Nel 1492 Ferdinando ed Isabella conquistarono il regno di Granata, avvenimento che offrì nuove vittime all'Inquisizione in tanta moltitudine di Mori, la cui conversione era poco stabile, o non aveva altro fondamento che quello di acquistare maggior considerazione col battesimo, facendo poi in appresso nuovamente professione del maomettismo.
Giovanni Navagero, ambasciatore della repubblica di Venezia presso Carlo V, dice nel suo viaggio della Spagna che Ferdinando ed Isabella avevano promesso che per quarant'anni l'Inquisizione non sarebbesi immischiata negli affari de'Moreschi, ossia dei nuovi cristiani che abbandonerebbero il maomettismo; ma che nonpertanto ottenne di stabilirsi subito in Granata, sotto pretesto che molti antichi ebrei sospetti d'apostasia vi si erano rifuggiti. Ma quest'autore alterò alquanto il fatto; perciocchè i due sovrani promisero soltanto che non si procederebbe contro i nuovi cristiani moreschi che per gravissimi motivi: lo che ebbe effetto, ma non in modo che que'popoli non fossero frequentemente sforzati a riclamare in loro favore la reale promessa. Per altro la giurisdizione degl'inquisitori di Cordova non si estese sul regno di Granata che nel 1526 pei motivi che verrò ben tosto annoverando.
Siccome all'espulsione dalla Spagna degli ebrei non battezzati, eseguitasi nel 1492, presero parte Torquemada e gli altri inquisitori, mi conviene parlarne con qualche estensione. Si accusavano gli ebrei di eccitare all'apostasia quelli della loro stirpe che si erano fatti cristiani, e loro si addossavano molti delitti commessi non solo contro gli antichi cristiani, ma ancora contro la religione e la tranquillità dello stato. Rammentavasi la legge del codice, detto de las Partidas, promulgata nel 1255 da Alfonso X, nella quale si tratta della pratica degli ebrei di rapire i fanciulli de'cristiani per crocifiggerli nel venerdì santo, ad oggetto di fare ingiuria alla memoria del Salvatore del mondo. Raccontavasi la storia di s. Domenico di Val, fanciullo di Saragozza, che fu posto in croce nel 1250; il furto fatto di un'ostia consacrata a Segovia nel 1406 e gli oltraggi fattile dagli ebrei; la cospirazione da costoro tramata in Toledo nel 1445, nella quale fu esplosione della polvere disposta sotto le strade della città doveva aver luogo nell'istante in cui passerebbe la processione del ss. Sagramento; quella di Tabarra, borgata posta fra Zamorra e Benavente, per abbruciare le case senza che gli abitanti potessero impedirlo; il supplicio d'altri fanciulli ch'erano stati rapiti ed uccisi, come il figliuolo di Dio, nel 1452 a Valladolid; nel 1454 nelle terre del marchese d'Almarza, presso Zamorra; nel 1468 a Sepulveda, nella diocesi di Segovia; gl'insulti fatti ad una croce nel 1488 nel campo di Puerto del Gamo; il furto del fanciullo della città di Guardia nel 1489, ecc.
Inoltre si accusavano i medici ed i farmacisti ebrei di avere abusato del loro ministero per far morire molti cristiani, fra i quali Enrico III per opera del suo medico don Mair.
Ammettendo ancora per semplice ipotesi, che questi fatti fossero credibili, non perciò era necessario il bando di tutti gli ebrei. La religione e la politica volevano che si trattassero con dolcezza, gl'innocenti, castigando nello stesso tempo severamente i colpevoli, come praticavasi rispetto agli altri Spagnuoli cristiani; ed in tal modo si avrebbero avuti de'cittadini utili, buoni e fedeli al governo, come in tutti gli altri stati d'Europa.

Gli ebrei spagnuoli avendo avuto sentore del fulmine sospeso sul loro capo pensarono di dissiparlo coll'offrire a Ferdinando e ad Isabella trentamila ducati per le spese della guerra di Granata. Quando i due principi si disponevano ad accettare questa offerta, loro si presentò bruscamente Torquemada con un crocifisso in mano, e parlò in tal modo: Giuda fu il primo a vendere il suo maestro per trenta denari: le vostre Altezze pensano di venderlo un'altra volta per trentamila monete; eccole, prendetele ed affrettatevi a venderlo.
Il fanatismo del domenicano produsse un subitaneo cambiamento nello spirito di Ferdinando e d'Isabella, che il 31 marzo del 1492 pubblicarono un decreto in forza del quale tutti gli ebrei d'ambo i sessi erano obbligati ad uscire dalla Spagna prima del 31 di luglio dello stesso anno, sotto pena di morte e della perdita d'ogni loro avere; e lo stesso decreto vietava ai cristiani di ricoverarli, dopo il prescritto termine, nelle proprie case sotto comminatoria delle stesse pene. Si permetteva agli ebrei di vendere i beni immobili, di esportare gli effetti mobili, tranne l'oro e l'argento, per il quale dovevano accettare cambiali o mercanzie non proibite.
Il Torquemada incaricò i predicatori di esortarli a ricevere il battesimo ed a non abbandonare il regno, e pubblicò ancora un editto per persuaderli. Ma pochi furono coloro che mutarono religione: gli altri vendettero i loro beni a così vil prezzo che Andrea Bernaldez, curato de los Palacios, villaggio posto a poca distanza da Siviglia, e storico contemporaneo, racconta nella sua Istoria dei re cattolici «d'avere veduto alcuni ebrei vendere una casa per un asino, ed una vigna per una pezza di drappo o di tela; il che sarà facilmente creduto in vista del brevissimo tempo accordato ad uscire dal regno.
Questa misura dettata dalla crudeltà e non dallo zelo della religione privò la Spagna, secondo il calcolo di Mariana, di ottocentomila ebrei; ed aggiugnendo a questa emigrazione quella dei Mori di Granata che passarono in Africa e lo stabilimento di tanti cristiani spagnuoli nel Nuovo Mondo, si troverà che Ferdinando ed Isabella perdettero due milioni di sudditi, e ne risultò per l'attuale popolazione della Spagna una perdita non minore di otto milioni.
Ci assicura Bernaldez che, malgrado la fatta proibizione, gli ebrei esportarono moltissimo danaro che avevano nascosto nei basti e nelle selle delle loro bestie ed in altri luoghi e perfino nel proprio ventre.

Alcune navi che trasportavano degli ebrei in Africa, sorprese dalla burrasca, furono forzate a dar fondo a Cartagena, dove centocinquanta di quei proscritti sbarcarono e vollero farsi cristiani. Le altre navi essendo in seguito passate a Malaga, altri quattrocento ebrei si fecero cristiani; altri molti, ch'erano sbarcati ad Arcilla in Africa, dipendente dalla corona di Portogallo, chiesero pure e ricevettero il battesimo. Alcuni altri tornarono nell'Andalusia, e mostrarono lo stesso desiderio di farsi cristiani. Lo storico Bernaldez dice d'averne egli stesso battezzati cento. Se ne videro tornare dal regno di Fez, dopo essere stati spogliati dai Mori dei loro effetti e danaro, e privati delle spose, uccise da que'barbari per prendere il danaro che credevano trovare ne'loro intestini.

Così orrendi attentati contro la divina legge, e le disgrazie che ne risultarono, non possono imputarsi che al fanatismo di Torquemada, all'avarizia ed alla superstizione di Ferdinando, alle false idee ed allo zelo inconsiderato ch'era stato ispirato ad Isabella, cui la storia non può ricusare senza ingiustizia dolcezza di cuore e spirito illuminato.
Le altre corti d'Europa seppero resistere alle istigazioni del fanatismo, e non ebbero verun riguardo alla bolla del 13 aprile del 1487 che Ferdinando ed Isabella avevano ottenuta da Innocenzo VIII, colla quale si ordinava a tutti i governi di far arrestare, dietro semplice inchiesta di Torquemada, tutti i fuggitivi da lui indicati e di mandarli agl'inquisitori, sotto pena di scomunica maggiore per tutti coloro che non ubbidirebbero, escluso dall'anatema il solo monarca. E chi oserà dare il nome di zelo per la fede ad una persecuzione che cercava in lontane contrade vittime fra persone che coll'esilio si erano imposta la crudele pena di rinunciare ad ogni speranza di rientrare nella loro patria? Diciamo piuttosto che la sola crudeltà poteva dettare somiglianti misure.
Di ciò ne fa prova la maniera con cui Ferdinando fece trattare dodici ebrei trovati in Malaga allorché questa città fu presa ai Mori il 18 agosto dello stesso anno: il cattolico principe ordinò che fossero uccisi con canne appuntate, maniera di supplicio cui i Mori assoggettavano soltanto coloro che rendevansi colpevoli di delitti di lesa maestà, siccome di tutti il più crudele per la lentezza colla quale le vittime perivano. Altre molte di queste vittime furono bruciate.

L'insolente e fanatico Torquemada, mentre affettava di ricusare per modestia gli onori dell'episcopato, dava il primo il funesto esempio di assoggettare ad un giudizio i vescovi. Non bastandogli di avere ottenuto da Sisto IV il breve del 25 maggio del 1483, che vietava ai vescovi discesi da antenati ebrei d'immischiarsi degli affari dell'Inquisizione, voleva ancora farne processar due, don Giovanni Arias Davila vescovo di Segovia e don Pietro d'Aranda vescovo di Calahorra. Ne scrisse al Papa, il quale con rescritto del 25 settembre del 1487 gli partecipava che il suo predecessore Bonifacio VIII aveva vietato agli antichi inquisitori di procedere, senza una speciale commissione apostolica, contro i vescovi, arcivescovi e cardinali, e gli ordinava di uniformarsi a questa legge; che se qualche procedura di questa specie faceva scoprire il delitto di un prelato e dava luogo o a diffamazione oda sospetto d'eresia contro un vescovo, un arcivescovo o un cardinale, lo incaricava di trasmettergli copia di tutto quanto si fosse fatto, onde risolvere intorno al partito da prodersi in simil caso.
Quest'ultimo articolo della lettera del Papa fu cagione che il Torquemada cominciasse ad occuparsi segretamente dei vescovi e ad ordinare delle istruzioni preparatorie; ed il Papa dal canto suo, vedendo con piacere aprirsegli l'adito di prender parte negli affari della Spagna, permetteva simili processure, che facevano passare a Roma ragguardevoli somme di danaro. Mandò in quel regno, col titolo di nunzio apostolico straordinario, Antonio Pallavicini vescovo di Tournai, poi di Orense e di Preneste, ed all'ultimo cardinale. Giunto in Spagna, ricevette alcune informazioni e riunì tutte quelle ch'erano in mano di Torquemada; indi tornò a Roma, dove si presero in disamina i processi di due vescovi, ché furono citati dal Papa a sentire le loro accuse ed a difendersi.

Don Giovanni Davila era figlio di Diego Arias Davila, di origine ebraica e che aveva occupate le più luminose cariche sotto Giovanni II ed Enrico IV, e conseguita la dignità di grande di Spagna; ed era fratello di Pietro Arias Davila, capo della contabilità sotto Enrico e Ferdinando, e marito di donna Marianna (le Mendoza, sorella del duca dell'Infantado). Tutte queste circostanze non imposero al Torquemada, il quale fece assumere tali informazioni, da cui emerse, o volle far credere che emergesse, che Diego Arias Davila era morto nell'eresia del giudaismo. L'oggetto cui mirava l'inquisitore generale era quello di far condannare la sua memoria, di confiscarne i beni, di far disseppellire le sue reliquie e farle bruciare colla effigie di lui.
Siccome negli affari di tale natura i figli del defunto vengono citati, don Giovanni Arias Davila fu costretto a presentarsi per difendere suo padre e sé medesimo: passò a Roma nel 1490, malgrado la sua avanzata età, e dopo trent'anni d'episcopato.
Fu favorevolmente accolto da Papa Alessandro VI, che, nel 1494, lo prescelse per accompagnare suo nipote il cardinale di Mont-reale a Napoli, dove recavasi a coronare il re Ferdinando II.
Davila, di ritorno a Roma, cessò colà di vivere in sul declinare del 1498, dopo di aver purgata la memoria di suo padre e senza che Torquemada avesse potuto attentare alla sua libertà.
Meno fortunato fu don Pietro Aranda vescovo di Calahorra e figliuolo di Gonzale Alfonso, uno degli ebrei battezzati da san Vincenzo Ferreri. Torquemada e gli altri inquisitori di Valladolid presero a fare il processo alla memoria di Gonzale, che volevasi morto eretico giudaizzante. A dir vero era morto ricco e felice, e ciò bastava per gettare sospetti sulla di lui credenza. Suo figlio il vescovo di Calahorra recossi a Roma nel 1493 ed ottenne da Alessandro VI un breve in forza del quale la pocessura di suo padre veniva affidata a don Inigo Manrique vescovo di Cordova e di Juan de S. Juan, e priore de'benedettini di Valladolid. La sentenza di questo vescovo imparziale fu favorevole alla memoria di Gonzale.
E sebbene la bolla pontificia vietasse agi'inquisitori di prendere parte in quest'affare, sebbene il vescovo di Calahorra godesse il favore di Alessandro, l'Inquisizione si fece a procedere contro il vescovo come sospetto egli medesimo di eresia, e ne fece rapporto al Papa medesimo nel concistoro segreto del 14 settembre del 1498. Alessandro VI di consenso coi cardinali condannò il vescovo ad essere spogliato de'suoi impieghi e de'suoi beneficii, ad essere degradato e ridotto alla condizione di semplice laico e chiuso in Castel Sant'Angelo, (dove morì alcun tempo dopo); quantunque, malgrado così formale giudizio, tutto portasse a credere che mai non avesse cessato di essere buon cattolico.

Questo ed altri trionfi del Sant'Ufficio sopra personaggi della più alta considerazione resero in tal modo arditi gl'inquisitori spagnuoli che non temevano ormai più d'intraprendere in materia di giurisdizione tutto ciò che conveniva al loro dispotismo, sempre all'ombra della protezione del principe e sotto lo specioso pretesto di non potere altrimenti purgare il regno dagli eretici. Dal che emersero infinite contese di giurisdizione tra gl'inquisitori ed i Vicerè, i governatori generali delle provincie, le corti reali di giustizia, gli arcivescovi, i vescovi, vicari generali ed altri giudici ecclesiastici; e quasi sempre con felice successo.

Nel 1488 il governatore generale di Valenza fece porre in libertà Domenico di Santa Cruz, ch'era stato per ordine degli inquisitori arrestato come nemico del Sant'Ufficio, ma che non poteva essere giudicato che dal tribunale militare. Gi'inquisitori ne portarono lagnanza al consiglio della Suprema, il quale chiamò il governatore a Madrid per rendere conto della sua condotta. Il re lo prevenne della risoluzione presa contro di lui, e quest'ufficiale, malgrado l'elevata sua condizione, si vide forzato a ricevere l'assoluzione delle censure, nelle quali si pretendeva che fosse incorso.
Un altro fatto della stessa natura ebbe luogo a Cagliari in Sardegna nel 1498. Quell'arcivescovo coll'aiuto del luogotenente del re aveva fatto uscire un uomo dalle prigioni del Sant'Ufficio. Vi fu una processura relativa alla giurisdizione del prelato, e le cose terminarono, com'era facile il prevederlo, con vantaggio dell'Inquisizione.
[...] Per guarentirsi dalla calunnia e dai sospetti, alcuni gentiluomini del regno furono ricevuti nella congregazione di S. Pietro perché si erano volontariamente offerti per familiari del Sant'Ufficio. Il loro esempio strascinò le persone delle classi inferiori, e questo movimento fu inoltre favoreggiato dalla politica del re, che accordava ai familiari varie prerogative ed immunità.
Tali prerogative ne fecero crescere il numero in una maniera così mostruosa ed impolitica, e v'ebbero tante città in cui i privilegiati superavano di numero gli abitanti subordinati ai pesi municipali che si rendette necessario di ridurne il numero in una generale adunanza delle cortes del regno.
Basterà il far adesso osservare che siccome l'inquisitore generale aveva una guardia di dugento uomini a piedi e di cinquanta cavalieri, e cosa verosimile che ne'primi tempi i particolari inquisitori avessero altresì al loro servizio e per le medesime ragioni almeno quaranta fanti e dieci cavalieri quando visitavano il territorio della loro giurisdizione. Un'armata dipendente dal Sant'Ufficio spiega bastantemente per quale ragione le enormi confische e gli altri introiti che sapeva procacciarsi non bastassero a coprirne le spese. Se a questa famiglia d'arcieri si aggiungano i moltissimi prigionieri che si dovevano alimentare dall'Inquisizione, si concepirà facilmente e la grandezza della spesa e la difficoltà di sostenerla.

Tommaso di Torquemada, primo inquisitore generale di Spagna, morì il 16 settembre del 1498. L'abuso da lui fatto della illimitata autorità che gli si era accordata avrebbe dovuto far deporre il pensiero di dargli un successore, ed invece far pensare all'abolizione di un tribunale di sangue così contrario alla dolcezza del Vangelo; e la quantità delle vittime sagrificate in diciotto anni avrebbe abbondantemente giustificata tale misura. Eccone il calcolo.
Lasciando da banda il calcolo dedotto dai quattro auto-da-fè che dovevano celebrarsi ogni anno da tutte le Inquisizioni, prenderemo un altro metodo di approssimazione.
Il Mariana pretende, sulla testimonianza di antichi manoscritti, che nel primo anno dell'inquisizione: si bruciassero in Siviglia duemila persone ed altrettante in effigie, e che diciassettemila subissero la pubblica penitenza. Potrei sostenere, senza tema di esagerazione, che gli altri tribunali condannarono altrettante persone nel primo anno del loro stabilimento; pure ridurrò questo numero alla decima parte, perché le denuncie furono a Siviglia assai più vive che altrove.
Andrea Bernaldez, storico contemporaneo, dice che dal 1482 fino al 1489 si diedero in Siviglia alle fiamme più di settecento persone e se ne condannarono alla pubblica penitenza più di cinquemila, senza contare le giustiziate in effigie: supporrò che il numero degli ultimi fosse la metà soltanto dell'altro, sebbene talvolta non fosse minore ed anche più.
Stando a quest'ipotesi, v'ebbero un anno per l'altro dell'indicato periodo novantotto condannati alle fiamme, quarantaquattro bruciati in effigie e seicentoventicinque puniti con una pubblica penitenza nella sola città di Siviglia, lo che porta a settecento cinquantasette il totale delle vittime di questa Inquisizione.
Credo che ve n'abbiano avute altrettante il secondo anno e ne'susseguenti in tutte le altre inquisizioni, fondando la mia opinione sulla considerazione, che nulla mi può essere addotto in contrario: tuttavia voglio ridurne il numero alla metà.
Nel 1524 fu posta all'Inquisizione di Siviglia un'iscrizione portante che dall'epoca dell'espulsione degli ebrei eseguitasi nel 1492 fino al 1524, erano state bruciate circa mille persone e più di ventimila penitenziale.
Mi limiterò a supporre che siansi bruciate soltanto mille persone e cinquecento solamente giustiziate in effigie; e questo calcolo porta trentadue persone bruciate ogni anno personalmente, sedici in effigie, e seicentoventicinque punite con una pubblica penitenza, cioè in tutto seicentosessantatré individui colpiti dall'Inquisizione. Riduco questo numero alla metà per ciaschedun'altra Inquisizione, onde non mi vengano contestati i miei risultati, malgrado le ragioni che avrei di crederne il numero quasi eguale alle vittime di Siviglia.
Potrebbe supporsi per i tre anni 1490 e 91 e 92 che passarono tra il racconto di Bernaldez e l'iscrizione di Siviglia lo stesso sistema che per gli otto anni di questo storico; pure, per allontanare ogni sospetto di esagerazione, mi atterrò al numero portato dall'iscrizione, perché più moderato. Su tale fondamento mi accingo a dare il conto delle vittime immolate da Torquemada, primo inquisitore generale, ne'diciotto anni della sua crudele amministrazione.
Nel 1481 si bruciarono sotto gli occhi dell'Inquisizione di Siviglia duemila persone, duemila in effigie, e diciassettemila furono condannate a varie pene, lo che dà un risultato di ventunmila condannati. Per quest'anno non conto verun individuo nelle altre provincie dove non esisteva la nuova Inquisizione.
L'anno 1482 offre nella stessa città novantotto individui effettivamente bruciati, quarantaquattro in effigie, e seicentoventicinque penitenziati; totale settecento cinquantasette. Io non parlo ancora delle altre Inquisizioni.
Nel 1483 v'ebbe in Siviglia un egual numero di vittime: ed in quest'anno entrarono in esercizio i tribunali dell'Inquisizione di Cordova di Jaen e quello di Toledo, ch'era in allora stabilito a Ciudad-real. Partendo dall'ipotesi stabilita, daremo ad ognuno de'nuovi tribunali duemila e cento condannati, cioè seimilatrecento fra tutti e tre, che uniti a quelli di Siviglia sono settemila cinquantasette.
Nel 1484 le cose si passarono in Siviglia come nel precedente anno. A Cordova, Jaen e Toledo contiamo ottantaquattro vittime bruciate in persona, ventidue in effigie e trecentododici penitenziate; in tutto punite millequattrocento novantuno.
Nel 1485 le Inquisizioni di Siviglia, Cordova, Jaen e Toledo non si scostarono dal praticato nel precedente anno. I tribunali che in quest'anno medesimo furono eretti nell'Estremadura, a Valladolid, Calahorra, Murcia, Cuença, Saragozza e Valenza, ci danno per cadauno dugento condannati di prima specie, dugento della seconda e millesettecento della terza; totale sedicimila cinquecento e più condannati.
Siviglia, Cordova, Jaen e Toledo danno ancora il medesimo risultato nel 1486, ed i sei altri tribunali quattromilacinquecento sette condannati d'ogni specie.
E così proseguendo d'anno in anno, apparisce che Torquemada nei diciotto anni del suo ministero inquisitoriale fece perire tra le fiamme diecimiladugentoventi vittime, bruciare in effigie seimilaottocentosessanta, e novantasettemilatrecento ventuno condannò alla pena dell'infamia, della confisca dei beni, della prigione perpetua, della esclusione dagli impieghi pubblici ed onorifici. Il prospetto generale di queste barbare esecuzioni ammonta a centoquattordicimilaquattro centouno il numero delle famiglie per sempre perdute; non comprendendo in questo numero le persone che per le loro relazioni di parentela coi condannati venivano ad essere più o meno partecipi della loro sventura.
Se il calcolo da me fatto sembrasse esagerato in alcuni auto-da-fè dell'Inquisizione di Toledo per gli anni 1485, 86, 87, 88, 90, 92 e 94, si troverà che furono in quella città condannate ne'sette indicati anni seimilatrecentoquarantuno individui; lo che ci presenta per adequato novecentosei individui all'anno. Si moltiplichi questo numero per tredici, che é quello dei tribunali d'Inquisizione, e si avrà per ogni anno undicimilasettecento settantotto individui, ossia dugentododicimila e quattro individui in questi diciotto anni.

Se avessi per gli altri tribunali dell'Inquisizione portato il calcolo così alto come quello di Siviglia, avrei avuto quattrocento e più mila persone punite dal Sant'Ufficio in così breve periodo.
Si aggiunga ch'io non feci entrare in questa somma i condannati in Sardegna, sebbene sia cosa certa che Torquemada v'immolò delle vittime.
Non feci neppure parola dell'Inquisizione di Galizia né di quella dell'isole Canarie e del Nuovo Mondo né di quella della Sicilia, perché, malgrado gli sforzi fatti per istabilirvi il nuovo sistema inquisitoriale, vi durava tuttavia l'antico; lo che dimostra chiaramente che il rigore del nuovo sistema inquisitoriale era più temuto perché lasciava minori mezzi di difesa. Se noi risguardiamo come vittime di Torquemada tutti gl'individui che furono giudicati dopo la di lui morte nelle Inquisizioni fondate dai suoi successori, chi potrebbe calcolarne il numero?
L'ardente zelo di Torquemada non limitavasi alla persecuzione delle persone, stendevasi anche ai libri. Nel 1490 fece bruciare molte biblie ebraiche, ed in appresso più di seimila volumi in un auto-da-fè ch'ebbe luogo a Salamanca sulla piazza di Santo Stefano, sotto pretesto che fossero infetti degli errori del giudaismo, o pieni di sortilegi, di magia, di stregonerie e di altre superstiziose pratiche. Quante riputate opere non perirono in questa circostanza come pericolose, sebbene non avessero che il solo difetto di non essere intese!
Circa quarant'anni prima un altro domenicano, chiamato Lope de Barrientos, confessore del re di Castiglia Giovanni II, aveva condannata alle fiamme la biblioteca di don Enrico d'Aragona, marchese di Villena, principe del real sangue d'Aragona, senza avere verun riguardo alla sua parentela col re. Questo impetuoso ecclesiastico, per prezzo dell'insulto fatto al cugino del suo principe e dello zelo fanatico che aveva dimostrato, venne nominato vescovo di Cuenca.
Di già gli antichi inquisitori di Aragona avevano condannate al fuoco varie opere, ma non avevano ardito di farlo che in virtù d'una commissione apostolica, che non poteva avere effetto in Castiglia. Nel 1490 Torquemada diede l'esempio di una somigliante esecuzione in forza di un ordine ricevuto dal re Ferdinando.

Pure è cosa tanto avverata che l'autorità dell'Inquisizione non si estendeva fin là che un'ordinanza di Ferdinando e d'Isabella del 1502 incaricava i presidenti delle cancellerie di Valladodid e gli arcivescovi di Toledo, Salamanca, Siviglia, ecc., di tutto ciò che risguardava l'esame, la censura, la stampa, l'introduzione e la vendita dei Libri. Ma in appresso, e specialmente sotto Carlo V, osò all'ultimo di pretendere che la censura dei libri fosse un diritto primitivo e naturale del tribunale, che gl'inquisitori chiamavano il tribunale della fede.
Perciò nell'età nostra si è veduta riclamare quando sotto Carlo III si volle far cessare quest'abuso, ordinando l'esecuzione della costituzione di Benedetto XIV e vietando la pubblicazione di veruna proibizione di libri prima di averne ottenuto la sanzione del re per canale del ministero di stato. Ma io potei da me stesso convincermi, in seno allo stesso tribunale, fino a qual segno il governo sia stato su questo particolare ingannato.
Gl'inquisitori abusano del segreto che nasconde le loro deliberazioni e trovano sempre il modo di censurare que'libri la cui dottrina venne loro denunciata come in tutto o in parte sospetta. La notizia che davasi al sovrano di tali giudizi degenerò ben tosto in semplice formalità, giacché stampavasi l'editto di proibizione prima di avere soddisfatto a tale atto e senza far sapere al sovrano se gli autori de'libri condannati erano stati sentiti o no, né per quali motivi avevano i censori qualificata la loro dottrina.
Tante sventure ed altre non poche che io non accenno furono la conseguenza del sistema adottato da Torquemada e da lui raccomandato, morendo, ai suoi successori. Giustificano queste l'odio generale che lo accompagnò fino al sepolcro e ch'egli aveva così vivamente eccitato nel corso di diciott'anni, onde aveva dovuto adottare alcune precauzioni per porre in sicuro la propria vita. Ferdinando ed Isabella gli permisero di farsi scortare ne'suoi viaggi da cinquanta famigliari dell'Inquisizione a cavallo e da dugento a piedi. Ciò poteva salvarlo dall'aperta violenza de'suoi nemici; ma altre misure adottò per prevenire i segreti insidiatori. Torquemada teneva sempre sul suo tavolo un corno di lioncorno, cui supponevasi la virtù di far scoprire e di neutralizzare i veleni. Non farà maraviglia che molti cospirassero contro la sua vita, se si rammenti l'estrema crudeltà della sua amministrazione. Lo stesso Papa fu atterrito da tanta crudeltà dietro le lagnanze che gli venivano ogni dì presentate; di modo che Torquemada fu costretto di spedire tre volte a Roma il suo collega Alfonso Badaja colla commissione di difenderlo innanzi al Papa contro le accuse de'suoi nemici.
Finalmente Alessandro VI, vedendo spinte le cose all'ultimo estremo fu in sul punto di spogliarlo dell'autorità di cui lo aveva rivestito, e non desistette che per stime politiche e per non offendere la corte di Spagna. Si limitò adunque a spedire il 23 di giugno del 1494 un breve nel quale diceva che, essendo Torquemada giunto alla decrepitezza, aveva nominati inquisitori generali per l'andamento degli affari dell'Inquisizione e come suoi coadiutori rivestiti di poteri eguali ai suoi don Martino Ponce de Leon, arcivescovo di Messina in Sicilia, che dimorava in Spagna; don Ignazio Manrique, vescovo di Cordova; don Francesco Sanchez de la Tuente, vescovo d'Avila, e don Alfonso Suarez ed Tuentelsaz, vescovo di Mondognedo. Ognun di loro era dal Papa autorizzato a fare da sé solo tutto quanto troverebbe conveniente di fare ed a terminare gli affari cominciati da un altro.
I familiari del Sant'Ufficio, che supplivano le incombenze di guardie del corpo del primo inquisitore generale Torquemada, erano successori de'familiari dell'antica Inquisizione. Dovevano tener di vista gli eretici ed i sospetti d'eresia, somministrare soccorso per imprigionarli ai sergenti ed agli sgherri del tribunale, e fare tutto quanto sarebbe loro ordinato dall'inquisizione per la punizione degli accusati.

 



l brano è opera d'ingegno di Pietro Tamburini ed è tratto da: "Storia Generale della Inquisizione" 1862, a cui si rimanda per gli approfondimenti.

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Il brano è opera d'ingegno di Pietro Tamburini ed è tratto da: "Storia Generale della Inquisizione" 1862, a cui si rimanda per gli approfondimenti.

 

 

 


 

 


 

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