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La realtà che appare immediatamente ai nostri sensi è diveniente e fenomenica: muta e si trasforma incessantemente, nasce e muore, si svolge in un ritmo di opposizioni e non rimane mai identica a se stessa. La sua amarezza avvelena ad ogni istante la nostra esistenza e la fascia di terrori e di disperazione, mettendoci al cospetto dell'irrazionale e della morte. Se questa non è una realtà ma una illusione, come e perché essa emerge dal nulla di fronte a noi? E se essa è reale, come è possibile conciliarne l'irrazionalità con le divine eterne ipostasi?

Il documento che presentiamo, ai nostri Ospiti, per studio e considerazioni è tratto da "Plotino" Grazanti 1945.

Il fondo Tenebroso delle Esistenze

La realtà che appare immediatamente ai nostri sensi è diveniente e fenomenica: muta e si trasforma incessantemente, nasce e muore, si svolge in un ritmo di opposizioni e non rimane mai identica a se stessa. La sua amarezza avvelena ad ogni istante la nostra esistenza e la fascia di terrori e di disperazione, mettendoci al cospetto dell'irrazionale e della morte. Se questa non è una realtà ma una illusione, come e perché essa emerge dal nulla di fronte a noi? E se essa è reale, come è possibile conciliarne l'irrazionalità con le divine eterne ipostasi? L'Uno, Io Spirito, l'Anima sono eterni, immutabili, invisibili, sono al di là del tempo e dello spazio e non conoscono né il nascere né il morire. Non sembra perciò che il divenire sensibile derivi da essi. Nella sfera inferiore all'anima universale vivono gli indefiniti individui, ognuno con le sue caratteristiche irriducibili e le sue peculiari qualità dovute alle ragioni seminali; ma le ragioni seminali non derivano da una materia, ma procedono dall'anima e si estrinsecano nello spazio nella complessità dei colori, dei sapori, degli odori, delle forme sensibili che costituiscono la ricchezza del nostro mondo fisico. Queste qualità appaiono a noi, ma non sappiamo se per effetto di una realtà materiale esterna, dinanzi alla quale noi saremmo passivi, oppure se esse siano una produzione dell'anima. Nel primo caso noi dovremmo ammettere, oltre le tre ipostasi, una nuova realtà sostanziale capace di agire su di noi e di produrre in noi le sensazioni; e l'anima nostra perderebbe il suo valore spirituale diventando cosa tra cose, esposta agli urti meccanici dei corpi. Ma noi sappiamo che la realtà sostanziale e divina finisce con l'anima: il visibile, che nell'opinione dei molti rappresenta il vero essere, non esiste se non in relazione ad altro, ed ha la stessa consistenza dell'immagine. Le sensazioni non sono passioni dell'anima, ma suoi atti, e non esigono perciò una causa produttrice esterna; esse emanano dall'anima di cui sono proiezioni nell'esterno e ne esprimono la molteplice potenzialità. L'anima in quanto ultima ipostasi non genera una nuova ipostasi; ma poiché essa è pur sempre potenza generatrice, si estrinseca in un mondo fenomenico e spaziale che non ha consistenza se non nell'anima che lo produce e alla quale esso è sospeso. Questo mondo che noi chiamiamo materiale non sussiste dunque in se stesso, ma solo come espressione visibile di indefiniti centri di vita invisibili.
Ora, la materia non è ciò da cui derivano le cose, ma ciò in cui appaiono le nostre sensazioni e le sensibili estrinsecazioni delle anime e delle ragioni seminali. Essa è il luogo delle apparenze fenomeniche ed esiste con esse ma non è identica ad esse; ma poiché i fenomeni sono opera dell'anima, anche la materia è, in ultima analisi, opera dell'anima, non certo come cosa sostanziale, ma come necessario luogo ideale delle sue possibili sensazioni. Sentire implica un'alterità come l'intelligere. E come nello Spirito il pensante e il pensato non sono fuori l'uno dell'altro ma costituiscono la unità vivente del cosmo noetico, così nell'anima, che è immagine del Noûs, il sensiente e il sentito non sono due realtà, ma i due intrinseci aspetti de la sua vita unitaria. Nello Spirito soggetto e oggetto si identificano in una silenziosa interiorità; nell'anima invece si sdoppiano in modo che l'oggetto appaia esterno ad essa e il soggetto si disperda nell'oggetto illudendosi di trovare in esso una concreta sostanziale realtà. Le esistenze divenienti e transitorie sembrano dunque emergere da un «fondo tenebroso» che si contrappone all'anima, come se esso fosse la materia che le costituisce, mentre in effetti esso non è che uno spazio ideale e indefinito che sussiste nell'anima e per l'anima e che soltanto per un'illusione trascendentale può essere considerato come sussistente in se stesso. In questo senso Plotino dichiara esplicitamente che la materia non è separata localmente dall'anima, ma che è nell'anima così come l'anima è nello Spirito e lo Spirito nell'Uno; che essa non è separata dalle idee, ma ne rivela, per tramite dell'anima, un vestigio, mirabile agli occhi nostri; e che perciò essa è sempre illuminata, non essendo possibile che rimanga fuori dell'anima, come realtà a sé e come tenebra assoluta. E ancor questo egli intende significare quando a più riprese afferma, in un modo che potrebbe sembrare mitico, che l'anima, a differenza del Noûs, discende «quaggiù», cioè si dispiega necessariamente nel mondo delle sensazioni e delle apparenze fenomeniche.
Intesa così la materia e impostata in tal modo nel complesso sistema plotiniano, è ovvio che una sua definizione si renda impossibile dal momento che il pensiero non può definire ciò che per essere definito richiede l'allontanamento e la negazione di ogni determinazione logica e sensibile. Come nella tentata definizione dell'Uno Plotino «conduce al limite» la tensione del pensiero nel vano sforzo di circoscrivere logicamente l'Ineffabile, che è assoluta Potenza e Trascendenza, così ora con minore tensione intellettiva egli tenta di far intuire ciò che è assoluta potenzialità e assoluto non-essere.
Gli attributi dell'Uno - Bene, infinità, Principio, Primo, libertà assoluta, ecc. - non erano intesi come predicati di qualche cosa, ma come la natura stessa dell'Uno; ora gli attributi della materia non saranno considerati come qualità inerenti a un substrato reale, ma come la natura stessa della materia che è assoluta negatività. Vana tensione voler definire e comprendere i limiti estremi del reale: il nostro pensiero non è che un episodio in seno a l'Assoluto e sta, mediano, tra il tutto e il nulla; e se esso è impotente a comprendere l'Uno perché è da esso «compreso», altrettanto disorientato si trova quando vuol ficcare gli occhi nel fondo di quello spazio misterioso da cui emergono le esistenze, poiché l'ipotesi di un nulla sarebbe assurda dal momento che l'essere è. La materia è sì dunque la tenebra in cui si disperde la potenza diffusiva della Luce prima, ma non come la tenebra che esiste in un certo luogo della nostra casa fuori della quale è la luce. La materia è menzogna come è menzognero il pensiero che volesse affermarla come reale ipostasi. Perciò le attribuzioni che il pensiero potrà via via determinarle non intendono costruire un mondo tenebroso contro il regno dell'essere ma soltanto porre in risalto i limiti del nostro pensiero e le immanenti possibilità dell'anima nostra, definendo chiaramente l'ambito della sua attività spirituale.
Concepita la materia come pura negatività - e qui le classiche analisi di Anassimandro, di Platone, di Aristotele vengono condotte sino al limite estremo - riesce facile dedurre per viam negationis tutte le varie caratteristiche che sembrano definirla. Poiché nessuna forma la circoscrive definitivamente, dobbiamo concepirla illimitata e indeterminata; essa non è forma né formata, ma è la negazione di ogni forma; e quando accoglie la traccia di una forma, essa non è questa forma, ma è altro da essa e rimane l'«informabile» e il «potenziale» in senso assoluto, pronto ad accogliere nuove parvenze in un processo indefinito: perciò essa è semplice, ma di una vuota semplicità che ricorda, solo per inganno, la feconda semplicità dell'Uno, sorgente e generatore di ogni essere. Non muta perciò la sua natura nell'accogliere in sé le varie apparenze fenomeniche, ma rimane impassibile e insieme inattiva, puro soggetto senza qualità e senza quantità, indefinitezza pura e perenne relatività. Essa è il non-essere che si può pensare solo in quanto il pensiero si appoggi all'essere e riferendosi ad esso lo neghi. La sua verità consiste nell'essere menzogna, cioè nell'essere lo spazio e il ricettacolo di tutte le apparenze che nascono e muoiono, di tutte le sensazioni in cui si esaurisce la potenza inferiore delle anime e la energia plastica delle ragioni seminali. E' fantasma senza consistenza, ombra che segue inesorabilmente ogni esistenza, oscurità in cui il pensiero si inabissa e si perde.
Abbiamo già visto che le ipostasi sono potenze generatrici, e cioè poiesis, solo in quanto sono contemplazione di una realtà superiore. Soltanto l'Uno, che è il Primo, e non ha nulla sopra di sé, non contempla eppure è la fonte inesauribile di ogni realtà. Anche la materia non è theoria, ma essa, limite estremo dell'essere e privazione assoluta, non produce nulla appunto perché non è theoria; se fosse attività, essa produrrebbe un'altra realtà dopo di sé. Non essendo dunque né contemplante né generante, essa è relativa al contemplante (all'anima), ma non come il suo vero oggetto (che è l'intelligibile, lo Spirito), ma come la indefinita potenzialità della sua attività inferiore che è la percipiente, e insieme come il fondo ideale della inesauribile possibilità delle esistenze contingenti. E poiché Plotino concepisce la realtà tutta in termini di dinamismo, la materia, che è non-essere e mero fantasma di corporeità, è pensata come «pura aspirazione all'esistenza»: aspirazione che non inerisce affatto a un soggetto, all'anima sensiente, ché in tal caso tale soggetto dovrebbe già esistere in atto, ma che deve essere intesa, come abbiamo già visto, come il corrispettivo ideale esterno alla potenza inferiore dell'anima, che non si affisa in Oggetti eterni e necessari, ma si disperde in una molteplicità di impresagibili esistenze fenomeniche contingenti. La materia è dunque aspirazione all'esistenza soltanto perché l'anima stessa è tensione cieca e fatale verso l'esteriore.
Ma è ancora più facile determinare la funzione del concetto della materia, quando si consideri l'uso che ne fa Plotino rispetto alle ipostasi. Lo Spirito infatti non è l'Uno e perciò è materia rispetto all'Uno; l'anima non è lo Spirito ed è perciò materia rispetto allo Spirito. Ciò che non è l'Uno si può dunque considerare materia, cioè molteplicità e relazione, poiché soltanto l'Uno è l'Assoluto. Ma lo Spirito e l'Anima non sono detti materia nel senso di potenze non ancora passate all'atto, poiché essi sono ipostasi già in atto e sono perciò in se stessi quello che sono, non quello che diverranno. Ora, la materia intesa in se stessa e non più in rapporto alle ipostasi, non è né l'Uno né lo Spirito né l'Anima: è dunque la negazione di ogni ipostasi e non è perciò nulla di ipostatico. E se riguardo alle ipostasi essa vuol significare l'intima ricchezza della loro vita in quanto protesa al Fine superiore, la potenzialità infinita che accompagna tutto ciò che non è l'Uno, vuol dire che essa esprime una funzione inerente al reale e vale solo in rapporto vivo e dialettico col reale: in modo che, considerata in se stessa, dimostra la sua assoluta inconsistenza e impensabilità. Se la concepiamo - come sembra giusto - come funzione logica, è naturale che essa muti significato a seconda che noi la consideriamo nello Spirito, nell'Anima o in se stessa; nello Spirito, che è indefettibile possesso dell'Essere, essa vuol significare l'immobile rapporto con l'Uno, l'ideale movimento del Noûs verso la sua interiorità assoluta, ed è perciò detta materia intelligibile, perché quel suo movimento non è passaggio logico e discorsività; nell'anima essa è aspirazione all'essere e all'intelligibile, poiché essa non è l'essere e l'Uno si trova in lei solo per accidente; perciò fuori del reale rapporto con le ipostasi il concetto della materia si svuota di qualsiasi determinazione e può essere pensata soltanto se la nostra mente la riferisca a qualcosa di reale che la sostenga, cioè all'anima e alle ragioni seminali che nella materia estrinsecano necessariamente l'estremo limite della loro potenza generatrice.
La materia dunque non è una realtà opposta all'Essere, ma è privazione che accompagna tutto ciò che non è l'Uno e che aumenta a seconda che dallo Spirito si discende alle apparenze fenomeniche, ma senza che essa possa mai affermarsi come un qualcosa di reale. In intimo rapporto con tale dottrina della materia anche il problema del male viene risolto con le stesse chiarificazioni già esaminate. La materia è il primo male; ma poiché la materia non sussiste in se stessa e non ha consistenza alcuna, ne consegue che anche il male non esiste come realtà opposta al bene, ma soltanto come grado di bene o come privazione del bene. Ora, soltanto l'Uno è il Bene: ciò che l'Uno genera non è il Bene ma un bene. Difatti lo Spirito e l'Anima non sono l'Uno; in quanto sono opera dell'Uno e partecipano dell'Uno e tendono ad esso, sono beni; in quanto non sono l'Uno, non sono il Bene. Intesa come pura privazione la materia è il male primo; ma come la materia non è oscurità ipostatica, ma assoluto non-essere e relatività infinita, così il male non esiste in se stesso, ma del dialettico rapporto col bene. Ciò è possibile nel sistema plotiniano, dove la dottrina delle ipostasi determina una gerarchia di valori tra i quali non è possibile una discriminazione e un movimento ideali: volere il male non significa tendere a una assoluta irrazionalità e tanto meno tendere al nulla, poiché l'anima si rifiuta di andare al nulla; ma vuol dire preferire un bene inferiore a un bene superiore o al Bene supremo. L'uomo, come non può pensare il Nulla assoluto, così non può volere il Male assoluto; perciò non nell'oggetto voluto come tale va ricercato il male, ma nell'anima che vuole in quanto piega verso una realtà esterna e inferiore. Se l'anima non fosse aspirazione spirituale e non si elevasse da un piano a un altro di vita confermando così col suo atto vitale la continuità delle Potenze ipostatiche che sembravano rimanere irrigidite e irrelative, il male sarebbe un vuoto nome. Ma la posizione centrale dell'anima, intesa come desiderio, rende possibile il problema del male. La stessa legge della generazione divina dominante nell'Universo spirituale, per la quale dall'Uno si discende nel molteplice per un necessario affievolimento delle realtà generate, spiega metafisicamente la possibilità del male per opera dell'anima. Che il superiore generi l'inferiore è necessario; ma il superiore non si disperde nel generato, ma rimane immobile nella sua inesauribile e intatta perfezione. Anche l'anima genera necessariamente, per legge divina, una realtà inferiore; ma questa realtà non è un male, ma un'immagine transeunte e fugace dell'essere e del bene. A queste immagini che non sono realtà vere l'anima può tendere, sia perché essa è per natura movimento ed eros, sia perché essa stessa le ha create. Che l'anima discenda è dunque fatale: e ciò toglie al male quel carattere tragico che ha nel Cristianesimo, pel quale il primo peccato ha aperto tra l'uomo e Dio una scissura profonda che soltanto il Figlio fatto uomo potrà colmare.
Il senso della colpa non manca nella morale plotiniana: anzi, l'oggettivismo mitologistico, proprio della mentalità greca, e gli influssi diretti delle religioni misteriche spingono talora Plotino a concepire il male come qualcosa che «lorda» l'anima e da cui è bene purificarsi al più presto; ma queste sono espressioni popolari alle quali bisogna guardarsi di attribuire soverchia importanza. Sta il fatto che il male non è la mostruosa eccezione che rompa la divina armonia dell'Universo e richieda il più grande prodigio per essere vinto. L'anima che lo compie (e lo compie attuando una possibilità che appartiene alla legge divina del Cosmo) è la stessa che lo vince e si eleva; anzi, non potrebbe elevarsi se non allontanasse lo sguardo via dai beni fuggevoli, e dei beni inferiori non si servisse come di fulcro per ascendere all'Uno. In rapporto con l'anima operosa, il male va dunque considerato come un momento dialettico della vita spirituale; come non è possibile all'anima intuire in qualche modo l'Uno, se non riferendosi alla tumultuosa e amara molteplicità clic la preme da ogni parte e negandola eroicamente, maturando così nell'angosciosa esperienza quotidiana una sempre più luminosa certezza di ciò che il puro pensiero non saprebbe da solo conoscere giammai, così l'anima non può conquistare e far suo il bene e comprenderne il valore e gustarne l'intima dolcezza se non supera il male, cioè tutto quello che minaccia di deviarne l'innato anelito al Divino. Il male esiste perché esistiamo noi che non siamo l'Assoluto; ma non esisterebbe il bene per noi se lo possedessimo senza averlo conquistato: perciò il male che esiste non è male se serve a darci la coscienza del nostro destino.

 

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