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Il 14 febbraio 1901, chiamato a presiedere il governo dopo la breve e sfortunata esperienza di Saracco, Zanardelli volse la sua azione a ripristinare la prassi del governo parlamentare e ad anteporre le gravi questioni sociali ed economiche a quelle puramente politiche. In particolare, impose con vigore alla riluttante maggioranza conservatrice del parlamento un nuovo atteggiamento di equidistanza nelle lotte tra padronato e ceti salariati, rifiutandosi di ricorrere, nel caso di scioperi aspri e lunghi, a quelle leggi eccezionali applicate dal Di Rudinì e dal Pelloux.
Nel suo gabinetto il posto-chiave del Ministero dell’interno era ricoperto da Giolitti, il quale intraprese un’azione capillare tra i prefetti perché, abbandonando l’usuale prassi repressiva in vigore nei confronti degli scioperanti, si impegnassero a riconoscere e a garantire la libertà di organizzazione e di sciopero, già contemplata nel codice Zanardelli del 1889 e mai ammessa nei fatti.
Secondo "L’uomo di pietra" si trattò, per il «pollaio governativo», di un vero e proprio «uovo fuori del cavagnolo», che costituì il primo passo verso un graduale riavvicinamento di radicali e riformisti ai centri del potere.
In quell’anno furono proclamati ben 1671 scioperi (nel 1900 erano stati 410), ai quali avevano partecipato 420 mila lavoratori. Con tali lotte la classe lavoratrice (per lo più contadini) ottenne notevoli miglioramenti salariali soprattutto in rapporto al costo della vita sensibilmente in aumento. Dietro l’affermazione di principio, liberaleggiante e democratica, di Zanardelli e di Giolitti stava in effetti un disegno politico ben più vasto e articolato, che poneva nella relativa pace sociale e nella correttezza dei rapporti tra forze politiche il presupposto per l’avvio di un’azione riformista in senso moderatamente progressista.


"L’uomo di pietra", 27 aprile 1901