Era tradizione far cominciare il movimento complesso cui si dà nome di cabala cristiana, con Pico della Mirandola. Poi, per qualche tempo, si credette di aver trovato un suo precursore in Raimondo Lullo; ma il De auditu kabbalistico non è che un apocrifo pubblicato al principio del XVI secolo . Tuttavia in questo modo è stato posto il problema degl'inizi della cabala cristiana...[...]

Così François Segret, introduce questa sua indagine sulle origini della cabala cristiana, che è stato estratta da CONVIVIUM n.s. I (1957).

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I - Era tradizione far cominciare il movimento complesso cui si dà nome di cabala cristiana, con Pico della Mirandola. Poi, per qualche tempo, si credette di aver trovato un suo precursore in Raimondo Lullo; ma il De auditu kabbalistico non è che un apocrifo pubblicato al principio del XVI secolo . Tuttavia in questo modo è stato posto il problema degl'inizi della cabala cristiana.

Se il primo lavoro d'assieme consacrato all'interpretazione cristiana della cabala non ha impostato questo problema, si può comunque affermare che G. Scholem ha raccolto recentemente i primi elementi per una risposta. In particolare, egli ha mostrato come Abraham Abulafia (1280), Abner di Burgus (più conosciuto sotto il nome di Alfonso di Valladolid (1320), Pedro della Caballeria (1450) e Paolo Heredia (c. 1482) arricchirono progressivamente del contributo cabalistico la corrente apologetica cominciata col Pugio fidei di Raymond Martin in quella stessa epoca in cui Mosé de Leon redigeva lo Zohar.

Lo Scholem non pretese di aver risolto completamente il problema e gli elementi che abbiamo a nostra volta raccolto, lungi dal conchiudere la ricerca, indicheranno piuttosto la necessità di proseguire in un campo ancora così mal conosciuto. Noi riprenderemo il problema degli inizi della cabala cristiana, all'epoca della pubblicazione delle Conclusiones di Pico della Mirandola (1486), estenderemo la ricerca a quegli scrittori, appartenenti alla stessa generazione di Pico, che s'interessarono della cabala e indicheremo l'utilità che si ha a risalire al di là del XIII secolo e fino ai Padri della Chiesa greci e latini, per comprendere il senso dell'espressione di cabala cristiana.

 

II - Fra i precursori di Pico della Mirandola richiama la nostra attenzione Paolo Heredia. É un ebreo spagnolo convertito, il quale pubblicò in Italia, nella vecchiaia, tre opere: l'Ensis Pauli, che non è stato ritrovato, l'Epistola de secretis, dedicata a Inigo Lopez de Mendoza, ambasciatore di Spagna in Italia, e la Corona Regia dedicata a Innocenzo VIII. L'Epistola de secretis si presenta come una traduzione con note dell'Heredia (il quale cita un passaggio interpolato dello Zohar e del Mechkar hasodot «hoc est investigatio secretorum» di Symeon filius Johai) delle Iggeret hasodot «hoc est epistolae secretorum» indirizzate da Neumia filius Haccanae a suo figlio e dal figlio al padre; queste lettere sono a loro volta date come estratte dal Gale Razeia «hoc est secretorum revelator super quibusdam petitionibus quas Antoninus consul urbis Romae petit a Rabbeno haccados». Quest'opera, la più importante dell'Heredia, fece così poco parlare di sé che P. Galatin, il francescano che l'utilizzò nel suo celebre De Arcanis, fu accusato di aver inventato il Gale Razeia. Egli si difese da questa accusa in una Apologia diretta a Paolo III di cui il Padre A. Kleinhans ha ritrovato il manoscritto e nella quale Heredia è detto non soltanto l'introduttore del Gale Razeia, ma anche il maestro di Pico della Mirandola. Lo Scholem seguendo questa preziosa indicazione, finora trascurata, riprese lo studio dell'Epistola de secretis, datata del 1482, vi trovò un'implicita menzione della cabala e propose così di spiegare la famosa dichiarazione di Pico della Mirandola nella sua Apologia del 1487: Credo me primum apud Latinos explicitam fecisse mentionem.

La dimostrazione dello Scholem conferma una indicazione data da Conrad Gesner, nell'epoca in cui si formò la tradizione che fece di Pico della Mirandola il padre della cabala cristiana. Essa, tuttavia, dev'essere riveduta in molti punti. E prima di tutto, come già notò il Garin, il senso della explicita mentio è chiarito dal contesto: Pico della Mirandola ha appena spiegato ai suoi giudici che il termine cabala che li aveva così spaventati, designa una tradizione già conosciuta dai Padri della Chiesa greci e latini. Avremo modo di valutare l'importanza di questa affermazione per la comprensione del termine di cabala cristiana. Ma intanto bisogna notare che nella Epistola de secretis si trova lo stesso termine di cabala correttamente scritto. Nella Postilla alla Petitio Sexta, a proposito dell'equivalenza tra il nome ebraico di Gesù e di Maria e Berith id est pactum, Heredia scrive: «hujus autem numeri mentio est non vulgaris apud cabbalam».

Si pensa subito a un problema di edizione; ed esso si pone effettivamente. L'Epistola de secretis è un incunabolo la cui data, come pure l'editore, non sono fissati con precisione. Datato intorno al 1480, esso è stato attribuito alla bottega di G. Herolt di Roma; datato intorno al 1488, è stato attribuito alla bottega di E. Silber di Roma; infine, datato intorno al 1482, è stato attribuito alla bottega di F. Dini di Firenze.

Quest'ultima attribuzione è accettata in uno studio sull'Heredia del Freimann ed è pure quella adottata dallo Scholem che considera l'edizione del 1487, da lui consultata a Roma, una seconda edizione.

 

In realtà, l'edizione del 1482 attribuita alla bottega del Dini di Firenze, porta la stessa dedica di quella che è considerata una seconda edizione. Essa è diretta a «D. Enigo de Mendoza comiti Tendillae legato Sacrae Maiestatis Regi Hispaniae». N. Antonio aveva già notato, citandola, «scilicet apud Innocentium VIII». Si può essere anche più precisi grazie ad alcune testimonianze del tempo. Inigo Lopez de Mendoza, infatti, non è il marchese di Santillana indicato dal Freimann e dopo di lui dallo Scholem; ma Inigo Lopez de Mendoza, secondo conte di Tendilla e primo marchese di Monejar (c. 1455-1515) che fu ambasciatore a Roma.

J. Burchard nel suo Diarium ci dà alla data del 13 settembre 1486 la descrizione dell'arrivo in Roma di «Mag. Enicus Lopez de Mendoza, cornes Tendillae», e Pedro Martir de Angleria che l'ambasciatore condusse con sé, ci indica approssimativamente la data della sua partenza, in una lettera da Saragozza del 10 gennaio 1488.

In attesa di una collazione dei diversi esemplari della Epistola, appare verosimile che non vi fu di essa se non una edizione, quella di Roma e che essa fu probabilmente contemporanea alla pubblicazione delle 900 tesi, che data del 7 dicembre 1486. Si ricordi, inoltre, che le 900 tesi erano finite il 12 novembre. Lo Scholem ha perfettamente messo in luce che gli scritti di Pico non utilizzano nessuna delle argomentazioni favorite dell'Heredia le quali furono, invece, largamente riprese da altri cabalisti cristiani contemporanei di Pico, P. Galatin e Agostino Giustiniani. Se è inutile contestare la testimonianza di Galatin, è invece necessario cercare le ragioni dell'asserzione del Gesner che si giustifica interamente per Galatin e Giustiniani. Resta formulato il problema dei rapporti tra Pico della Mirandola e Heredia. Esso sarebbe stato forse maggiormente definito se noi avessimo avuto a disposizione la prima opera dell'Heredia, l'Ensis Pauli, a cui rimandano tanto l'Epistola che la Corona regis. Né si tratta di un'opera leggendaria perché la troviamo citata nelle poesie latine di Antonio Flaminio il quale scrisse un elogio in versi per la Corona regia, un Ensis Pauli argumentum. Avendo scritto il poeta molto allusivamente:

 

Thesauris veterum releges deprompta latinis Orsa Cabaleis insinuanda notis

 

precisò in margine: «cabbala: punctis, numeris, et figuris punctorum quibus utitur disputanda Cabbala», secondo la stessa ortografia della Epistola. In mancanza di notizie precise su Pico della Mirandola, i rapporti tra Heredia e Flaminio gettano un po' di luce sugli inizi della cabala cristiana in Italia nell'epoca di Pico.

Le poesie di Flaminio, quella della Corona regia in particolare, firmata Antonius Byaxander Siculus, che fu il suo patronimio prima che egli cambiasse nome a Roma, sotto l'influenza di Pomponio Leto, ci obbligano a prendere in considerazione una osservazione fatta dallo Scholem sulla forma italiana dei Nigghereth hazodoth. Heredia, se venne dalla Spagna, soggiornò in Italia e specialmente in Sicilia dove, com'egli stesso ci dice, non era ancora battezzato. È quanto leggiamo nell'Epistola a proposito del significato del passo «Et Verbum caro factum est»: «Hoc ego argumentum, cum eram contrarius Christo benedicto, saepe numero feci eruditissimis sacrae theologiae magistris: et neminem reperi qui mihi satisfaceret utpote tunc video praeter magistrum Alexandrum Anconitanum...» e con maggior precisione più oltre: «Et aliquando congressus sum cum Cato praesule cephaludensi qui mihi respondit...». Non si è, dunque, sorpresi di vedere Antonius Byaxander Siculus, il cui attaccamento al paese natale è noto, scrivere in favore di Heredia. L'incontro dei due uomini avvenne a Roma o in Sicilia? Si sa soltanto che Byaxander venne a Roma nel 1486. Il problema che propone questo incontro non è privo d'importanza; occorre, tuttavia, prima di affrontarlo, risolvere l'ultimo quesito che riguarda ancora Pico della Mirandola. Lo incontriamo a proposito dell'ultima opera dell'Heredia, la Corona Regia, incunabolo datato intorno al 1480 o al 1490. Esso fu pubblicato probabilmente nel 1487, perché, infatti, è dedicato a Innocenzo VIII. Ora, quest'opera utilizza le argomentazioni cabalistiche dell'Epistola per confermare la tesi dell'Immacolata Concezione. Poiché Innocenzo VIII aveva ordinato l'esame delle tesi di Pico della Mirandola il 5 marzo 1487 e pubblicata la condanna il 15 dicembre, si possono formulare diverse ipotesi: Heredia pubblicò la sua opera prima del processo; oppure essa venne data alle stampe durante il processo e usci contro tempo; o, infine, Heredia volle sostenere Pico della Mirandola. In ogni caso, non si spiegherebbe perché il Papa abbia indirizzato, al momento della fuga di Pico, un breve ai sovrani spagnoli per invitarli a far arrestare il giovane conte e i suoi partigiani, se ne aveva. Del resto, l'atteggiamento di Innocenzo VIII meriterebbe di essere studiato meglio come ci dimostrerà quanto noi sappiamo su Antonio Flaminio.

Presentato dal Bayle secondo il De litteratorum infelicitate di Pietro Valeriano come un misantropo che ebbe una fine tragica, Flaminio fu una personalità molto complessa, la cui importante figura comincia appena a delinearsi. U. Cassuto ha dimostrato che Byaxander che aveva già cambiato il suo nome in Flaminius, vi sostituì più tardi quello di Leo, come testimoniano le cancellature rilevate sui manoscritti della sua biblioteca che sono stati ritrovati alla Vaticana. Nato da padre greco, fu un erudito appassionato di greco, di latino, di ebraico, di cabala, di matematica e di astronomia; professore all'università di Roma frequentò l'Accademia di Pomponio Leto; protetto dal cardinale Raffaele Riario, fu poeta abile nel cantare i grandi del tempo. Galatin non aveva mancato di segnalare l'importanza della sua biblioteca: lo studio di essa, intrapreso dal Cassuto, dovrebbe gettar luce su tutto l'ambiente di questi eruditi che s'interessavano di lingue orientali e di cabala. Uno dei manoscritti della sua biblioteca fu acquistato, dopo la sua morte, da Egidio da Viterbo, che conosciamo come il più emintente cabalista cristiano del suo tempo. Una nota manoscritta ritrovata sul manoscritto, e secondo la quale esso sarebbe appartenuto a un certo Jacob Martino morto nel 1479, fece orientare le ricerche verso il celebre medico dello stesso nome al quale Giovanni Leone dedicò un dizionario arabo. Il Levi della Vida, di fronte al gruppo dei manoscritti ritrovati dal Cassuto ha formulato l'ipotesi che Flaminio li avesse acquistati in blocco da un ebreo spagnolo rifugiato a Roma, che gli avrebbe fatto da maestro. Non sembra che questi fosse Heredia i cui riferimenti al Corano non superano, a quanto pare, la tradizione del Pugio fidei.

Ma perché non pensare a Flavius Mithridates che insegnerà a Pico, insieme alla cabala, l'arabo? Flavio Mitridate, infatti, è il siciliano Guglielmo Moncada, che era addetto al priorato della cattedrale di Cefalù, quando venne scelto dal cardinale G. B. Cibo, futuro Innocenzo VIII. Fu, dunque, questo cardinale a introdurlo in Vaticano ove egli tenne una famosa predica per la Passione del 1481. Volaterriano nella sua Chronaca, ce ne ha riportato la eco: «Orationem de passione habuit Guilelmus Siculus ex contubernalibus cardinalis Melfitensis, vir doctus ebraice, grece et latine. Retulit misteria omnia passionis Iesu Christi, eaque probavit Hebreorum ac arabum autoritate et scriptis verba ipsa eorum lingua in medio afferens, qui hebreus a nativitate fuit et eius lege peritissimus habitus, ante annos circiter quattuordecim Christianorum baptismate initiatus. Ostendit plurima Iudaeorum arcana, nobis hodie omnino incognita, quibus luce clarius demonstratur. Iudaeos non tam caecitate et ignorantia quam contumaci pertinacia in erroribus ipsorum perseverare. Oratio vero quamvis spatium duarum horarum occupaverit, tamen grata omnibus fuit tam propter rerum varietatem quam propter hebreorum et arabum verborum sonum qua ipse tanquam vernacula pronuntiavit; commendatus est ab omnibus et a Pontifice et patris in primis».

Queste conoscenze straordinarie furono probabilmente dimenticate abbastanza presto dalla Corte Romana, come testimoniano le vicende di Pico della Mirandola; esse, tuttavia, ci offrono un solido riferimento per le conoscenze di tutti quegli eruditi che si diedero allo studio dell'ebreo, della cabala e dell'arabo. Oltre Flaminio e Pico, bisogna ricordare A. Giustiniani la cui colonna araba dello Psalterium fu per N. Clenard la prima luce nella notte; il cardinale Egidio da Viterbo che cominciò lo studio dell'arabo col Giustiniani e J. A. Widmanstadt che il cardinale spingeva ad andare in Africa, ove era già ripartito G. Leone. Nel corso di questo studio si troverà forse la spiegazione della curiosa etimologia araba della parola «kabbala» nel De auditu habbalistico.

Un curioso aneddoto raccontato da J. Postel in un manoscritto inedito intitolato: Gentis ismaelitae seu Muhamedi initiatae hactenus ignota orbi graeco et latino historia ex sacris hebraeorum Chaldaeorum et Arabum eruta monumentis, universalique orbis reconciliationi admodum opta cognituque necessaria, et demum quis sit illius gentis futurus exitus ex ipsiusmet Mahometi prognosticis, invita ancora alla prudenza. Trattando della profezia che aveva allora corso nei paesi di lingua araba e che annunziava che un re cristiano avrebbe dominato il mondo e convertito i mussulmani e i pagani, Postel ricorda che un dotto turco a nome Halyber, essendo venuto a conoscenza di questa profezia, preferí anticipare la sua inevitabile conversione e venne a farsi battezzare a Ferrara. Avendo appreso «singulare illud naturae et gratiae prodigium, johannes Picus Mirandulae contes illud in consortium vitae veluti fratrem insignis cognitionis linguae arabicae accersiverit, et tam charum habuerit ut illi assiduos comites aliquot annos dando, Turca putarit se ad servitium more suae patriae adigi, et sic precipite noctu fugae causa sese dederit». Postel cita le sue fonti. Egli seppe questa storia da Lilio Gregorio Giraldi (1479-1552) la cui Historia deorum gentilium syntagma primum mostra che egli si interessò alla cabala e da Marcus Macedonicus «qui nunc sub Hercule Estensi scriba est» e che fu padrino di Halyber. Certo, la storia non è molto chiara poiché Postel, il quale parla di una di queste persone come se occupasse una carica nel 1548, fa risalire la conversione «ante 25 annos». Malgrado l'espressione adoperata da Pico della Mirandola, potrebbe trattarsi del nipote Gian Francesco di cui conosciamo i legami d'amicizia con L. G. Giraldi.

Per ritornare a fatti precisi, notiamo la personalità di Fabio Vigilio da Spoleto di cui il Levi della Vida ha messo in luce il lavoro da lui fatto come uno dei primi compilatori di inventari di manoscritti orientali della Vaticana. Pietro Valeriano lo lodava «nullum discendi genus, nullam arcanae quantumlibet doctrinae partem intactam relinquere»; e, infatti, lo troviamo in relazione con un altro cabalista cristiano della generazione di Pico della Mirandola, Teseo Ambrogio.

Inoltre, seppure Guglielmo Siculo non pronunziò mai il termine di cabala, non ci si può ingannare sul senso di quei suoi «arcana Iudaeorum», specialmente, e lo vedremo, in questo momento della storia della cabala cristiana. La testimonianza di Volaterriano ci obbliga a prendere in considerazione l'affermazione di Pico della Mirandola nella Oratio, a proposito dei tre libri della cabala tradotti per Sisto IV. Lo Scholem ha esaminato i tre manoscritti conservati alla Vaticana in relazione alle tesi di Pico della Mirandola e ha concluso che Mitridate li aveva tradotti per Pico e che l'affermazione del giovane Principe non aveva per fondamento che la furfanteria del suo Maestro. La dimostrazione, per quanto solida, lascia un punto dubbio, quello già notato dal Cicognani quando, studiando il passaggio della Oratio, aveva riferito la testimonianza di Conrad Summenhart. Quest'ultimo, che fu allievo del Mitridate a Tubinga dal momento in cui questi fuggi da Roma a quando divenne maestro di Pico della Mirandola, ha ricordato, non diversamente da Volaterriano, la predica della Passione e ha dato inoltre i titoli dei tre trattati tradotti per Sisto IV. Probabilmente l'opera in cui Summenhard riferisce questa testimonianza è del 1494; in essa, inoltre, egli cita il passo dell'Oratio di Pico della Mirandola sui famosi libri d'Esdra. Nulla, quindi, avrebbe impedito che Summenhard fosse, prima di Pico, vittima della furfanteria di Mitridate; resta tuttavia il fatto che i titoli citati non concordano affatto con quelli dei manoscritti conservati alla Vaticana.

Questo diffuso interesse per la cabala nell'epoca di cui ci occupiamo è confermato da un'altra testimonianza, la cui datazione richiederebbe anch'essa di essere precisata. Ludovico Lazzarelli, nel suo Crater Hermetis, ove cita lo Zohar, il Sefer Yeçîra, ecc. scrive infatti: «Quaedam divina secreta (quia ore ad os revelata sunt) cabalam vocant. Quod nomea nostro tempore apud quosdam cognitum esse coepit.... Eius tamen operatio (si unum tantum excipio) omnes penitus latet». Vi si è voluta riconoscere un'allusione precisa a Pico della Mirandola, ma si dimenticano i quosdam. Inoltre, benché Pico della Mirandola abbia distinto nella cabala una «scientia Sephiroth» e una «Scientia Semot, tanquam in praticam et speculativam» l'eccezione indicata dal Lazzarelli meglio si addice al maestro da lui riconosciuto Giovanni Mercurio da Correggio, l'eroe dell'Epistola Enoch che fece la sua dimostrazione romana «sedente Syxto quarto pontefice maximo» e che, come osservò Trithème, «se veterum omnium hebraeorum, graecorum latinorumque scientiam omnem perfectissime gloriabatur assecutum, contemnens veteres pene cunctos tam philosophos quam theologos, cum praeter se unum omnes diceret fuisse indoctos, et nullum ex eis omnino sapientem extitisse in arcanis».

E siccome sappiamo che il Lazzarelli frequentò l'accademia di Pomponio Leto, non bisogna dimenticare i nomi di Flaminio e di Guglielmo Siculo e nemmeno quello di Heredia per ritrovare le fonti delle citazioni cabalistiche del Crater Hermetis.

III - Ci si condannerebbe a una visione troppo ristretta del problema, se non si estendesse la ricerca a tutti gli scrittori della generazione di Pico che come lui si interessarono della cabala, ma che gli sopravvissero. Fu una generazione straordinaria. Ricordiamo le date: Pico della Mirandola (1463-1494) Roscellino (1455-1522); Galatin (c. 146o-1140); Francesco Giorgio Veneto (1460-1540); Egidio da Viterbo (1465-1532); A. Giustiniani (1470-1536); D. Grimani (1461-1523); T. Ambrogio (1469-1540); P. Rici (morto nel 1541). Benché si conoscano in parte le relazioni tra Pico della Mirandola e Roscellino, tra Roscellino, Galatin e Egidio da Viterbo, e tra Egidio da Viterbo e il Giustiniani, vi è ancora molto da precisare per chiarire gli inizi della cabala cristiana.

Prendiamo l'Introductio in chaldaicam linguam. Mystica et cabalistica quam plurima scitu digna, pubblicata nel 1539 da Teseo Ambrogio di cui si ricorda tardivamente il nome a proposito di G. Postel e di J. A. Widmanstadt. Eppure essa ci riporta a Flaminio e a Roma. Il suo autore racconta come consultò l'erudito a proposito di un alfabeto samaritano che, d'altronde, gli era stato dato da Fabio Vigilio da Spoleto, allora segretario del cardinale R. Riario. L'introductio abbonda di citazioni fra le più preziose. Lo Psalterium del Giustiniani vi è spesso citato e più ancora il trattato di Egidio da Viterbo sulle lettere sante, quel trattato che lo fece incoronare da Galatin, principe deicabalisti cristiani. L'opera considerevole del cardinale dal punto di vista cabalistico resta ancora da studiare. Oltre il Liber coronarum che egli fece ricopiare alla Vaticana, egli ha lasciato la traduzione del Liber qui dicitur Temuna, dell'Hortus nuci, delle Annotationes in librum Raziel, Interpretatio et annotationes in librum decem sephiroth, Interpretatio et annotationes in librum Mayerchet haeloit, il Racanatensis, Neconia ben Hacana qui Pelia dicitur, De opere sex dierum, Opus contra hebraeos de adventu Messiae et de nominibus Messiae contra eosdem, De arcana Judaeorum dottrina tractatus, Liber de revolutione 23 literarum hebraicarum secundum viam theologicam in lingua hebraea interprete Aegidio Viterbiensi, Opera nonnulla cabalistica, senza parlare del Vocabularium linguae sanctae, Dictionarium sive liber radicum. Egli tradusse inoltre il Liber Zohar super libros Mosis che fu considerato dallo Scaligero un falso Zohar ma, il cui studio permetterebbe di gettare un po' di luce sulle citazioni dello Zohar fatte da Galatin e dal Giustiniani, come sulla traduzione che ne fece più tardi G. Postel e sulle innumerevoli copie che ne furono fatte per A. Masius, J. A. Widmanstadt e Fugger.

La corrispondenza di Egidio da Viterbo (che fu in relazione con Felice da Prato), col Giustiniani ci indicherebbe probabilmente molte personalità utili per la comprensione di questa importante corrente d'idee. E stato notato che Egidio da Viterbo fu incoraggiato allo studio della cabala da Bernardino Carvajal al quale un medico ebreo convertito sotto il nome di Iohannes Baptista Gratia Dei dedicò un Liber de confutatione hebraicae sectae, pubblicato nel 1500 da E. Sílber a Roma. Benché non sviluppi argomentazioni cabalistiche, quest'autore adopera il termine di cabala. Bisognerebbe studiare la ragione della sua discrezione. Egli d'altronde non ci dice nulla, se non i suoi rapporti coi Domenicani di Santa Maria Minerva.

Il domenicano A. Giustiniani non è meglio studiato. Eppure egli stesso ci dice di aver conosciuto Pico della Mirandola. Sono state spesso sottolineate dopo C. Gesner le sue relazioni con Galatin. Si tratta, infatti, di una vera e propria collaborazione che è sfuggita persino a Jean Morin, che pure era stato messo sull'avviso dalla rassomiglianza fra il De arcanis e il Victoria Porcheti del certosino di Genova, edita dal Giustiniani a Parigi, quando egli venne quivi come professore di lingue orientali.

Si trovano, infatti, nel commento allo Psalterium pubblicato nel 1516, come nel De arcanis, finito alla stessa data, non soltanto i testi del Gale Razeia, ma anche quelli della Guide des Egarés, pubblicata dal Giustiniani a Parigi nel 1520. Testi ebraici e traduzione sono simili. I due autori citano nello stesso modo il passo di un commento ebraico sul salmo 147: «Libertatis (sic enim est viro nomen) Commineti Hispani, nuper a Iudaismo ad fidem conversi, quatuordecim linguarum periti». Il nome di questo autore che non è stato ricordato se non dal Neander e da C. Duret, si ritrova nella introduzione di T. Ambrogio che per poco non l'ebbe professore. La citazione del nome di questo spagnolo, mentre quello dell'Heredia non compare, attira ancora una volta l'attenzione verso la Spagna. Si tratta di un altro convertito spagnolo che vediamo pubblicare a Trino nel 1513 un De motu octavae sphaerae, opus mathematica atque philosophia plenum ubi tam antiquorum quam iuniorum errores luce clarius demonstratur in quo et quam plurima Platonicorum et antiquae magiae (quam Cabalam Hebraei dicunt) dogmata videri licet intellectu suavissima ejusdem de Astronomiae autoribus Epistola. L'autore che si trova al servizio del Marchese del Monferrato, presso il quale egli conobbe H. C. Agrippa, ci dice di esser stato a Salamanca allievo di Abraham Zakut, e di averlo seguito in Africa. Quel che non constribuisce a chiarire il problema è l'affermazione di Symphorien Champier nel suo Pronosticon del 1518, che ne fa un fratello di Paolo Rici. Quest'ultimo, infatti, è di solito considerato di origine tedesca; è vero tuttavia che anch'egli non è stato studiato meglio degli altri cabalisti cristiani del tempo. Si pensa che si convertisse verso il 1507 data in cui egli dedica il suo Sal Foederis a Luigi XII. Ignoriamo perché, designato da Francesco I per l'insegnamento dell'ebraico a Parigi, egli sia proprio allora andato in Germania. La sua opera che servi a Roscellino come egli si servi di quella di Roscellino potrebbe anch'essa chiarire gli inizi della cabala cristiana. Dopo aver pubblicato a Pavia nel 1510 un Isagoge allegorizantium, egli vi aggiunse nel 1515 una Epistola defensoria contra obtrectatorem Cabalae ad venerabilem D. Doctorem Stambler. In essa egli risponde a un certo presbitero Stephanus rimasto misterioso, che, dopo aver condannato la cabala ha voluto distinguere una vera da una falsa cabala, ha affermato che sono falsi cabalisti coloro che non operano dei miracoli, e a parte una considerazione sul digiuno, ha sostenuto che Rici nel suo Isagoge non aveva trattato della vera cabala poiché non l'aveva fatto come Pico della Mirandola. Questa critica del presbyter Stephanus ci dà piuttosto da pensare riguardo all'atteggiamento del Rici, che non pare abbia seguito la via di Heredia, di Galatin e di Giustiniani. Questo Stephanus è forse tedesco come lo fu il dottor Stammler canonico agostiniano di Briga che pubblicò nel 1500 un De Tartarorum, Saracenorum, Turcorum, Iudaeorum et gentilium sectis et religionibus, cum eorundem confutatione... e del quale sappiamo che si interessava alla cabala, poichè prestò a Conrad Pellican la Stella Messiae di Pietro Nigri, l'Epistola di Heredia e i trattati di P. Rici.

L'ultima figura importante di questa generazione, Francesco Giorgio Veneto, non è meglio studiata. Lo si è considerato allievo di Pico della Mirandola, ma quando e come? La sua prima opera è del 1525 e tuttavia già a partire dal 152o circola il De Harmonia mundi, come attesta Benedetto di Falco, napoletano, nel suo De origine Hebraicarum, graecarum ac latinarum deque omnibus literis, in cui l'autore non manca di citare l'opinione dei cabalisti. Egli ci informa anche che aveva rapporti con A. Colucci al quale il Lazzarelli aveva dedicato il suo poema De bombyce.

Quanto a Domenico Grimani che fu condiscepolo di Egidio da Viterbo sappiamo che rilevò la biblioteca di Pico della Mirandola, ma si vorrebbe veder meglio precisato chi la frequentò. E questa ricerca dovrebbe estendersi a tutte le biblioteche del tempo. Quale fu, ad esempio, la sorte della biblioteca particolarmente ricca che il suo possessore, il Giustiniani, lasciò alla sua città natale e di cui si dice che fu ben presto dispersa?

 

IV - Un ultimo punto da chiarire per lo studio della cabala cristiana è il senso di questa espressione nell'epoca di cui ci occupiamo. Abbiamo visto Pico della Mirandola rifarsi ai Padri della Chiesa greci e latini per una «implicita mentio» della cabala. Si è notato ugualmente che Pico della Mirandola, il quale considera Maimonide uno dei primi filosofi ebrei, non temeva, se necessario, di sfruttarlo come autorità cabalistica. E questo modo di vedere le cose durerà fino a Pascal. Se ne trova una caratteristica conferma nel titolo dato dal Giustiniani all'opera di un suo compatriota, il certosino Porchet de' Selvaticis: Victoria Porcheti adversus impios Hebraeos, in quam tum ex sacris literis, tum ex dictis Talmud ac Cabalistarum et aliorum authorum, quos Hebraei recipiunt, monstratur veritas Catholicae fidei.

L'opera composta nel 1299 a partire dal Pugio fidei non ha niente a che vedere con la cabala, nel senso preciso della parola, ma vi si trova citato questo passo di Sant'Anastasio sul nome di quattro lettere: «Expositionem perfectissimam posuit cum ait: Deus pater, Deus filius, Deus spiritus sanctus. Et tamen non tres dii: sed unus est Deus. Horum namque verborum sententia in hebraicum versa XL duorum summam tribuit literarum hoc modo Ab El, pater deus, Ben El, filius deus, Verouach qodesch El, et Spiritus sanctus deus, Ech A tamen, Ein, non sunt, selosa eloim, tres dii, Ki elhoime had scilicet unus deus». Vi si ritrova, come nel Pugio, il riferimento al Dialogo di Pietro Alfonso che fu però edito a Colonia nel 1536. Questo dialogo scritto agli inizi del XII secolo e di cui è stata messa in luce l'influenza su Gioacchino da Fiore, ci costringe a risalire anche prima del Pugio fidei. Lo si trova, infatti, citato nel De religione christiana di Marsilio Ficino insieme al Bahir, a partire verosimilmente dallo Scrutinium di Paolo di Santa Maria. H. C. Agrippa paragonerà i dieci Sephiroth ai dieci noemi mistici di cui parla San Gerolamo, il cui nome affiora sempre quando si parla di cabala. Ci sono stati anche degli studiosi che sono andati a cercare la parola cabala in Tertulliano, dopo che Agrippa, nel suo De incertitudine, ebbe accomunato, per maledirli, cabala e agnostici. La parola cabala è, d'altronde, atta a designare tanto la tradizione primitiva cui hanno attinto Platone e Pitagora, quanto il Lullismo; la Zairagia volgarizzata da Giovanni Leone come gli anagrammatismi.

Il francescano Jean Thénaud, incaricato da Francesco I di esporgli la cabala concluse che la vera cabala cristiana si trova nel De laudibus sanctae crucis per la cui edizione Roscellino scriverà appunto un elogio in versi latini. Basta consultare la Bibliotheca di Alphonsus Ciaconius per constatare la grande importanza che veniva data nel Rinascimento agli autori più strani nel Medio Evo. T. Ambrogio ci parla di una di queste biblioteche dalla quale egli prese, prima che fosse bruciata, alcuni alfabeti fantastici. A una fonte del genere attinse, secondo Widmanstadt, H. C. Agrippa.

È, dunque, certo che si potrebbero raccogliere con profitto molte indicazioni già fatte per l'epoca dei Padri e il Medio Evo. Ricordiamosi nomi di Sant'Ilario, di San Cirillo, di Sant'Epifanio, di Eusebio, di Clemente d'Alessandria, di Teodoreto, di San Giustino, poi di Boezio, di Sant'Agobardo. Si è parlato di cabala a proposito del grammatico Virgilio da Tolosa. Si potrebbe esaminare con profitto il De idiomate hebraico di Henricus de Hassia. Ma specialmente in Spagna la messe risulterebbe abbondante. E sempre stato citato il progetto di re Alfonso di far tradurre il Talmud e i libri della cabala. Si dice che Mosé Botarel scrisse il suo commento allo Sefer Yeçîra per un suo amico cristiano, Maestro Juan.

Oltre gli autori ricordati dallo Scholem bisogna citare Alfonso da Spina (c. 1458-1461) la cui Fortalitium fidei contraJudaeos Sarracenos aliosque Christi fidei inimicos, più volte ristampata, cita fra l'altro il passo di Abner di Burgos sui cabalisti. Jacobus Perez de Valencia, eremita di Sant'Agostino, divenuto vescovo di Chrysopolis (morto nel 1491) scrisse nel 1484 dei Commentaria in Psalmos nei quali cita «dominus Petrus de la Cavaleria civis Cesaraugustanus utriusque jllris doctor famosissimus», che ebbe larga influenza sul Guevara e che si è soliti considerare fra i nemici della cabala. Egli fu anche la fonte del In Iudaeos flagellum di Adrianus Finus (1431-1519) che conobbe il Gale Razeia e il Victoria pubblicato da Petrus Brutus a Venezia del 1489, nel quale si trova citato, nel Rinascimento, il passo su l'«aritmetica ludeorum».

Proprio a Salamanca il domenicano tedesco Petrus Nigri che pubblicò nel 1475 a Eslingen il suo Stella Messiae, trovò gli elementi di quelli che il Wolf a ragione chiama i suoi «cabalismi». Si tratta di quel Petrus Nigri che ebbe una cosi notevole influenza su Conrad Pellican il quale copiò in Italia una parte del lavoro oggi scomparso di A. Giustiniani; tradusse opere quali il Fasciculus Myrrae, e, ancora negli ultimi anni della sua vita, si interessava delle opere di G. Postel.

Ma l'uomo la cui testimonianza riveste maggior importanza per uno studio sui precursori di Pico della Mirandola, è, senza dubbio, il baccelliere Alfonso della Torre, la cui personalità è stata messa in luce recentemente da Marcel Bataillon. Verso la metà del XV secolo, nell'epoca di Petrus de la Caballeria, Alfonso della Torre scrisse in volgare la parola cabala nella sua Vision deleitable de la filosofia y artes liberales. Questo testo fu spesso ristampato ed anche tradotto. La sua traduzione italiana, pubblicata tardivamente sotto il nome del traduttore Domenico Delfini, meriterebbe di essere studiata per arrivare a una precisazione nello studio della cabala cristiana a Venezia.

Lo studio della cabala cristiana si presenta, quindi, come un lungo gioco di pazienza (lo sviluppo successivo, non ostante il tentativo di J. L. Blau non è meglio conosciuto); ma la posta in palio è importante poiché permetterà di capire meglio un secolo che fu quello dei collegi trilingui e delle Bibbie poliglotte.   

 

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