I

Io ero certo e ritenevo per vero, o Massimo Claudio e voi Signori del Consiglio, che Sicinio Emiliano, vecchio di famigerata audacia, a sostenere l'accusa contro di me, prima dinanzi a te intentata che dentro di sé meditata, si sarebbe valso, in mancanza di positive imputazioni, di un cumulo di ingiuriose calunnie. Qualsiasi innocente può essere diffamato, ma convinto di reità non può essere che un colpevole. E in questo solo pensiero confidando, mi rallegro che dinanzi a un giudice come te mi sia data ampia facoltà di difendere presso gli ignoranti la filosofia e discolpare me stesso. In verità codeste calunnie, gravi al primo aspetto, sorte così all'improvviso, hanno accresciuto la difficoltà della difesa. Come ricordi, sono quattro o cinque giorni, da che avevo cominciato a difendere nell'interesse di mia moglie Pudentilla la causa contro i Granii, quando, seguendo un loro piano, inaspettatamente gli avvocati di Emiliano mi assalgono con invettive accusandomi di magici malefìci e per ultimo della morte di Ponziano mio figliastro.
Comprendevo che non eran queste vere e proprie imputazioni prodotte in giudizio, ma schiamazzi ingiuriosi di litiganti: appunto per questo li sfidai, con insistenti richieste, a presentare l'accusa. E qui Emiliano, vedendo che anche tu eri sdegnato e che dalle parole si passava ormai a un'azione giudiziaria, si smarrì e cominciò a cercare un rifugio alla sua temerità.

 

II

 

Egli, che poco prima andava gridando ai quattro venti che Ponziano, il figlio di suo fratello, era stato ucciso da me, appena è sollecitato a sottoscrivere l'accusa, subito se ne scorda: della morte del giovane parente neppure una parola; ma per non sembrare di avere in tutto desistito dalla determinazione di così grave reato, la calunnia di magia, dove è più facile incolpare che provare, questa sola preferì serbare all'accusa. Ma neppure di questo ardiva farsi responsabile; il giorno dopo presenta una querela scritta in nome di mio figliastro Sicinio Pudente, un minorenne, e appone il suo nome come assistente, secondo la bella novità di perseguitare in giudizio a nome altrui; naturalmente perché mettendo innanzi un ragazzo, egli potesse sfuggire alla pena di calunnia. E tu, con il tuo finissimo accorgimento avvertisti la cosa e lo esortasti per la seconda volta a sostenere in proprio nome l'accusa. Promise di farlo, ma nemmeno così fu possibile trascinarlo qui a lottare di persona e, ribellandosi alla tua stessa autorità, egli saetta le calunnie da lontano. Tante volte fuggiasco dinanzi alla pericolosa responsabilità dell'accusatore, ha perseverato nello scusabile ufficio dell'assistente. Così prima ancora che il dibattimento fosse iniziato, chiunque poteva facilmente capire che razza di accusa sarebbe stata quella di cui temeva farsi legale promotore proprio colui che ne era stato il maestro e il macchinatore: specialmente un uomo come Sicinio Emiliano, il quale, se avesse scoperto una qualche prova contro di me non avrebbe davvero esitato a chiamare in giudizio per tanti e così gravi delitti un uomo estraneo a lui: lui che ha impugnato di falso il testamento dello zio pur sapendone l'autenticità, e con tale ostinatezza che, allorquando l'illustrissimo Lollio Urbico, su parere dei consolari, ebbe dichiarato quel testamento autentico e valido, questo mentecatto, contro una sentenza profferita da così alto personaggio, osò giurare tuttavia che quell'atto sì, era falso: e a fatica Lollio Urbico si trattenne dal rovinarlo.

 

III

 

E un simile decreto, confidando nella tua equità e nella mia innocenza, spero risonerà pure in questo processo, contro un uomo il quale, convinto di mendacio in una causa di gran conto dinanzi al prefetto di Roma, può adesso con più facilità accusare di proposito un innocente. Un onest'uomo, quando abbia peccato una volta, si guarda bene dal ricadere; ma chi ha malvagia natura più sfacciatamente ricomincia: e via via che crescono i delitti, cresce l'impudenza: perché il pudore, come la veste, più è logoro, tanto più è trascurato. E appunto perché il mio pudore è rimasto intatto, prima che io cominci a discutere la lite, ritengo necessario confutare le maldicenze; non soltanto la mia causa io difendo, ma anche quella della filosofia, la cui maestà respinge come gravissima imputazione anche il più lieve biasimo. Gli avvocati di Emiliano hanno testé buttato fuori con prezzolata loquacità tante e tante calunniose invenzioni contro la mia persona ed altre più generiche use a dirsi contro i filosofi. Codeste loro ciance, benché possano apparire utilmente rimunerate e compensate con la paga dovuta all'impudenza, essendo ormai costume di codesti cavalocchi prestare all'altrui rancore il veleno della propria lingua, pure nell'interesse della mia causa devo brevemente rispondere loro perché, se io, che ho tanto scrupolo nell'evitare la benché minima macchia della mia vita, avrò trascurato qualcuna delle loro frivole insinuazioni, non si debba credere che l'abbia accettata per vera anziché disprezzata. E pudore e la verecondia, siccome penso, devono mal sopportare perfino il falso vituperio. Anche quelli che hanno coscienza del delitto commesso, nel sentirsi biasimati provano emozione e collera, benché da quando cominciarono a mal fare dovettero assuefarsi al biasimo, perché se anche gli altri tacciono, essi hanno ugualmente coscienza della loro riprovevole colpa. Con più ragione l'uomo buono e innocente che ha le orecchie inesperte e nuove al biasimo ed è per consuetudine di lode non avvezzo alla contumelia, si contrista che gli sian dette tante di quelle cose che egli stesso potrebbe veracemente rimproverare agli altri.
Se dunque sembrerà che io abbia voluto scolparmi da frivolezze e da inezie, ciò sia rivolto a discapito di coloro che vergognosamente anche tali cose hanno imputato, e non sia data colpa a me che onestamente anche tali cose confuterò.

 

IV
BELTÀ ED ELOQUENZA

Hai dunque udito poco fa l'esordio dell'accusa: «accusiamo dinanzi a te un filosofo di bell'aspetto e sì in greco, sì in latino - guarda che delitto! - facondissimo». Se non erro, proprio con queste parole diede principio all'accusa Tannonio Pudente, uomo quello lì davvero tutt'altro che facondissimo. Magari egli fondatamente mi avesse rimproverato tali colpe di bellezza e di facondia. Mi sarebbe stato facile rispondere come l'Alessandro di Omero a Ettore: «non sono da spregiare i doni gloriosissimi degli dèi, quanti essi ne accordano; molti li vorrebbero, senza ottenerli».
Questo avrei detto quanto alla bellezza: e avrei aggiunto che è lecito anche ai filosofi essere di nobile aspetto. Pitagora, che primo assunse il nome di filosofo, fu l'uomo più bello del suo tempo; similmente Zenone l'antico, oriundo di Velia, che primo con abilissimo artificio seppe ridurre ogni proposizione a termini contradittorî, anche lui, secondo afferma Platone, fu pieno di leggiadria: e così pure molti filosofi sono ricordati di bellissimo aspetto, i quali la grazia del corpo ornarono con la dignità dei costumi. Ma una tale difesa, come ho detto, è ben lontana da un uomo, come me, di mediocre aspetto, a cui la continuata fatica degli studî toglie ogni grazia alla persona, estenua il corpo, prosciuga il succo vitale, spegne il colorito, debilita le forze. Questi miei stessi capelli, che costoro con spudorata menzogna dissero spioventi a bella posta per vezzoso lenocinio, guarda, guarda quanto siano graziosi e delicati, arruffati e lanosi, stopposi e scarruffati e batuffolosi e impannicciati per la lunga incuria, nonché di acconciarli, di scioglierli almeno e spartirli. Mi pare di aver detto abbastanza circa l'accusa dei capelli, che costoro hanno mosso quasi fosse un crimine capitale.

 

V

 

Quanto all'eloquenza, supposto che io ne abbia avuta, non dovrebbe sembrare cosa strana né odiosa, se fin dalla prima giovinezza, dedicatomi unicamente e con tutte le forze agli studî letterarî, sdegnato ogni altro piacere, fino a questa età, forse più di ogni altro uomo con accanito lavoro giorno e notte, io abbia cercato di conseguirla, spregiando e sprecando la mia salute. Ma nessun timore da questo lato. Della eloquenza, per quanto io abbia potuto in essa progredire, ho piuttosto il desiderio che il possesso. Certamente, se è vero quanto si dice abbia scritto nelle sue commedie Stazio Cecilio, che l'innocenza è eloquenza, se è vero questo, riconosco e pubblicamente dichiaro che in fatto di eloquenza non la cederò a nessuno. Chi potrebbe essere nella vita più valente espositore di me, che non ebbi mai un pensiero che temessi di esporre? E affermo io stesso di essere facondissimo, perché ogni peccato ho sempre ritenuto nefando; di essere ottimo parlatore perché non esiste nessun fatto o detto mio di cui io non possa publicamente parlare: così come ora parlerò dei versi da me composti che essi hanno creduto di recitare qui quasi a mia vergogna, mentre io, come hai notato, ascoltavo con un riso di sdegno per quegli ignorantoni che li pronunciavano in modo così scorretto.

 

VI

IL DENTIFRICIO

 

Essi, dunque, hanno cominciato a leggere tra i miei scherzucci letterari un bigliettino poetico su un dentifricio, indirizzato ad un certo Calpurniano, il quale nell'esibire quella lettera a mio danno, non ha certamente visto, per la bramosia di nuocermi, se egli non fosse per caso responsabile con me di quel delitto, se delitto c'era: perché proprio lui mi aveva richiesto una sostanza per la pulizia dei denti, come attestano i versi. Eccoli.


Ti saluto, Calpurniano, con versi improvvisati.
Ti ho mandato, come hai chiesto, nettezza di denti,
splendori di bocca, fatti con arabici aromi,
una tenue candifica famosa polverina
che liscia e appiana la gengivetta enfiata
che spazza via i resti del pranzo di ieri
perché non si veda nessuna traccia impura
quando avrai schiuso le labbra al sorriso.

Di grazia, qual è in codesti versi il detto, il pensiero, che faccia vergogna e che un filosofo non debba volere far suo? Oppure per questo io sono da riprendere, per avere inviato una polverina tratta da piante arabiche a Calpurniano cui sarebbe molto più adatto, secondo la sporcissima usanza degli Iberi, di servirsi, come dice Catullo, della propria urina:


Per lustrarsi i denti e la rossa gengiva.

 

VII

 

Ho visto poco fa alcuni che trattenevano a stento le risate mentre quell'avvocato muoveva fiera accusa contro la pulizia dei denti, e la parola «dentifricio» pronunziava con tanto sdegno quanto nessuno ebbe mai nel dire «veleno». Perché no? Dev'essere accusa bene accetta a un filosofo, non tollerare su di sé nulla di sordido, non permettere che nessuna parte visibile del suo corpo sia immonda e fetida: soprattutto la bocca che, posta in evidenza, agli occhi di tutti, è l'organo di cui l'uomo si serve più spesso, sia che baci qualcuno o che discorra o parli in pubblico o rivolga nel tempio la preghiera a Dio. Ogni atto umano è preceduto dalla parola che, come dice il massimo poeta, «vien fuori dalla chiostra dei denti». Immaginiamo un magniloquente oratore: egli direbbe, nello stile che gli è proprio, che chi ha specialmente cura del proprio linguaggio, deve attendere più che al resto del suo corpo, alla bocca, vestibolo dell'anima, porta della orazione, comizio delle idee. Per me, secondo la mia capacità, mi basti dire che a un libero e liberale cittadino nulla sconviene più che la sozzura della bocca. Essa è la parte eccelsa del corpo umano, la prima che si veda, la cui funzione è la parola. Nelle fiere e nelle bestie la bocca bassa e prona giù giù fino alle zampe e atterrata lungo il sentiero o la pastura mai può contemplarsi se non quando siano morte o mordenti per la furia che le assale; nell'uomo nulla tu osservi più presto quand'egli tace, nulla più spesso quand'egli parla.

 

VIII

 

Io vorrei pertanto che il mio censore Emiliano mi rispondesse se egli usi qualche volta lavarsi i piedi o, se egli lo afferma, che mi dimostri come mai sia più da curarsi la pulizia dei piedi che quella dei denti. Certamente, se qualcuno come te, Emiliano, apre soltanto la bocca per maledire e calunniare, credo bene che egli non curi né di pulirsi la bocca né di nettarsi con una polvere esotica i denti - che per lui sarebbe più giusto strofinare con carbone di forno crematorio - e neppure di sciacquarli con acqua comune: ma piuttosto la sua lingua malefica, dispensiera di menzogne e di amarezze, si appesti sempre nel suo letamaio. Infatti, ahimè, perché mai una lingua pulita e bella dovrebbe possedere una voce brutta e sporca e a modo di vipera col piccolo niveo dente stillare il nero veleno? Di chi si accinge ad esporre pensieri né disutili né sgradevoli è giusto che sia ben forbita la bocca, come la tazza per una buona bevanda. Ma a che parlare più a lungo dell'essere umano? Una bestiaccia feroce, il coccodrillo che nasce nel Nilo, anch'esso, a quanto ho appreso, sporge senza far male la enorme gola per farsi pulire i denti; infatti poiché ha una bocca ampia ma priva di lingua, che schiude solitamente nell'acqua, molte sanguisughe gli si attaccano ai denti; e quando, arrivato al battito del fiume, ha spalancato la bocca, uno degli uccelli fluviali, compiacente uccello, ficcato dentro il beccuccio, senza pericolo alcuno, gliele cava fuori.

 

IX
VERSI D'AMORE

 

Lasciamo questo argomento. Vengo ad altri versi, ai versi d'amore, come essi dicono, che pure hanno letto in modo così duro e villano da smuovere la bile. Quale rapporto può avere coi magici malefici il fatto che ho composto una poesia in lode dei figli di Scribonio Leto, amico mio? Sono mago perché sono poeta? Chi ha mai sentito parlare di un sospetto così verosimile, di una congettura così fondata, di una prova così calzante? «Fece dei versi Apuleio»: se cattivi, è un delitto e non del filosofo ma del poeta; se buoni, di che mi accusi? «Ma versi leggeri, versi d'amore egli compose». Ah son questi davvero i miei delitti? E avete dunque sbagliato accusandomi di magia? Ben altri siffattamente peccarono, se anche voi lo ignorate: presso i Greci un tale di Teos, un Lacedemone, uno di Ceos, con innumerevoli altri; anche una donna di Lesbos, voluttuosa quella veramente e con tanta grazia da fare accettare con la dolcezza del canto l'arditezza del linguaggio; presso di noi Edituo, Porcio, Catulo, anch'essi con innumerevoli altri. «Ma non erano filosofi costoro»: e negherai dunque che Solone sia stato un personaggio severo ed un filosofo? Ebbene, quel verso pieno di lascivia è suo: «desiando le cosce e la bocca soave». E di fronte a codesto solo che hanno mai di tanto sfacciato i miei versi? E non dico nulla degli scritti di Diogene il cinico e di Zenone, il fondatore della setta stoica, che ne hanno scritte molte, di simili cose. Recitiamoli pure quei versi una volta ancora, perché sappiano che non ne ho punto vergogna:

Sì, Critia è la mia gioia: ma è salva, Carino, la parte
che a te rimane, o mia vita, nell'amor mio.
No, non temere, fuoco con fuoco a talento mi bruci:
io questa doppia fiamma, pur di godervi, sopporterò.
Per l'uno e l'altro io sia quel che ognuno di voi è per sé:
e voi per me sarete quel che sono due occhi.

 

Recitiamo adesso anche gli altri che essi hanno letto per ultimi, come i più scostumati:

 

Ecco, dolcezza mia, io t'offro ghirlande e canzoni:
offro canzoni a te e al genio tuo ghirlande.
Cantino le canzoni, o Critia, la luce del grato giorno
che ti riporta sette con sette primavere.
Fiorisca di ghirlande, nel tempo lieto, la tua fronte,
e tu adorna di fiori il fiore di giovinezza.
Per i fiori di primavera tu dàmmi la tua primavera,
e supera coi tuoi doni i miei doni.
Per gl'intrecciati serdi mi rendi col corpo un amplesso,
e per le rose i baci della purpurea bocca.
Ma se il tuo fiato spiri nel flauto, tosto i miei canti
si taceranno vinti dalla tua dolce zampogna.


 

X

 

Eccoti il mio crimine, o Massimo, come di un incorreggibile crapulone: un crimine fatto di ghirlande e di canzoni. E qui hai notato che mi si fa un altro rimprovero, perché avendo i fanciulli altro nome, ho continuato a chiamarli Critia e Carino. Per il medesimo fatto accusino Catullo perché nominò Lesbia invece di Clodia, e similmente Ticida per avere scritto Perilla e non Metella, e Properzio che dice Cintia dissimulando Hostia e Tibullo che ebbe Plania nel cuore e Delia nel verso. E io non saprei veramente approvare Lucilio, quantunque sia poeta satirico, per avere esposto a mala fama coi veri nomi, in uno dei suoi carmi, i giovinetti Genzio e Macedone. Quanto più discreto il poeta Mantovano che, lodando, come io ho fatto, il giovane schiavo dell'amico suo Pollione, in una scena bucolica, si astiene dai nomi, chiamando sé Coridone e Alessi il fanciullo. Ma Emiliano, uomo rusticano più dei pecorai e dei bovari virgiliani, zoticone e barbaro sempre, ma di gran lunga più austero, com'egli si crede, dei Serrani e dei Curii e dei Fabrizi, nega che a un filosofo platonico si convengano versi di tal genere. Dimmi, Emiliano: anche se dimostro ch'essi sono fatti proprio sull'esempio dello stesso Platone, del quale non abbiamo altri carmi fuorché elegie di amore? Perché le altre poesie, immagino, non ritenendole altrettanto piacevoli, le diede alle fiamme. Ascolta i versi del filosofo Platone sul giovane Aster, se pure, vecchio come sei, puoi apprendere qualcosa di lettere:

Aster, prima splendevi stella dell'alba tra i vivi:
ora, che sei morto, splendi Espero tra i defunti.

Dello stesso Platone sono questi versi dove sono congiunti due efebi, Alexis e Fedro:

Da quando io dissi che Alessi solo è bello, lo guardano tutti,
e in ogni luogo gli mettono gli occhi addosso.
O cuore mio, perché mostrare un osso ai cani? Te ne pentirai
un giorno. Fedro, non l'abbiamo perduto così?

E per non citarne di più, eccovi un suo ultimo verso su Dione siracusano e avrò finito: «O Dione, mia frenesia d'amore».

XI

Ma sono io forse uno stolto, che parlo di queste cose anche davanti a un tribunale? O non voi piuttosto calunniatori, che cose di tal genere allegate nell'accusa, quasi fossero documenti di moralità alcuni scherzi poetici? Non avete letto la risposta di Catullo ai malevoli? Eccola: «il pio poeta dev'essere casto, lui: i versi non è necessario lo siano». Il divo Adriano, onorando di un omaggio poetico il tumulo dell'amico poeta Voconio, così scrisse: «il verso tuo lascivo, ma l'anima era pura». Il che non avrebbe mai scritto se le poesie alquanto voluttuose fossero da ritenere prove di impudicizia. E proprio di lui, del divo Adriano, ricordo di aver letto più cose di tal genere. Ora di' pure Emiliano, se ne hai il coraggio che è male fare ciò che fece e lasciò alla posterità il divo Adriano imperatore e censore. Del resto, puoi tu pensare che Massimo riterrà colpevole ciò che io ho fatto, com'egli sa, sull'esempio di Platone? i cui versi, or ora citati, sono tanto più puri quanto più schietti, tanto più pudicamente composti, quanto più ingenuamente professati. In siffatta materia dissimulare e occultare è di chi male opera, professare e divulgare è di chi scherza: giacché la natura ha assegnato la voce all'innocenza, il silenzio al maleficio.
 

XII

E tralascio di significare quell'alto e divino concetto di Platone noto, salvo eccezione, alle anime religiose, ma sconosciuto a tutti i profani: che vi siano due Veneri, signora ciascuna di un proprio amore e di amatori diversi; l'una è la Venere popolare che si scalda all'amore volgare e sprona alla libidine gli animi non solo degli uomini ma anche degli animali domestici e selvaggi, avvinghiando insieme in una passione sfrenata e selvaggia i corpi asserviti; l'altra, la Venere celeste, preposta al più nobile amore, ha cura degli esseri umani soltanto, di pochi tra essi, né per impulsi di libidine né per lusinghe abbatte i suoi adoratori; ché il suo amore non voluttuoso e sollazzevole, ma disadorno e severo rivolge i suoi amanti alla virtù, colla bellezza morale: e se talora ci richiama alle belle persone, ci distoglie dal far loro oltraggio: e infatti per questo solo è amabile la bellezza dei corpi, perché essi richiamano l'anima divina e quella vera e pura bellezza ch'essa vide prima tra gli dèi. Per ciò, sebbene con molta eleganza Afranio abbia lasciato scritto: «amano i saggi, bramano gli altri», tuttavia, Emiliano, se vuoi saper la verità e se sei capace di comprendere qualche cosa, il sapiente non tanto ama quanto ricorda.
 

XIII

Perdona dunque a Platone filosofo quei suoi versi di amore, perché io non abbia necessità, contro il precetto del Neottolemo enniano, di filosofare con molte parole; se non vuoi, sopporterò facilmente di farmi incolpare per siffatte poesie in compagnia di Platone. A te, Massimo, rendo grazie infinite per la tanta attenzione onde hai ascoltato anche queste appendici della mia difesa, per questo necessarie, perché fanno da contrappeso alle accuse. Ed io ti chiedo di ascoltare ancora, come hai fatto finora, volentieri e attentamente, ciò che mi resta a dire prima ch'io venga alle accuse principali.

LO SPECCHIO

Segue dunque quel lungo e censorio discorso intorno allo specchio, per cui, dinanzi all'atrocità della cosa, Pudente per poco non è scoppiato schiamazzando: «ha uno specchio il filosofo, possiede uno specchio il filosofo!» Orbene, ammettendo pure di averlo, perché tu non creda di aver mossa, se lo negherò, una seria obiezione, non è tuttavia necessario concludere che io sia solito anche abbigliarmi allo specchio. E che? Se io possedessi tutto un vestiario scenico forse ne argomeriteresti che io sia solito indossare il manto del tragico, la gialla tunica dell'istrione, la variopinta casacca del mimo? Non credo. Così al contrario, moltissime sono le cose che non possiedo ma che adopero. Se il possesso non è una prova dell'uso e la mancanza di possesso non esclude l'uso, giacché non tanto il possesso dello specchio si incolpa, quanto il fatto di specchiarsi, questo è necessario che tu mi provi: quanto e in presenza di chi io mi sia guardato allo specchio. Dico questo perché in realtà tu decreti che per un filosofo la vista di uno specchio è un sacrilegio peggiore che per un profano vedere gli oggetti sacri dei misteri di Cerere.
 

XIV

Dimmi: se io confesso di essermi guardato, quale delitto è conoscere la propria immagine e, anziché tenerla racchiusa in un determinato luogo, portarla dovunque tu voglia, visibile e manifesta, in un piccolo specchio? Ignori che per una creatura umana nulla è più degno di essere rimirato che la propria figura? Anche dei figli so che sono più cari quelli che rassomigliano ai genitori; e le città fanno dono ai benemeriti cittadini delle loro immagini, perché possano contemplarle. Altrimenti che significato hanno le statue e le immagini con varia arte rappresentate? A meno che per avventura ciò che è stimato lodevole quando sia elaborato dall'arte, non sia da giudicarsi vizioso quando venga offerto dalla natura, dove è pure assai più meravigliosa la facilità e la somiglianza. Giacché in ogni ritratto si lavora a lungo, eppure la somiglianza non apparisce così viva come negli specchi; manca infatti alla creta il vigore, alla pietra il colore, alla pittura il rilievo e a tutte quante il moto che rende con singolare fedeltà la somiglianza: mentre nello specchio si vede l'immagine mirabilmente riportata, che rassomiglia e si muove e obbedisce a ogni cenno della persona. E quella immagine, di coloro che si rimirano è coetanea sempre, dalla nascente puerizia alla morente vecchiaia; tante mutazioni di tempo essa riveste, così vari aspetti della persona comporta, tante espressioni riflette di letizia e di dolore. Ma ciò che è plasmato o fuso nel bronzo o scolpito nel sasso o impresso nella cera o steso su coi colori o raffigurato con qualsivoglia altro artificio, dopo un breve intervallo di tempo non rassomiglia più e, a guisa di cadavere, serba una sola ed immobile faccia. Di tanto, rispetto alla somiglianza, supera le arti figurative quella modellatrice levigatezza e quella creatrice splendidezza dello specchio.
 

XV

Dobbiamo, dunque, seguire il proposito del solo Agesilao, il Lacedemone, il quale diffidando del suo aspetto non si lasciò mai né dipingere né scolpire o è da mantenere il costume di tutti gli uomini nel bene accogliere le statue e le immagini? E in tal caso, perché ritieni si debba vedere la propria immagine nella pietra e non nell'argento: in un quadro e non in uno specchio? Oppure pensi tu sia brutta cosa studiare con assidua contemplazione la propria figura? Socrate, il filosofo, esortava, come si dice, i giovani a contemplarsi spesso nello specchio perché chi si fosse compiaciuto della propria bellezza badasse attentamente a non disonestare coi mali costumi la dignità del corpo; chi si ritenesse poco raccomandabile nell'aspetto, si adoprasse a nascondere la bruttezza con le qualità morali. Tanto quell'uomo, il più sapiente fra tutti, si valeva dello specchio per la disciplina dei costumi. E Demostene, il principe dell'arte della parola, chi non sa che egli sempre dinanzi allo specchio quasi davanti a un maestro ripeteva le sue orazioni? Così quel sommo oratore, dopo aver attinto da Platone filosofo l'eloquenza e appreso da Eubolide dialettico l'arte dell'argomentazione, chiese per ultimo allo specchio l'armoniosa compostezza della pronuncia. Credi tu dunque che nel far valere la sua orazione debba curare maggiormente il decoro della forma l'avvocato che litiga o il filosofo che ammonisce; colui che discute per un momento davanti a giudici sorteggiati o quello che disserta sempre dinanzi agli uomini tutti? uno che contesta i limiti di un campo o uno che insegna i limiti del bene e del male? Né soltanto per questo un filosofo deve riguardare lo specchio. Spesso è necessario non solo esaminare la propria rassomiglianza, ma considerare anche le ragioni della somiglianza. Bisogna vedere se, come afferma Epicuro, le immagini movendo dai nostri corpi con perenne flusso, come leggeri tessuti, allorché hanno urtato un che di liscio e di solido, schiacciate, si riflettano e risaltino per di dietro rovesciate; o, come sostengono altri filosofi, se i nostri raggi, sia emanati dal centro dei nostri occhi e con la luce esterna commisti e unificati, come pensa Platone: sia semplicemente usciti dagli occhi, senza alcun appoggio di luce esterna, secondo la opinione di Archita, sia condotti attraverso il fluido dell'aria, come pensano gli Stoici; se questi raggi, dunque, quando cadono su un corpo solido e brillante e liscio rimbalzino con angoli uguali all'angolo di incidenza, tornando indietro alla figura donde sono partiti, di guisa che ciò che essi toccano e vedono all'esterno raffigurino dentro lo specchio.
 

XVI

Non pare a voi che la filosofia debba proporsi tutti questi problemi e investigarli e guardare tutti gli specchi liquidi e solidi? E al filosofo, oltre le questioni di cui si è parlato, è necessario altresì considerare perché appunto negli specchi piani apparisce quasi affatto uguale l'immagine di chi si specchia, in quelli convessi e sferici tutto apparisce più impiccolito e nei concavi invece ingrandito; e inoltre per quale ragione negli specchi la sinistra è al posto della destra, e quando la immagine ora resti nascosta nell'interno, ora si manifesti alla superficie del medesimo specchio; perché gli specchi concavi se sono collocati di faccia al sole accendano gli oggetti infiammabili messi davanti al loro foco; perché mai si vede lo svariare di un arco tra le nubi e l'emula somiglianza di due soli; e restano moltissimi altri fenomeni di tal genere che tratta in un grande volume Archimede siracusano: uomo certamente in ogni scienza geometrica sopra tutti meraviglioso per acutezza, ma per questo forse massimamente memorabile, per aver saputo veder bene e molte volte nello specchio. E se tu, Emiliano, avessi conosciuto questo libro e ti fossi dato non solo al campo e alle glebe, ma anche all'abbaco e alla rena, credimi pure, anche con codesto tuo mostruoso aspetto da maschera tiestea, saresti, senza dubbio, per la passione dello studio, andato allo specchio e talvolta, smesso l'aratro, avresti rimirato sulla tua faccia i tanti solchi delle rughe.
Ma se tu sei contento che io parli di codesta tua raggrinzatissima faccia, dissimulando quella assai più selvaggia indole tua, non ne ho punto meraviglia.
Così è: oltre a non essere litigioso, io ho avuto sino a poco fa il piacere di non sapere se tu fossi bianco o nero; e finora, per grazia di Dio, non ti ho conosciuto abbastanza. Ed è avvenuto appunto questo: che tu vivi ignorato nei tuoi campi, ed io vivo occupato nei miei studi. Così l'ombra che ti nasconde ti ha sottratto alla censura e io non ho cercato mai di conoscere le male azioni degli altri, e ho preferito sempre far dimenticare i miei peccati che indagare quel degli altri. Pertanto, dinanzi a te sono nella condizione di chi è vissuto in un luogo tutto pieno di luce e un altro dalle tenebre di lontano lo spia. Così quello che io faccio all'aperto ed in pubblico tu agevolmente riguardi dal fondo delle tenebre tue, mentre la bassa ed occulta oscurità in cui vivi non mi consente di vederti a mia volta.
 

XVII
I TRE SERVI AFFRANCATI

 

Così, se tu hai degli schiavi per coltivare la terra o se fai scambio di opere mutuarie coi tuoi vicini, non so né mi curo di sapere; tu invece sai che io nello stesso giorno in Oea ho affrancato tre schiavi, e ciò il tuo avvocato, fra le altre rivelazioni che gli hai fatto, mi ha rinfacciato, benché poco prima avesse detto che ero venuto in Oea accompagnato da un solo servo. Ed io vorrei che tu mi rispondessi proprio su questo, come mai con un solo servo io abbia potuto affrancarne tre: a meno che non entri anche qui la magia. Che debbo dire? Può giungere fino a tanto la cecità o la consuetudine della menzogna? «Venne Apuleio in Oea con un solo servo»: e dopo un garrulio di poche parole: «Apuleio in Oea in un sol giorno ne affrancò tre». Sarebbe già poco credibile che venuto con tre io li avessi tutti e tre liberati; ma se anche così avessi fatto, perché dovresti stimare tre servi indizio di povertà piuttosto che tre affrancati indizio di opulenza? Tu non sai certamente, Emiliano, che accusi un filosofo: tu che hai potuto rimproverarmi quella pochezza di servitù, che invece avrei dovuto inventare io, per farmene un vanto: perché sapevo che non solo i filosofi, dei quali mi dichiaro seguace, ma anche i supremi comandanti del popolo romano si gloriarono della pochezza dei servi. Dunque neppure questo hanno letto i tuoi avvocati, che M. Antonio, dopo il suo consolato, aveva in casa soltanto otto servi; Carbone, quello rimasto a capo della Repubblica, uno di meno, e Manio Curio, famoso per tante vittorie, che passò tre volte per la medesima porta da trionfatore, quel Manio Curio, dico, ebbe nel suo accampamento due soli garzoni. Così quell'uomo che trionfò dei Sabini, dei Sanniti e di Pirro, ebbe più trionfi che servi. E M. Catone, senza aspettare che altri facesse la sua lode, in una orazione lasciò scritto che partendo console per la Spagna, condusse con sé da Roma tre soli servi; giunto alla Villa Pubblica, credendo che non bastassero alle necessità del servizio, ne fece comprare due al pubblico mercato: andò in Ispagna con cinque. Credo che se Pudente avesse letto questi fatti o si sarebbe risparmiata la calunnia ovvero in tre servi che accompagnano un filosofo avrebbe preferito scorgere una colpa di abbondanza anzi che di miseria.
 

XVIII
LA POVERTÀ

Egli, Pudente, anche della mia povertà ha fatto un delitto: delitto che un filosofo gradisce e apertamente professa. La povertà è sempre stata domestica ancella della filosofia, onesta, sobria, ricca di poco, gelosa del buon nome, stabile possesso di fronte alle ricchezze, sicura del suo stato, semplice nell'aspetto, provvida di consigli; nessuno ha mai gonfiato di superbia, nessuno ha depravato con la sfrenatezza, nessuno ha imbestiato con la tirannide, le delizie della gola e degli amori non vuole né saprebbe godere. Queste sono vergogne consuete agli alunni delle ricchezze. Se passi in rassegna i più grandi scellerati che la storia ricordi, non troverai tra di essi nessuno povero; e mentre bisogna fare ricerca per trovare dei ricchi fra gli uomini illustri, quanti sono ammirevoli per qualche merito sono stati fin dalla culla nutriti dalla povertà. La povertà, dico, fin dai primi tempi dell'umano consorzio, fondatrice di tutti gli Stati, inventrice di tutte le arti, priva di ogni peccato, larga dispensiera di ogni gloria, operatrice di ogni bene nel mondo. Vedetela presso i Greci: in Aristide giusta, in Focione benigna, in Epaminonda valorosa, in Socrate sapiente, in Omero eloquente; essa stessa, la povertà, è stata dalle origini fondamento di impero al popolo romano, il quale appunto per ciò, ancora oggi, sacrifica agli dèi immortali con un ramaiolo e una scodella di argilla. Se dovessero sedere giudici in questa causa Gaio Fabrizio, Gneo Scipione, Manio Curio, le cui figlie per la loro povertà furono dotate a spese dello Stato e andarono alle case dei loro mariti portando la gloria domestica e il denaro pubblico; se Publicola, colui che cacciava i re, se Agrippa, riconciliatore del popolo, i cui funerali a cagion di miseria furono fatti mediante pubbliche offerte; se Attilio Regolo, il cui campicello per simile indigenza fu coltivato a spese dello Stato: se insomma tutte quelle antiche famiglie di consoli, di censori, di trionfatori, potessero ritornare un istante alla luce ed assistere a questo processo, oseresti tu rinfacciare la povertà a un filosofo dinanzi a tanti consoli che furono poveri?
 

XIX

E pare a te che Claudio Massimo sia uomo adatto ad ascoltare i tuoi scherni sulla povertà per il fatto che egli ha sortito un prospero e copioso patrimonio? Sbagli, Emiliano: tu sei ben lontano da quest'anima, se la misuri secondo i favori della fortuna, non secondo i severi principi della filosofia; se un uomo di tanta austera disciplina filosofica e di così lunga milizia, non credi sia più amico di una contenuta temperanza che di una raffinata opulenza e si compiaccia della fortuna come di una tunica piuttosto proporzionata che lunga: giacché anche essa, la fortuna, se invece che portata è trascinata, così come un lembo che penda giù, impaccia e fa cascare. Fra tutte le cose necessarie agli usi della vita tutto quanto sorpassa la giusta misura è piuttosto di aggravio che di vantaggio. Le ricchezze smodate come ingenti ed enormi timoni fanno più facilmente affondare la nave, anzi che dirigerla per la sua rotta, perché hanno un'abbondanza inutile e una sovrabbondanza nociva. E tra la gente più ricca vedo che sono soprattutto lodati quelli che, silenziosi e modesti, dissimulate le loro fortune, vivono amministrando i loro grandi beni senza ostentazione né superbia, per la semplicità delle loro maniere, simili ai poveri. Ora, se anche i ricchi, per prova di modestia, vagheggiano una certa apparenza e un tal colore di povertà, perché dovremmo arrossirne noi che, in più umile condizione, sopportiamo una povertà non simulata ma reale?
 

XX

Ed io potrei anche fare con te questione proprio di parola: e sostenere che nessuno è povero il quale rinunci al superfluo ed è provveduto di quel necessario che per natura si riduce a ben poco. Ha il massimo quegli che desidera il minimo; chi vorrà pochissimo avrà infatti quanto vorrà. Le maggiori ricchezze non sono riposte in terre e in capitali, quanto negli appetiti dell'animo nostro, ché se dall'avidità è fatto bisognoso e insaziabile ad ogni guadagno, neppur montagne d'oro gli saranno abbastanza: e per aumentare i suoi guadagni avrà sempre qualcosa da mendicare. È questa appunto una vera confessione di povertà: perché ogni desiderio di arricchire viene dal pensiero che ti manchi qualcosa: e non importa quanto sia grande ciò che ti manca. Filo non ebbe un patrimonio così grosso quanto Lelio, né Lelio quanto Scipione, né Scipione quanto Crasso il ricco, ma neppure Crasso il ricco quanto ne avrebbe voluto. Così, mentre superava in richezza tutti gli altri, a tutti sembrò ricco, meno che a sé. Quei sapienti invece, che ho ricordati, nulla volendo al di là delle proprie forze e avendo anzi accordati i desideri con le loro facoltà, furono a buon diritto meritamente ricchi e fortunati. Tu sei povero per il continuo bisogno di afferrare qualcosa, sei ricco per la sazietà dell'esser pago. Il distintivo della miseria è il desiderio, quello dell'opulenza è la sazietà. Così, Emiliano, se vorrai che io mi ritenga povero, è necessario dimostrarmi prima che sono un avaro. Ma se l'animo mio non manca di nulla, io non mi dò pensiero di quanto manchi dei beni esteriori, dei quali l'abbondanza non è un merito, e la penuria non è una colpa.
 

XXI

Ma supponi che la cosa stia altrimenti e che io sia povero perché la fortuna mi ha invidiato le ricchezze, ed esse, come di solito avviene, mi ha accorciate un tutore o mi ha strappate un nemico, o non mi ha lasciate mio padre. Per questa ragione dovrai rinfacciare a un uomo quello che non si rimprovera a nessun animale, non all'aquila, né al toro né al leone? Se un cavallo ha tutte le migliori qualità: uguale andatura, corso veloce, nessuno gli rimprovera la scarsezza del nutrimento; e tu mi attribuirai a colpa non la bassezza di qualche parola o azione, ma la modestia della casa, la pochezza dei servi, la troppa parsimonia degli alimenti, la semplicità dei vestiti, la frugalità della tavola? Eppure, comunque ti sembrino misere queste mie condizioni, io stimo al contrario di avere assai, di aver troppo, e vorrei contenermi ancora di più e godere la maggiore felicità nelle maggiori strettezze. Giacché dell'animo come del corpo la sanità non vuole impedimenti; la debolezza è piena di impicci ed è segno infallibile di infermità aver bisogno di tante cose. La vita è come il mare: nuota meglio chi è leggero, ed anche nella tempesta della umana esistenza, il poco peso regge, il troppo affonda. Ho appreso che appunto in questo consiste la superiorità degli dèi sugli uomini, nel non aver bisogno di nessuna cosa per la propria esistenza; fra noi, dunque, chi si contenta del minimo, quegli è più vicino agli dèi.
 

XXII

Per ciò godevo quando per oltraggiarmi dicevate che tutto il mio patrimonio era la bisaccia e il bastone. Voglia il cielo che io abbia l'animo così alto da non desiderare mai nulla oltre quel corredo e di portare degnamente quell'apparato che Cratete, abbandonate le proprie ricchezze, volle far suo. Codesto Cratete - puoi crederlo, Emiliano - uomo, tra i grandi signori di Tebe, ricco e nobile, per amore di quest'abito che mi rinfacci, donò al popolo il suo ricco ed opulento patrimonio, e congedati i suoi numerosi schiavi, scelse la solitudine: ai moltissimi alberi fruttiferi preferì un solo bastone, le ville piene di ogni ornamento commutò con una sola bisaccia che poi, sperimentatane la utilità, celebrò in un carme, adattando a questo scopo i versi in cui Omero magnifica l'isola di Creta. Ne citerò il principio perché tu non creda siano queste fantasticherie della mia difesa:
 

In mezzo al fosco oceano dell'orgoglio è una città:
la mia bisaccia.
 

E il resto è così stupendo che se tu l'avessi letto mi avresti invidiato la bisaccia più che le nozze di Pudentilla. La bisaccia e il bastone tu rimproveri ai filosofi: allora anche ai cavalieri le loro fàlere e ai fanti gli scudi e ai vessilliferi gli stendardi e ai trionfatori le bianche quadrighe e la toga palmata. Queste di cui parlo non sono le fogge della setta platonica, ma le insegne della cinica famiglia. Dico dunque che per Diogene e Antistene la bisaccia e il bastone furono quello che è il diadema per i re, il manto per i generali, la calotta per i pontefici, il lituo per gli àuguri. Diogene cinico, discutendo con Alessandro il Grande sul vero regno, si gloriava del suo bastone invece dello scettro; e lo stesso invincibile Ercole - giacché per te le virtù morali dei filosofi sono miserabili pitoccherie - lo stesso Ercole, dico, percorritore del mondo, sterminatore delle fiere, domatore delle genti, egli che fu pure un dio, nel tempo in cui vagò per le terre, fin quasi al momento in cui le sue virtù lo innalzarono al cielo, non ebbe che una sola pelle per veste e un sol bastone per compagno.
 

XXIII

Ma se questi esempi non valgono niente per te e se mi hai citato non per trattare la causa ma per inventariare i miei beni, perché tu non abbia a ignorare nulla delle mie cose, - supposto che tu non sappia - dichiaro che a me e a mio fratello mio padre lasciò circa due milioni di sesterzi: e questo patrimonio per i lunghi viaggi, per i miei continui studî e le frequenti liberalità fu alquanto diminuito. A molti amici prestai soccorso, a moltissimi maestri diedi segni della mia riconoscenza e di alcuni anche dotai le figliole: e non avrei affatto esitato a sacrificare anche tutta la mia ricchezza per acquistare un bene che del patrimonio vale assai più. Ma tu, Emiliano, e gli uomini della tua razza, gente incolta e selvaggia, valete soltanto quello che possedete: così come l'albero sterile e infelice, che non produce alcun frutto, vale soltanto il legno del suo tronco. Lascia per l'avvenire, Emiliano, le invettive contro la povertà, tu che ora è poco quel campicello di Zaratha, l'unico che ti avea lasciato tuo padre, solo con un solo asinello in tre giorni lavoravi verso la stagione delle piogge. Perché solo da poco tempo la morte che infierisce tra i tuoi parenti ti ha rassodato con eredità che non ti spettavano affatto: donde a te, piuttosto che da codesta tua orribile figura, è venuto il nome di Caronte.
 

XXIV
LA PATRIA DI APULEIO

Quanto alla patria mia, che essa è posta proprio sul confine della Numidia e della Getulia, risulta, come avete mostrato, dai miei discorsi scritti; infatti in una pubblica conferenza, alla presenza del chiarissimo Lolliano Avito, mi dichiarai seminumida e semigetulo; ma io non vedo che cosa ci sia in questo di vergognoso per me come per Ciro il grande, il quale fu di genere misto, semimedo e semipersiano. Non infatti dove uno è nato, ma come è costumato bisogna osservare: e considerare non il luogo di nascita ma il modo di comportarsi nella vita. L'ortolano e il bettoliere a buon diritto vantano gli ortaggi e il vino secondo la nobiltà del suolo da cui provengono: vino di Tasos, legumi di Fliunte: giacché a quei prodotti della terra dà un miglior sapore la fertilità della contrada, l'umidità del clima, la mitezza del vento, l'abbondanza di sole, la grassezza del terreno. Ma all'anima umana, che viene a immigrare straniera nell'ospizio del corpo, quale di codeste cose accessorie potrebbe accrescere o diminuire la virtù o il vizio? E varii ingegni non sono sempre apparsi in tutti i paesi, anche in quelli più famosi per ottusità o per intelligenza? Presso gli Sciti, ottusissima gente, nacque il sapiente Anacarsi; in Atene, la città dello spirito, Meletide l'idiota. Non ho detto questo perché io abbia vergogna della mia patria, se pur fossimo ancora dominio di Siface: ma così non fu: ché dopo la sua sconfitta passammo per favore del popolo Romano alla signoria di Massinissa e poi con nuovo ordinamento divenimmo splendidissima colonia di veterani. In questa colonia mio padre tenne l'alta carica di duumviro, dopo esser passato per tutti i gradi: e la paterna dignità, fin da quando ebbi parte nella vita pubblica, senza mai degenerare, ho sempre mantenuto, spero, con uguale stima ed onore. Perché ho detto queste cose? Perché tu, Emiliano, da ora in poi sia meno sdegnato con me ed anzi mi impartisca il perdono, se mi sono per avventura scordato di scegliere a luogo di nascita quella tua attica Zaratha.
 

XXV

Come mai non vi vergognate di produrre seriamente dinanzi a tale magistrato tali capi di accusa frivoli e contradittori, colpendoli ugualmente di biasimo? E non vi siete forse contraddetti incolpando la bisaccia e il bastone di austerità, le poesiole e lo specchio di scostumatezza, e trovando in un solo servo lo spilorcio, in tre liberti lo scialacquatore e l'eloquenza greca in un barbaro? Svegliatevi una buona volta e ricordate di parlare dinanzi a un magistrato severo che deve accudire agli affari di tutta la provincia; tralasciate, dico, queste ingiurie vane e dimostrate le colpe di cui mi avete accusato, i feroci delitti, i vietati maleficî, le nefande macchinazioni. Perché nelle prove tanta mollezza e negli schiamazzi tanta energia?

L'ACCUSA DI MAGIA


Eccomi arrivato all'accusa di magia, a quell'incendio che acceso con grande baccano, per mia rovina, contro la comune aspettazione è svanito fra non so quali storielle da vecchie comari. Non vedesti tu mai, Massimo, uno di quei fuochi di stoppia che scoppiettando sonoro divampa immenso a un tratto e poi cade, ché è paglia, senza lasciare più nulla? Eccoti quell'accusa: cominciata con le ingiurie, nutrita di chiacchiere, difettosa di prove, dopo la tua sentenza non lascerà più veruna traccia della calunnia.

IL MAGO

Poiché per Emiliano tutta l'accusa fu compresa in questa sola imputazione, che io sono un mago, voglio chiedere ai suoi eruditissimi avvocati, che cosa sia il mago. Siccome io leggo in numerosi autori, mago è nella lingua dei Persiani quello che è da noi il sacerdote; e allora qual delitto è dopo tutto essere sacerdote, avere la conoscenza, la scienza, la pratica delle ordinanze rituali, dei precetti della religione, delle regole del culto? Questa è almeno la definizione che Platone dà della magia quando ricorda con quali discipline i Persiani educhino al regno il giovane principe. Ho nella memoria le parole di quell'uomo divino: e tu, Massimo, ricorda con me: «All'età di quattordici anni lo ricevono quelli chiamati regi pedagoghi. Sono scelti tra i Persiani i quattro ritenuti migliori, di età matura: il più saggio, il più giusto, il più temperante, il più coraggioso. Dei quali uno insegna la magia di Zoroastro figlio di Oromazo: e questo è il culto degli dèi. Insegna anche l'arte del regnare».
 

XXVI

Avete ascoltato, dunque. La magia, che voi sconsigliatamente accusate, è arte gradita agli dèi immortali, che gli dèi sa bene onorare e venerare, pietosa voglio dire ed esperta delle cose divine, già fin da Zoroastro e da Oromazo, suoi fondatori, sacerdotessa dei celesti; essa fa parte dei primi insegnamenti del principe, e fra i Persiani non è più lecito a chiunque esser mago che essere re. In un altro dialogo Platone, a proposito di Zalmoxis, uno che pur essendo trace di nazione, praticava la medesima arte, lasciò scritto così: «gl'incantamenti essere buone parole». Se è così, perché non mi è lecito conoscere le buone parole di Zalmoxis o la scienza sacerdotale di Zoroastro? Ma se, com'è volgare costume, i miei avversari credono che mago è propriamente colui che mediante la sua comunicazione con gli dèi immortali, con la forza di certi incantesimi può compiere tutto ciò che voglia di incredibile, mi stupisco in verità che essi non abbiano temuto di accusare uno cui riconoscono tanto potere. Giacché da una potenza tanto occulta e soprannaturale non ci si potrebbe guardare come da altri pericoli. Chi chiama in giudizio un assassino, viene accompagnato; chi accusa un avvelenatore, sta più attento a quel che mangia; chi denuncia un ladro, custodisce bene le sue cose; ma chi accusa di un delitto capitale un mago, come costoro l'intendono, con quali compagni, con quali scrupoli, con quali custodi può rimuovere da sé la invisibile e inevitabile rovina? Per siffatti delitti, chi accusa non crede.
 

XXVII

Per un comune errore di ignoranza sono attaccati solitamente i filosofi. Gli uni che cercano di penetrare le cause elementari e i princìpi costitutivi dei corpi, sono tenuti per irreligiosi e negatori degli dèi, come Anassagora, Leucippo, Democrito ed Epicuro e tutti quanti sono sostenitori dell'ordine naturale del mondo; gli altri che solleciti scrutano la provvidenza ordinatrice dell'universo e onorano devotamente gli dèi, questi sono chiamati volgarmente maghi, quasi fossero altresì gli autori dei fatti che essi conoscono. Tali furono Epimenide e Orfeo e Pitagora e Ostane; e in sospetto di magia vennero dopo anche le Purificazioni di Empedocle, il Dèmone di Socrate, il Bene di Platone. Mi congratulo con me stesso di essere anch'io annoverato fra tanti e tali personaggi. Tutte le altre inezie e assurdità che costoro han tratto fuori per dimostrare la mia colpabilità ingenuamente temerei che tu possa ritenerle criminose per il solo fatto che mi sono state imputate. «Perché, dice, tu hai fatto ricerca di certe specie di pesci?» Come se a un filosofo non sia lecito fare per motivo di studio quello che un gaudente si permetterebbe per il piacere della gola. «Perché una donna libera ti ha sposato dopo quattordici anni di vedovanza?» Quasi non fosse più mirabile cosa l'essere rimasta tanti anni senza marito. «Perché prima di sposarti mise per iscritto in una lettera non so quale suo personale apprezzamento?» Quasi uno debba dare ragione dei sentimenti altrui. «Una donna avanti negli anni non ha rifiutato un giovane»: questo per l'appunto prova che non c'è stato bisogno di magia, per decidere una donna a sposare un uomo, una vedova un celibe, un'anziana un giovane. E così anche il resto. «Apuleio ha in casa un oggetto che adora religiosamente»: come se non sia piuttosto una colpa non aver nulla da adorare. «Un ragazzo è caduto in presenza di Apuleio»: e che ci sarebbe di strano se un giovane, se anche un vecchio fosse caduto dinanzi a me o colpito da malore o sdrucciolato su un terreno scivoloso? Ah, dunque con questi argomenti intendete convincermi di magia, con la caduta di un fanciullo, col matrimonio di una donna e con un piatto di pesci?
 

XXVIII

Potrei con piena sicurezza contentarmi di ciò che ho detto e concludere. Ma, perché in grazia della lunga accusa, mi resta molto tempo ancora, consideriamo, se non dispiace, i singoli capi di accusa. Tutti i fatti che mi sono imputati, falsi o veri che siano, io non negherò: li confesserò come fossero avvenuti, affinché tutta codesta gente che è qui accorsa da ogni parte ad ascoltare, intenda apertamente che contro i filosofi non c'è accusa vera o calunniosa che essi, quantunque sia loro lecito negare, non possano respingere come più loro piace, sicuri della propria innocenza. Comincerò dunque col confutare i loro argomenti provando che non hanno alcun rapporto con la magia; fossi anche il più gran mago del mondo, dimostrerò che essi non ebbero mai né motivo né occasione di sorprendermi in qualche opera malefica, Tratterò della campagna di calunnie scatenata contro di me, delle lettere di mia moglie malamente lette e perfidamente interpretate, e dei mio matrimonio con Pudentilla, accettato da me per dovere e non per interesse: matrimonio che non è a dirsi quanto sia stato a Emiliano angoscioso e tormentoso. Di là è nata tutta l'ira, la rabbia, la follia, che hanno mosso questo processo. Quando io ti avrò apertamente e chiaramente dimostrato tutti questi punti, allora, Claudio Massimo e tutti voi qui presenti, vi prenderò a testimoni che questo ragazzo Sicinio Pudente, mio figliastro, a cui nome e per cui volere dallo zio suo sono accusato, è stato ora è poco strappato alla mia cura, dopo la morte di Ponziano, suo fratello maggiore di età e migliore di costui; e, reso empiamente selvaggio contro di me e la madre sua, disertati senza mia colpa gli studi liberali, ripudiata ogni disciplina, mercé gli scellerati ammaestramenti di questo processo, sarà destinato a rassomigliare allo zio Emiliano piuttosto che al fratello Ponziano.
 

XXIX
I PESCI MAGICI

Ed ora, conforme al mio piano, passerò a tutte le frenesie di questo Emiliano qui, cominciando da quella che hai sentito addotta in principio come argomento capitale per il sospetto di magia: che cioé io abbia pagato dei pescatori per procurarmi certe specie di pesci. Quale dei due fatti è valido per il sospetto di magia: il fatto che dei pescatori abbiano cercato del pesce per me? Vuol dire che avrei dovuto dare questo incarico a dei ricamatori o a dei carpentieri e invertire così le prestazioni di ciascun mestiere per evitare le vostre calunnie, di guisa che un falegname mi pescasse dei pesci e un pescatore mi piallasse il legname. Oppure intendete che quei pesci eran destinati a un maleficio per il fatto che l'ho pagati? Già: ritengo che se li avessi richiesti per un banchetto, me li avrebbero dati per nulla. Perché non mi accusate anche di tanti altri acquisti? Tante volte ho speso il mio denaro per comprare vino, legumi, frutta. Ma tu così condanni alla fame tutti i rivenditori di generi alimentari, perché nessuno oserà provvedersi da loro, se si stabilisce che tutti i commestibili acquistati a un dato prezzo servono non al pranzo ma alla magia. Se non sussiste dunque alcun sospetto, sia nei pescatori invitati al loro mestiere, cioè a prendere i pesci - dei quali tuttavia nessun testimone citarono, perché nessuno esisteva - sia nel prezzo della merce - la cui somma tuttavia non specificarono affatto perché il prezzo non apparisse se troppo basso una miseria, se troppo alto una menzogna - se in tutto questo, dico, non è alcun sospetto, mi dica Emiliano per quale probante indizio sia stato indotto ad accusarmi di magia.
 

XXX

«Tu cerchi, dice, dei pesci». Non voglio negarlo. Ma, di grazia, chi cerca un pesce è un mago? Non più, credo, che se cercasse lepri o cignali o pollame. Oppure i soli pesci hanno qualcosa di occulto agli altri e noto soltanto ai maghi? Se tu sai che cosa sia, sei certamente mago; se non lo sai, devi confessare che mi accusi di ciò che non sai. Ma come essere così ignoranti di ogni opera letteraria e perfino di ogni favoletta popolare, da non poter mettere insieme delle fandonie verosimili? Come mai può servire ad accendere fiamma di amore un freddo pesce o qualunque altra sostanza tratta dal mare? A meno che non vi abbia indotto a mentire la leggenda di Venere nata dai flutti marini. Stai a sentire, Tannonio Pudente, che grande ignorantone sei tu che hai raccolto una prova di magia a proposito dei pesci. Se tu avessi letto Virgilio per certo avresti appreso che a fare stregoneria occorrono altre cose. Egli infatti, per quanto io so, enumera bende delicate, grasse verbene, maschio incenso, fili di diverso colore e inoltre l'alloro crepitante, l'argilla che indurisce, la cera che si fonde: senza contare ciò che egli menziona nell'opera grande:
 

Con falci di bronzo si raccolgono al lume di luna le erbe mature stillanti un succo di
nero veleno: si cerca dalla fronte di un puledro neonato l'ippomane strappato alla
madre.

 

Ma tu, l'accusatore di pesci, attribuisci ai maghi ben altri strumenti che bisognerà non detergere dalle tenere fronti ma staccare dai dorsi squamosi, né divellere dal campo ma estrarre dal fondo del mare, né mietere con le falci ma uncinare con gli ami. Infine, Virgilio, in quella magica fattura, nomina il veleno, tu una pietanza, egli erbe e ramicelli, tu squame e lische, egli spoglia il prato, tu frughi il mare. Potrei citare anche passi analoghi di Teocrito, altri di Omero, altri numerosissimi di Orfeo: e molti tratti dalle commedie e dalle tragedie greche e dalle storie, se non avessi notato che non hai saputo leggere una lettera di Pudentilla in lingua greca. Citerò un solo poeta latino, i cui versi riconosceranno i lettori di Levio:
 

Estraggono da per tutto filtri, cercano l'antipate,
rotelle, unghie, bende, radichette,
erbe, sorcoli, lucertole adescatrici a due code,
dolcezze di annitrenti cavalle.

 


XXXI

Ecco press'a poco le cose che invece dei pesci con più verosimiglianza e con qualche credito, sulla base di correnti dicerie, avresti potuto immaginare se tu avessi la minima erudizione. Un pesce invece a che può servire, quando si è preso, se non che a mangiarlo, quando si è cotto? Rispetto alla magia mi pare non possa per niente giovare. Ti dirò perché penso così. Molti hanno ritenuto Pitagora discepolo di Zoroastro ed esperto, come lui, di magia: eppure si narra che presso Metaponto, sul litorale della sua Italia, divenuta per lui una seconda Grecia, avendo egli visto dei pescatori che traevano la rete, comprò tutta la retata e sborsato il denaro ordinò che i pesci là dentro prigionieri fossero liberati e restituiti al fondo del mare. Egli, di certo, non se li sarebbe lasciati sfuggire di mano se ci avesse trovato una qualche utilità in fatto di magia. Era un uomo, Pitagora, di eccezionale erudizione, che aveva a modello gli antichi e ricordava che Omero poeta multisciente, anzi di un sapere assolutamente universale, aveva attribuito ogni magico potere non al mare, ma alla terra, quando di una certa maga egli dice:
 

essa tanti farmaci conobbe quanti ne produce l'ampia terra,
 

e in un altro poema dice ugualmente:
 

colà dove la terra feconda produce insieme in gran copia
erbe velenose e salutari.
 

E invece mai in Omero con alcunché di mare o di pesci incantò Proteo la propria figura o Ulisse la sua fossa o Eolo i suoi otri o Elena la sua coppa o Circe i suoi beveraggi o Venere la sua cintura. Voi soli, da che mondo è mondo, siete stati trovati capaci di trasferire la virtù magica delle erbe, delle radici, dei sorcoli e delle pietre, per una specie di rovesciamento della natura, dalle sommità delle montagne nel mare e di cucirla in fondo alle interiora dei pesci. Pertanto come nelle cerimonie magiche si solevano invocare Mercurio apportatore di incantesimi e Venere ammaliatrice dei cuori e la Luna complice delle notti e Trivia regina dei Mani, per merito vostro ormai Nettuno con Salacia e Portuno e tutto il coro di Nereo trapasseranno dal fervore dei flutti al fervore delle passioni amorose.
 

XXXII

Ho detto perché non credo ci sia alcun rapporto tra i maghi e i pesci. E ora, se volete, crediamo pure ad Emiliano, che i pesci servono anche alle operazioni magiche. Ma per questo chi ne fa ricerca è un mago? E allora chi fa ricerca di un brigantino è un pirata, chi cerca una leva è uno scassinatore, chi una spada, un assassino. Nulla è in ogni cosa tanto innocente che non possa ispirare una sinistra interpretazione. Ma pure non si ha l'abitudine di trarre ogni cosa al suo peggiore significato; come credere per esempio che incenso, cassia, mirra, debbano servire soltanto ai funerali, mentre si acquistano anche per medicamenti o per sacrifici? Restando all'argomento dei pesci, crederai maghi anche i compagni di Menelao che, a quanto afferma il poeta sovrano, presso l'isola di Faros si servirono di ami ricurvi per cacciare la fame, anche gli smerghi, i delfini, la squilla porrai nella stessa categoria, anche tutti i ghiottoni, che a furia di spese si fanno affogare dai pescatori, e i pescatori stessi, la cui arte consiste nel pigliare ogni specie di pesce. «Ma si può sapere, dici tu, perché ne hai fatto ricerca?» Non ho desiderio né bisogno di dirtelo; tu, se ne sei capace, accusami pure di averne acquistato per magia. Se io per esempio avessi comperato elleboro o cicuta o succo di papavero o altre simili sostanze, di cui l'uso moderato è benefico, ma nocivo il miscuglio e l'eccesso, chi sopporterebbe in pace che tu mi accusassi di veneficio per la sola ragione che con quelle sostanze si può uccidere un uomo?
 

XXXIII

Vediamo quali specie di pesci furono così indispensabili e così rare a trovare da dover essere ricercate a prezzo stabilito. Essi in tutto ne hanno nominato tre: in uno hanno sbagliato, in due hanno mentito. Si sono sbagliati quando hanno dato il nome di lepre marino a tutt'altro pesce, che il mio servo Temisone, non ignaro di medicina, mi portò spontaneamente a esaminare, come hai udito da lui stesso: perché lepri di mare finora non ne ha trovati. Dichiaro che le mie ricerche vanno più in là: e non solo ai pescatori, ma anche agli amici dò incarico, ogni qual volta capiti loro sotto gli occhi un pesce di specie poco conosciuta, che me lo descrivano, oppure me lo facciano vedere vivo o, se non è possibile, morto. Dirò fra poco per quale ragione. Codesti miei accusatori, pieni come si credono di furberia, mentirono quando a compimento della calunnia immaginarono che io avessi ricercato due frutti di mare dai nomi osceni: e Tannonio voleva far intendere che fossero le parti genitali dei due sessi; ma non potendo per incapacità di parola esprimersi, quel sommo avvocato, dopo molta e lunga incertezza, finalmente, con non so quale perifrasi, riuscì a nominare, con disgustosa improprietà, i genitali maschili di un pesce; ma non potendo assolutamente trovare un termine pulito per l'organo femminile, ricorse ai miei scritti e lesse in un mio libro: «l'interfeminio nasconda con la sporgenza delle cosce e col velame della palma».
 

XXXIV

Quest'uomo, anche in nome della sua moralità, mi rimproverava che non mi increscesse dire onestamente cose alquanto impudiche; io piuttosto dovrei più onestamente rinfacciargli che, mentre fa pubblica professione di patrocinio oratorio, anche delle cose oneste a dirsi ciancia trivialmente, e dove non c'è difficoltà alcuna si mette a chioccolare o ammutolisce. Ti faccio una domanda: se io non avessi detto nulla della statua di Venere né avessi nominato l'interfeminio, con quali parole avresti mosso quell'accusa che è in perfetta armonia tanto con la tua sciocchezza quanto con la tua lingua? E si potrebbe fare congettura più sciocca di questa, che cose affini di nome abbiano tra loro una reale parentela? Eppure probabilmente voi credete di avere scoperto un modo ingegnosissimo, immaginando che io avessi cercato per i miei magici incantesimi quei due frutti marini, la veretilla e il virginal: impara a nominare le cose in latino: per questo ho variato i termini, perché tu meglio istruito rinnovi l'accusa. Sappi tuttavia che accusare un uomo di aver cercato oscenità marine per i suoi piaceri venerei sarebbe argomento tanto ridicolo come se tu dicessi che un pettine di mare è richiesto per ravviare i capelli, un pesce falco per acchiappare gli uccelli, un pesce cignalino per cacciare i cinghiali o i teschi marini per evocare i morti. A tali vostre invenzioni così insipide e assurde rispondo che queste robucce e chiappole di mare e di spiaggia io non ho mai cercato né a prezzo né in dono.
 

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