non ha riferimento personale: che il Poeta cioè a proposito della lussuria, abbia voluto espiare qualche difetto della sua personalità storica. Pure lasciando trapelare infatti, la preoccupazione di portare addosso le pietre della superbia (Purg. XIII), non era certo stato consigliato da Virgilio di dare il cambio ad uno degli inquilini di quel girone. In realtà le ipotesi peccaminose non sono convincenti, mentre la ragione del passaggio attraverso il fuoco resta Beatrice («Fra Beatrice e te vi è questo muro»). Se non avesse a suo tempo penetrato quelle fiamme, ora il Poeta non potrebbe attraversare il lago del fuoco celeste, né parlare ad Apollo ed aspirare al serto di luce, né infine guardare gli occhi di Beatrice e il Sole. Spostandoci più innanzi, troveremo ché le varie figurazioni dei Beati sono contemporaneamente luminose e fiammeggianti, tanto da essere state paragonate a centri radianti di energia. Basta pensare ai cieli di Mercurio (coloro che emisero onde praticamente positive, di calore umano, di educazione e di giustizia), di Marte (coloro che furono dall'ardore dello spirito combattivo), del Sole (coloro che sparsero intorno a sé la luce della conoscenza), di Saturno (coloro che resero trasparente il corpo alla visione divina). Nel VII canto sorgono le discussioni sulla morte del Cristo, sul peccato originale e sulla «umana carne» di
allora», quella dei «primi parenti» (vv. 145-148), quindi incorruttibile. É una evidente materia sottile che risale per linea diretta al Pensiero cosmico da cui è venuta. Essa, dipendendo dalla guida del pensiero individuale e sopravvivente, potrà corpo eterico, alone e coagulo di estrinsecazioni di energie e certo cosa diversa dal composto di elementi destinati alla trasformazione nella natura, cioè il corpo fisico - simbolicamente «risorgere». Mentre il «soma» si disperderà nel destino di ciascuno elemento ritornando ad alimentare scientificamente il proprio ciclo, il centro cosciente potrà ricostruire intorno a sé il «dokein» della vita, secondo un ideale d'interezza, che, in sede poetica, è raffigurata da Dante (vv. 104-132) nei tono idillici del Paradiso Terrestre e di Matelda, beneficiando anche delle classiche memorie dell'Età dell'Oro Al. v. 18, dopo mostrata tutta la possibile riverenza per il Be ed Ice, il volto dell'amata è detto capace di rendere felice l'uomo che si trovi nel fuoco.
Dante infatti, in mezzo alle fiamme del Purgatorio, chiama Beatrice il «pome», e «li occhi» un premio di voluttà al sacrificio (v. 45 e 54). Poco dopo, Beatrice stessa spiega all'amato che determinate cognizioni non sono affermate dagli occhi (la visione della mente) il «cui ingegno non è adulto nella fiamma d'amore», cioè non si è temperato alla prova del fuoco.
Per ulteriori motivi, ed in soprappiù, appare chiaro in conclusione il vero significato di Fuoco, occhio, luce, amore, sole, Apollo, aquila, alloro, Beatrice ecc.
Dante ha dichiarato di avere subito una trasformazione radicale i cui effetti si notano nell'aumento di penetrazione del mistero della vita, da parte della sua possibilità di conoscenza.
Peraltro il canto che segue marca apertura solenne di mistero e ricorda il rituale del Convito di Platone: «profani, state indietro». Dante dice di tornare ai loro lidi abituali, onde non si smarriscano per difficile strada, a quanti siano «in piccioletta barca». E continua affermando: «L'acqua ch'io prendo già mai non si corse: Minerva spira; e conducemi Apollo, e nove Muse mi dimostran l'Orse».

Se in un altro luogo bastano una o più muse, qui è necessario collaborino tutte; siamo infatti in presenza di due volti diversi dell'unica realtà, il Lògos, il Pensiero, l'Anima del Mondo, Apollo e il Sole divino: non l'astro che alimenta il nostro od un altro degli infiniti sistemi solari, ma - come avrebbero detto gli Stoici e gli antichi seguaci della teoria eliocentrica ai quali Dante è vicino molto più che l'arretrato geocentrismo tomista dei tempi suoi e di altri - il Fuoco Centrale dell'Universo.
Atena fu rivelata dalla testa di Giove, in cui giaceva, con una operazione che ricorda il rituale degli antichi Fulgurari, ed infatti Vulcano, ancora il Fuoco, spacca il cranio al Padre degli Dei (il Tutto, l'Assoluto inespresso) con l'accetta (usata poi appunto dai sacerdoti delle religioni solari anche sotto forma di Bipenne) e ne rivela il Logos-Luce. Minerva è già adulta, come Lao Tsè (che nacque vecchio) e protegge la cultura (illuminazione della mente) e l'olio (illuminazione dell'ambiente). Infine, allo stesso modo in cui a Freya (e ad altre analoghe figurazioni) erano sacri i gatti che vedono nell'oscurità (e gli animali affini), Atena aveva sacre le civette. Dopo la persecuzione del distrutto paganesimo, parecchi secoli d'ignoranza sono subentrati sull'argomento, ma le civette continuano a portare buona fortuna a chi non ha dimenticato il culto del Pensiero. Sarebbe ora comunque che il popolo ed i ragazzi specialmente, si liberassero da superstizioni destinate a fare soffrire un animale il quale, oltre tutto, è bello e meglio figurerebbe in una rassegna di grazia che in un conciliabolo di streghe: ha gli occhi d'oro, come a suo tempo era bella la Dea occhiglauca. Oro e azzurro insieme dicono la luce e l'infinito.
Stante la presenza di Minerva e di Apollo, è naturale siano qui anche le Muse. Esse con il loro numero (3 x 3) spiegano l'armonia fra i tre mondi della filosofia umanistica della quale Dante risulta primissimo portatore: il mondo divino, l'umano ed il fisico. Dal primo discende la luce, dall'ultimo emergono le energie impersonali e meccaniche; nel mondo umano tutto si compone ed assume immagine di bene o di male, a seconda dell'impiego della libertà. Fare, cambiamento, demiurgia, e di conseguenza, responsabilità.


LA LEGGENDA DI GLAUCO E LO SPIRITO DELLE METAMORFOSI
Il Fuoco è il simbolo della Trasformazione: Eraclito lo considerava l'elemento primordiale. Ma, nella Commedia, di quale trasformazione si tratta? Glauco contiene preciso riferimento ad Ovidio, autore delle Metamorfosi, il poema in cui, sotto il velo della fantasia, è adombrato un mondo di combinazioni biochimiche. Glauco, secondo la leggenda, era un pescatore; avendo data salva la vita ad un pesce, ne ricevette il segreto dell'erba dell'immortalità. A parte la nota curiosa del racconto, il quale si trova anche in altre atmosfere poetiche e dottrinali (per es. fra gli Assiri e i Babilonesi), è interessante notare il rapporto che si è stabilito fra l'uomo e le forme dell'infinito rappresentato dalla matrice prima di tutte le cose, nell'antico linguaggio, il mare.
Diventare «consorte in mare de li altri Dei» significa, in aderenza al linguaggio usato da Dante, Tu diverrai simile agli Dei, immune dalla morte (dai «Versi d'Oro» pitagorici). La poesia ovidiana presentava, al culmine delle trasformazioni, l'immortalità sotto forma d'indiamento, comunione con i Celesti; molti personaggi così finiscono per diventare altrettante costellazioni. Il mare è appunto il e gran mare dell'essere»; lo si attraversa per giungere ad esempio al Vello d'oro, impadronendosi, diremmo noi, di una sorgente di radiazioni, magari di una miniera di uranio. Dante spiega tutto questo con il «trasumanare» e, malgrado le barriere di cui egli circonda ogni indiscrezione, proprio come un adepto degli antichi Misteri, fa capire che tale esperienza trasumanante non è stata un momento di carica sentimentale, ma una vera e propria esperienza: liberazione e sdoppiamento. Non è più il caso dunque di porsi la legittima domanda (e curiosa): ma Dante ha davvero provato quanto ha descritto o si è trattato di una meravigliosa evasione della fantasia? Dante ha realmente sperimentato lo sdoppiamento, la indipendenza dal corpo.
Egli non è salito in effetti in alcuna regione aerea, salvo non si voglia pensare ad un autentico viaggio interplanetario attraverso una trance, in modo analogo a Swedenborg (3) o ad un intuire la quarta dimensione, se appunto nel canto che segue, è detto (vv. 36-39): «S'io era corpo, e qui non si concepe com'una dimension altra patio, ch'esser convien se corpo in corpo repe» (4).


DANTE E BEATRICE: MOMENTI DELLO SPIRITO UMANO L'IDEALE PITAGORICO
A questo punto la soluzione dello squilibrio fra la prima e la seconda parte del canto è raggiunta, perché non vi è ormai alcuna differenziazione insuperabile tra Dante e Beatrice. Un qualsiasi iato poteva sussistere nel Purgatorio, quando il Poeta non aveva ancora conosciuto la prova delle acque cioè non era stato liberato da ogni legame all'aspetto empirico e transeunte del la esistenza, mediante la immersione in Lete, e non era stato vivificato dalla «santissima onda» di Eunoè e rinato nuova pianta, neofito. Dante e Beatrice sono dunque due momenti dello spirito umano, perché il Poeta apprende direttamente, per comunicazione interiore, dal proprio Demone, dalla propria Coscienza che, condotta ad uno stato di sublimazione ed oggettivata nella proiezione estetica e sentimentale si è «indonnato» per «Be ed Ice».
La caratteristica di tutti i poemi che descrivano qualche grande viaggio in terre meravigliose e sconosciute, è che il protagonista sia accompagnato da altri, in condizioni o di scudiero o di maestro.
Come Virgilio, a parte la qualità personale e tradizionale, è stata la ragione di Dante, dal punto di vista filosofico e, nel riflesso politico, la sua fede ghibellina, così Beatrice è pure una parte, la più eletta, dello spirito. E' la Coscienza che si conquista, attraversando quelle che gli antichi iniziati dicevano le prove degli elementi. Dante si è sprofondato nella terra, ha conosciuto il vento agghiacciante delle ali di Lucifero, è passato attraverso i fiumi del Paradiso Terrestre e per il fuoco dell'ultimo girone del Purgatorio. Secondo la tradizione virgiliana dell'epos italico, il Poeta ha appreso tutti gli elementi ed ora è al disopra di essi, in uno stato di consapevolezza che domina la prassi spazio-temporale. Come Cagliostro, avrà detto: scelgo il tempo e lo spazio nei quali manifestarmi. Superata la fase empirica dell'esistenza (ciò che si dice di norma «la Terra»), egli si trova nei Cieli.
Beatrice, vista fuori di Dante, è l'oggetto supremo, l'ideale-limite della conoscenza, la chiaroveggenza o se si vuole, la cognizione delle leggi eterne della vita di cui la natura fisica è portatrice in forma elementare. L'ideale pitagorico della economia cosmica si comprende nell'affermazione che:
«le cose tutte quante hanno origine tra loro, e questo è forma che l'universo a Dio fa somigliante».

La espansione massima della luce ed il suo raffigurarsi in una piramide (3 e 4) i cui elementi ci danno i numeri della generazione e realizzazione. Da tale punto di vista, il Proemio al Paradiso è il canto della Geometria universale tanto più se si pone mente alle spiegazioni finali di Beatrice, a proposito dell'arco che saetta, penetrando la spazialità invisibile degl'intelletti e delle anime, poetica significazione del filo di Ayn Soph. della Qabalah.
La struttura armonica del mondo, per cui l'universo è musica di accordi, è dunque poema di proporzioni, realtà numerica. Su tale fondo si muove l'uomo. Egli può mutare il proprio destino, solo ignorando la Legge. Suo scopo naturale invece è la compotenza con lo universo. Non a caso il paragone della creatura tutta amabilità e grazia alla fierezza rapace di un'aquila - tecnicamente si direbbe stonatura - è in perfetta assonanza sul piano dell'anacogia filosofica, poiché l'Aquila nel linguaggio dei simboli è lo Spirito e Beatrice è lo spirito di Dante; non più di un uomo, ma coscienza dell'umanità intera.







1. Dante ha seguito il costume italico e romano della purificazione dei peccati, che si compiva presso la porta Tarpea e consisteva nell'assunzione e nella deposizione dei Piacula (pesi simbolici), con la guida di una sacerdotessa (simboleggiata qui dalla dolce tonalità angelica). Paragonando il suono della porta del Purgatorio al fragore dei battenti della rocca Tarpea, quando Metello non potette impedire la spoliazione di Cesare (secondo il narrato di Lucano), il Poeta ha evocato il pagano prodigio, mentre ha assunto sulla fronte i sette P che poi cederà, gradino per gradino (Purg. IX). Questo processo è consistito in un faticoso salire dalle tenebre delle profondità infernali alla luce dell'Eden.

2. La significazione ideale del Paradiso è l'Irenismo, la Pace perpetua, la Città dell'avvenire, la Confederazione universale, testimoniata dal contrapporre la Città celeste a «l'aiuola che ci fa tanto feroci», e la sincera preoccupazione dei Beati, per le sorti dell'Umanità, ai guai dell'epoca. Ne fanno fede l'abbraccio di genti diverse, il vagheggiamento di una nuova moderna Pax Romana, la comprensione reciproca di tutte le Religioni.

3. Su tale argomento penso al Sewall e con lui, al ricordo affettuoso degli studi di Giorgio E. Ferrari e di Ugo da Neapolis.

4. Non credo sia superfluo ricordare che il principio dell'Accademia di Galileo il quale, per renderlo da poesia concretezza, si offrì ad essere spezzato dalla Istituzione dogmatica coscientemente avversa perché programmaticamente dominatrice della cultura, è stato tratto dai versi della Divina Commedia (Par. II, 94-96 e III, 3):


«Da questa istanza può dilibirarti
esperienza se giammai la provi,
ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti».
e Di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando il dolce aspetto».

 

 


 

Il documento che presentiamo ai nostri graditi Ospiti è opera d'ingegno di CARLO GENTILE dell'Università di Pisa. Il contenuto non esplicita necessariamente il punto di vista della Loggia o del G.O.I. Ogni diritto è riconosciuto.

 

© Carlo Gentile

 

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