Il tuo browser non supporta il tag embed per questo motivo non senti alcuna musica

IL LIBRO DEI LIBRI TRA LE ROVINE DEI TEMPLI ANTICHI

 

Abbiamo esaminato la Bibbia nei suoi manoscritti; l'abbiamo indagata nelle sue traduzioni; non rimane ora che domandarci: Ma questa Bibbia che cos'è? Un masso erratico, perduto in mezzo al campo della letteratura semitica? Un libro piovuto dal cielo? O un documento o una collezione di documenti che ha qualche nesso coi popoli in mezzo ai quali apparve? A queste domande, che per secoli rimasero senza risposta, ci mettono oggi in grado di rispondere le meravigliose scoperte che si sono fatte e si stanno facendo in Oriente. Dal 1600 a oggi è stato un continuo e sempre più stupendo succedersi di queste scoperte.

 

Esiste un paese che, in modo tutto speciale, attirava ed attira gli avidi sguardi degli studiosi:  questo paese è l'Egitto. In Egitto Israel era stato quattrocentotrenta anni schiavo dei Faraoni; in Egitto aveva cominciato in modo drammatico e si era sviluppata nel suo primo avventuroso periodo la vita di Mosè; con l'Egitto Israel aveva avuto relazioni il cui ricordo la Bibbia ha eternato nelle sue pagine; impossibile quindi che l'Egitto non avesse nulla da dire per confermare o per confutare quello che la Bibbia ci dice del contatto d'Israel con la terra rossa: rossa, non soltanto per il riflesso del vicino deserto infuocato, ma per il sudore ed il sangue di quel popolo oppresso.

E l'Egitto parla. Parla con le sue iscrizioni sui monumenti, sugli edifici, colossali, sulle tombe, sui macigni perduti nel deserto, ma parla in un linguaggio, rimasto a lungo ignoto, strano, impossibile da cifrare. Parla coi suoi geroglifici, vale a dire con caratteri sacri incisi, scolpiti; con dei segni che per lungo tempo nessuno ha saputo decifrare nei nostri linguaggi ordinari.

Accadde che un giorno d'agosto del 1799, a Rosetta, sulla riva occidentale del Nilo e non lontano dalla foce del fiume stesso, un ufficiale del Genio francese, che effettuava certi scavi,

ad un tratto scoprì una tavola di pietra nera, di basalto, tutta coperta d'iscrizioni. Esaminatala bene, si trovò che conteneva una iscrizione in tre lingue: in alto, un'iscrizione geroglifica in caratteri, che si scoprì in seguito essere caratteri ieratici, ossia sacerdotali; nel mezzo, la stessa iscrizione, che risultò essere in caratteri demotici o popolari; e in basso, la stessa iscrizione tradotta in greco onciale, vale a dire in greco scritto tutto di seguito e con maiuscole. Il gran mistero cessava d'esser mistero. Era questione di pazienza e di studio; la traduzione greca doveva dare, e dette, il modo di costruire e fissare l'alfabeto delle altre due iscrizioni; e, con l'alfabeto, era trovata la chiave che apriva le porte d'una nuova civiltà, d'una nuova ignorata letteratura, di una quantità di testimonianze che venivano a confermare il contenuto del Libro dei libri.

La preziosa Pietra di Rosetta, che aveva rivelato il mistero e rendeva possibile il sicuro riconoscimento dei tesori che si andavano scoprendo, è gelosamente conservata nel Museo Britannico. Così, la magnifica statua che nel 1818 Jules Rifaud trovò a Tebe ed è ora nel Museo Egizio di Torino, poté essere con sicurezza riconosciuta come statua di Rameses II. Non solo, ma nel 1881, il Maspero trovò nella necropoli di Tebe una mummia, che è oggi nel Museo Egiziano del Cairo; e fu accertato che era la mummia di Rameses II; proprio dello stesso Rameses, che regnava sugli Israeliti e li impiegava a fabbricare i suoi grandi edifici e a costruire le due città di approvvigionamento, Pithom e Rameses di cui parla l'Esodo, e delle quali il Naville ritrovò i luoghi dove sorsero: lo stesso Naville, che scoprì i granai e i magazzini del periodo ebraico, i quali probabilmente servirono a Giuseppe, nei sette anni d'abbondanza, come i depositi di grasce per i sette anni della carestia, di cui parla il Genesi.

Nel 1896 il Flinders Petrie trovò la famosa stele di Merenptah, dov'è ricordato il nome d'Israel. E, come se questo fosse poco, venne ritrovata un'altra mummia: proprio la mummia di questo Merenptah, figlio e successore di Rameses II, e Faraone al tempo dell'Esodo d'Israel dalla terra d'Egitto.

Tutto questo basti a dare un'idea del prezioso contributo che l'Egitto ha dato e continua a dare (perché gli scavi proseguono anche oggi) alla credibilità dei racconti della Bibbia.

Nel 1868, un viaggiatore prussiano trovò fra le rovine di Dibon, città amorrea, a un' ora e mezzo circa a nord del fiume Arnon una stele basaltica, scritta da un lato solo in lingua affine all'ebraica. Appena scoperta, i tedeschi e i francesi che si trovavano sul luogo, cominciarono a contendersela, e il baccano fu tale che attirò l'attenzione dei Beduini; i quali presero la stele, la riscaldarono prima ad alta temperatura, poi vi gettarono sopra dell'acqua fredda, e la mandarono così in frantumi. E se il cancelliere del Consolato francese a Gerusalemme non avesse, prima del danno, ricavato dalla stele l'iscrizione ricalcandola su carta, e dopo la distruzione non ne avesse raccolto una ventina di pezzi della stele, che si conservano oggi a Parigi, nel Louvre, non si saprebbe nulla.

La stele  tratta dei Moabiti, tribù palestinese a oriente del Mar Morto. Discendevano da Moab, figlio di Lot, parlavano un linguaggio affine all'ebraico, e adoravano il dio nazionale Chemosh. La Bibbia racconta che i Moabiti e Israel erano in continua acerrima guerra. Saul guerreggiò con loro, e David se li rese tributari. Ai tempi d'Ahab, narra lo storico del secondo, libro dei Re, Mesha, loro re, si ribellò; e quando Jehoram cercò di ridurlo all'ubbidienza ed ebbe rinchiuso Mesha in Kir-Haréseth, questi prese il proprio primogenito e ne fece un olocausto al dio Chemosh sulle mura della città. Gli Israeliti videro l'orribile sacrificio umano; e ne rimasero così atterriti, che abbandonarono il campo. Ora, in questa stele moabitica, è proprio questo re Mesha che narra le sue imprese. E ricorda nomi di re e di città, allude alla vita religiosa del suo popolo, menziona il suo dio Chemosh, fa sentire l'odio accanito che Moab nutriva per Israel, e tutto così nella stele conferma quello che è narrato dallo storico nel suo libro dei Re.

Ma gli studiosi erano certi che anche da altri paesi doveva venire della luce per illuminare le narrazioni bibliche. Del resto Caldea, Assiria, Babilonia erano nomi frequentemente ricorrenti nei libri storici e nei Profeti; impossibile che questi paesi non avessero mai parlato d'Israel, che pur tante e tante relazioni aveva avuto con loro. E la Caldea, l'Assiria e Babilonia parlarono, andando di continuo rivelando agli archeologi iscrizioni su monumenti, su tavolette d'argilla o mattoni, su cilindretti di pietra dura che erano serviti da sigilli reali; ma parlavano con dei caratteri cuneiformi, vale a dire formati con piccole linee simili a cunei o chiodi, combinati con vario numero e con varia disposizione, verticali, orizzontali, obliqui; parlavano con questi segni strani, indecifrabili; e la storia della civiltà caldea, assira e babilonese rimaneva un mistero impenetrabile. I primi tentativi di decifrare questi caratteri furono fatti da Jules Oppert, assirologo francese (1); ma chi apri la via alla scoperta del significato dei segni misteriosi fu il tedesco Georg Friedrich Grotefend (2); e le iscrizioni persiane furono le prime a fornire il materiale che dette il vero modo di interpretare tutte le iscrizioni cuneiformi. Fino al 1837, però, le iscrizioni rimanevano ancora un mistero. In quell'anno, l'inglese Rawlinsono (3), lavorando su due brevi iscrizioni che aveva trovate nel 1835 in Persia, riuscì a costruire una specie d'alfabeto dei caratteri cuneiformi persiani, e a ricavare con esso un senso dalle corte iscrizioni che possedeva. Nel 1837 il Rawlinsono andò a Behistun, nei monti occidentali della Persia; e, superando non poche difficoltà, arrivò a farsi una riproduzione della parte persiana dell'ampia iscrizione che, per ordine di Dario re di Persia, era stata scolpita qui nella roccia in tre lingue: persiana, susiana (4) e babilonese, a ricordare le sue guerre e le sue conquiste (5). Il Rawlinsono, paragonando l'iscrizione persiana di Behistun con quelle che aveva trovate nel 1835, giunse a decifrare alcuni nomi e a scoprire il significato di molte parole; e, aiutandosi con le lingue affini al persiano di queste iscrizioni cuneiformi, dopo aver costruito uno scheletro di grammatica e accertato il senso di un grandissimo numero di altre parole, nel 1847 fu in grado di pubblicare, tradotto in seguito in tutto il mondo, il testo persiano della grande iscrizione di Behistun. Arrivati a questo punto, la decifrazione di tutte le iscrizioni cuneiformi diventò questione di tempo; e la roccia di Behistun fu così per la interpretazione dei caratteri cuneiformi quello che la Pietra di Rosetta fu per i geroglifici egiziani. La parte che sta sopra alle iscrizioni scolpite nella roccia rappresenta Dario, che riceve l'atto di sottomissione dei capi delle nazioni che gli si erano volte contro; e la figura nel circolo alato, che domina la scena, è il dio Ahuramazda.

 

L'importanza di questa rivelazione dei caratteri cuneiformi per la Bibbia è straordinaria, per esempio il famoso cilindro di Sennacherib, che fu re d'Assiria dal 705 al 681 avanti Cristo. Nel cilindro, che è in terracotta, si sa oggi che Sennacherib stesso narra come esso invase la Palestina, e come assediò Gerusalemme durante il regno d'Ezechia, re di Giuda (6). E la narrazione di Sennacherib è sostanzialmente in pieno accordo con la narrazione del libro dei Re. Ancora un altro famoso cilindro di terracotta, nel quale si può oggi leggere come Ciro, re di Persia, nel 539 avanti Cristo s'impadronì di Babilonia, che da questa data rimase sotto la dominazione persiana fino al tempo d'Alessandro il Grande, quando cadde in potere dei Greci (7)E anche qui non c'è nulla che contrasti con quello che la Bibbia racconta.

Parecchie di queste scoperte hanno poi avuto un'importanza grandissima per un altro motivo: perché ci hanno condotti a un concetto della Bibbia diverso da quello che avevamo prima.

Durante l'ultima sessantina d'anni, fra le rovine dei palazzi che i re dell'ultimo Impero assiro avevano costruito sulla collinetta che segna il centro della città di Ninive, si sono trovate delle tavolette di terracotta. Sono tavolette di un valore straordinario. Di parecchie si è già decifrato il contenuto; altre aspettano d'esser lette e studiate. Di queste tavolette o frammenti di tavolette il Museo Britannico ne possiede più di ventimila! Due di queste, quelle riprodotte a lato (8),  danno il racconto babilonese della Creazione. In queste tavolette è narrata la leggenda della lotta fra Marduk e Tiâmat. Non esistono ancora né cielo né terra né dèi; esiste soltanto il caos. Le prime divinità ad apparire sono Apsu e Tiâmat, maschio e femmina.

Da questa coppia nascono gli altri dèi. Apsu e Tiâmat, che vogliono il caos, odiano i nuovi dèi, che intendono invece portar l'ordine nell'universo; e ordiscono una congiura. La congiura è scoperta. Apsu cade, e rimane Tiâmat. Marduk è pronto a combattere contro Tiâmat, se gli dèi lo eleggono come loro campione. Gli dèi acconsentono, e gli infondono una forza che lo renderà invincibile. Difatti Marduk assale Tiâmat, l'uccide, la divide in due; e, con una metà, costruisce il firmamento; con l'altra, la terra.

 

Dunque, Babilonia (e lo stesso si sa che fu di altri popoli antichi) ebbe anche essa la sua cosmogonia. Tutte queste remote cosmogonie altro non sono se non le semplici, immaginose, infantili risposte date da quei popoli nelle primissime fasi del loro sviluppo, alla domanda: Quali sono le origini del mondo e della vita? e le fonti delle nostre cosmogonie bibliche, vanno senz'ombra di dubbio cercate in Babilonia.

I redattori della Bibbia non dissero mai di aver ricevuto in modo miracoloso le loro informazioni; essi attinsero i loro materiali alle fonti migliori che furono loro accessibili. Qui, relativamente alle origini dell'universo, gli autori non disdegnarono dal servirsi di elementi che derivavano da sorgente politeista; ma a confrontare bene la cosmogonia biblica con quella babilonese si noterà subito l'immenso abisso che le separa. Mentre la babilonese è rozzamente politeista, la biblica è prettamente monoteista; mentre in quella il caos è anteriore alla divinità, gli dèi provengono dal caos e Marduk non diventa sovrano che dopo essere stato eletto campione degli dèi e aver vinto Tiâmat, in questa il Creatore è l'Essere supremo, unico ed assoluto, fin dal principio. 

Ovvio i racconti non balzarono ad un tratto da Babilonia nel Genesi; ma rimasero prima per un lungo periodo in Israel, subendo a poco a poco l'influsso della religione di questo popolo. Passarono in Israel, forse, quando gli antenati degli Ebrei vivevano accanto ai Babilonesi in Ur, oppure giunsero ad Israel tramite i Cananei, che si sa subirono fortemente l'influsso dei Babilonesi anche prima che Canaan fosse occupata dagli Israeliti. Comunque sia, una cosa è chiara: nel Genesi noi abbiamo, non la riproduzione esatta di una cosmogonia pagana, ma la versione ebraica di questa cosmogonia. Della leggenda pagana rimasero la forma, le linee generali, ma lo spirito ne fu del tutto mutato, e ne fu radicalmente trasformato il senso religioso.

 

Altre di queste tavolette di terracotta, che risalgono a circa duemilacinquecento anni avanti Cristo, contengono la storia babilonese del Diluvio.

 

Sulla storia del diluvio consultare l'ampia sezione dedicata:

I Diluvi

 

La straordinaria somiglianza che esiste fra la narrazione genesiaca e la storia babilonese del diluvio è cosa che colpisce. Difatti, il superstite del diluvio, nell'una, è il decimo dei re antidiluviani; nell'altra, è Noè, il decimo patriarca da Adamo. Utnapishtim e Noè sono avvisati in anticipo, perché si salvino dall'imminente diluvio: il primo in una nave, il secondo nell'arca; in entrambi si trovano le istruzioni per costruire l'arca e la nave di certe misure; la nave e l'arca si fermano sopra un monte; Bel benedice Utnapishtim, e Dio benedice Noè; entrambi hanno l'episodio della colomba e del corvo, il sacrifico dopo l'uscita dall'arca; in tutti e due il genere umano perisce tranne poche persone; Utnapishtim è salvato per la sua pietà, come Noè per la sua giustizia; e Bel, come Jahveh, promette di non più distruggere l'umanità in quel modo.

La differenza più saliente fra le due tradizioni è questa: la babilonese ha un colorito politeistico, mentre la genesiaca è essenzialmente e squisitamente monoteista. Ora, se si considera che la tradizione babilonese è più antica della genesiaca e che il diluvio presuppone un paese soggetto alle inondazioni come Babilonia, bisogna ammettere che la tradizione del diluvio nacque in Babilonia, e fu trasportata in Palestina. Sorta in Babilonia in seguito a qualche disastroso straripamento dell'Eufrate, che nella immaginazione popolare prese poi le dimensioni di una distruzione della umanità eccettuati pochi superstiti, questa tradizione passò in Israel, dove, trasmessa oralmente per molte generazioni, si modificò in vari particolari, andò man mano penetrandosi dello spirito monoteistico ebraico, e fu finalmente incorporata nel libro del Genesi; e qui rimase e rimane, simbolo eloquente di queste profonde verità religiose ed etiche: c'è un giudizio di Dio che colpisce chi, abbandonata la via del bene, si guasta e si corrompe; ma il giusto, che tale si mantiene in mezzo al dilagare dell'empietà, è benedetto, e salva sé stesso e la sua famiglia.

 

Nel 1897, il rovistare fra le tombe e in certi cumuli di antichi rifiuti a Oxyrhynchus, una delle principali città dell'antico Egitto, posta sul limite occidentale del deserto, a un centoventi miglia dal Cairo, condusse il Grenfell e lo Hunt alla scoperta di una ricca collezione di papiri greci, che datano dal primo al settimo secolo dell'era cristiana. Fra quei papiri ce ne fu uno che destò il massimo interesse, perché con tiene dei detti o delle parole di Gesù. Sei anni dopo, altri scavi eseguiti nello stesso luogo, portarono alla scoperta di altri papiri, contenenti essi pure altre parole attribuite a Gesù e un frammento d'un Vangelo perduto.

Nel 1908 il Grenfell e lo Hunt pubblicarono il testo e la traduzione dei nuovi papiri scoperti pure ad Oxyrhynchus, i quali danno un frammento di Vangelo greco apocrifo che consiste in un breve e drammatico dialogo di Gesù con un fariseo e sommo sacerdote del Tempio, simile a quelli che conosciamo in Marco ed in Matteo.

Ad onor del vero, le nuove parole di Gesù e i frammenti dei papiri scoperti a Oxyrhynchus non hanno portato gran che in fatto di luce; ma non hanno neppure portato alcuna nota discordante con le ipotesi degli scritti del Nuovo Testamento.

 

Fra il dicembre del 1901 e il gennaio del 1902, a Susa, l'antica Persepoli, capitale del regno persiano, il Morgan, capo di una missione archeologica francese, trovava la magnifica stele, che contiene il Codice più antico che il mondo possegga: il Codice promulgato da Khammurabi, re di Babilonia, il quale ci conduce al periodo remoto fra il 2285 e il 2242 prima di Cristo. Questo Khammurabi, che con le sue vittorie unificò l'Impero babilonese, è l'Amrafel re di Scinar, di cui si parla nel Genesi (9). Il bassorilievo della stele rappresenta Khammurabi che riceve le leggi dal dio Sole; e lo scritto riproduce le leggi come furono da lui promulgate. Settecento di queste linee sono prese dalla descrizione dei titoli del potente monarca, e una decima parte del testo è rovinata, e non si può più leggere più. In ogni caso, il fatto che si tratta di un Codice che ci riporta nientemeno che a un tremila anni prima di Cristo, dà a questa stele, che il Louvre di Parigi ha la fortuna di possedere, una importanza notevole; ma quando riflettiamo che l'antica tradizione ebraica fa risalire proprio a questo medesimo periodo la migrazione di Abramo da Ur dei Caldei e ci presenta questo patriarca trionfatore proprio di questo stesso Khammurabi o Amrafel, l'interesse per questo monumento si fa più insolito che mai. Ma non basta, è evidente nel Codice mosaico, che fu compilato dopo di questo, una forte influenza delle leggi di Khammurabi.

 

Innegabile che nella Bibbia sia presente l'eco di altre legislazioni, di altre letterature, tutto materiale, preso da un'atmosfera satura di politeismo, ma che nella Bibbia è ricondotto in armonia perfetta con la grande idea monoteistica ed etica che è l'anima di tutto il testo, e testimonia inequivocabilmente che questo libro, che alcuni credono piovuto dal cielo, senza nesso con nesun altro libro, è invece un documento umano a cui dà vita un afflato divino, ma un documento umano, che appartiene a una grandiosa famiglia di altri documenti umani, e che tutti si ha il diritto e il dovere di indagare con gli stessi criteri con cui si indagano gli altri documenti.

 

Ho nominato Ur dei Caldei, e bisogna che se ne dica qui qualcosa. Si legge nel Genesi: Terah prese Abramo, suo figliuolo, e Lot, figliuolo di Haran, cioè figliuolo del suo figliuolo, e Sarai sua nuora, moglie d'Abramo suo figliuolo, e li menò via da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan.  Israel fu dunque, in origine, una tribù nordica migrata in Canaan. Ora il nome di questa Ur, città o regione che fosse, si trova ricordata quattro volte nell'Antico Testamento. Dove si trovasse esattamente, fino ad oggi si ignorava; oggi non più, grazie agli importanti scavi fatti nel 1923 – 1924, dalle due Commissioni unite del Museo Britannico di Londra e del Museo dell'Università di Pennsylvania negli Stati Uniti d'America. Ur è stata portata alla luce; le sue rovine si trovano nel punto in cui lo Shattal-Hai si getta nell'Eufrate, a circa centoventicinque miglia a nord ovest del Golfo Persiano; coprono uno spazio di circa un chilometro di lunghezza e ottocento metri di larghezza; la rovina principale è all'estremo nord, e consiste nei ruderi di una ziggurat o torre fatta a piani.

Ogni città importante dell'antica Mesopotamia si gloriava di possedere una ziggurat, ma tutte queste antiche torri a piani hanno sofferto enormemente: prima, per mano degli iconoclasti; poi, per mano delle popolazioni locali, le quali per migliaia d'anni, se ne servirono come di cave di mattoni per le loro fabbriche.

I piani, in queste ziggurat, erano curiosamente irregolari; e in mezzo alla piattaforma di cima stava un piccolo tempio, generalmente non più esistente. La ziggurat è, essenzialmente, una collina artificiale. Questo tipo di costruzioni originò dai primi abitatori del paese i quali, scendendo da una contrada montuosa nella pianura di alluvione della Mesopotamia, si trovarono nella impossibilità di adorare i loro dèi nel modo che avevano fatto i loro padri. Le loro divinità, generalmente parlando, erano divinità montane; è naturale che fosse così, trattandosi di un popolo montano; e si capisce che il posto naturale, per i loro tabernacoli, si trovasse sempre sopra un'altura. Ma poiché Babilonia dove essi scendevano a stanziarsi non aveva alture, questa gente compensò questa lacuna della natura, costruendo colline, che divennero le colline di dio, consacrate ad essere la residenza e il trono dell'iddio delle varie città.

 

Il 19 di novembre del 1931 il Times pubblicava un articolo col quale Sir Frederic G. Kenyon, già Direttore e Bibliotecario Principale del Museo Britannico, dava al mondo letterario la strabiliante notizia che un noto collezionista di codici antichi (10) aveva scoperto un meraviglioso gruppo di papiri biblici greci. Non si sa, ancora oggi, dove questi papiri sono stati ritrovati; ma il Kenyon suppone che possano provenire da qualche Biblioteca di una chiesa cristiana, o di un monastero, in Egitto. A dare un'idea della straordinaria importanza di questa scoperta basti dire che in questo gruppo di papiri sono rappresentati non meno di diciannove libri della Bibbia. Il quantitativo del testo conservato in questi papiri varia dai quarantaquattro fogli a doppia colonna di un manoscritto del Genesi a un unico frammento di pagina del testo di Geremia. In tutto sono circa centonovanta fogli, i quali non sono esenti da mutilazioni, ma pur danno un considerevole totale di testo utile e prezioso. In questo gruppo sono i manoscritti più antichi che si conoscano, della Bibbia greca. Alcuni di essi, difatti, risalgono al secondo secolo, ma la maggior parte sono del terzo secolo; uno è del quarto. Del Nuovo Testamento, fra questi papiri, c’è un codice frammentario, si suppone, ma la cosa non è certa né confermata, che quand'era completo, doveva comprendere i quattro Vangeli e gli Atti, ed è codice che risale al terzo secolo. Un altro manoscritto di questo gruppo è un codice, anch'esso frammentario, che originalmente doveva comprendere le Epistole paoliane, eccettuate le Pastorali, e appartiene anche esso al terzo secolo. Dieci fogli danno l'Apocalisse, dal Cap. IX. 10 al Cap. XVII, in un codice datato fine del terzo secolo.

Tanto, per i libri canonici della Bibbia greca; ma in questo gruppo appare un'altra novità, di valore immenso: ed è la gran parte del testo originale greco del libro apocrifo chiamato Libro di Enoch: vale a dire del più importante, forse, di tutti i libri apocalittici non canonici; che è citato nella Epistola canonica di San Giuda, e che fino a una quarantina d'anni fa era soltanto conosciuto in una versione etiopica (11).

 

Il testo del Libro di Enoch è presente nella sezione dedicata

Il Libro di Enoch

 

Ma è tempo di concludere; e concludo, tornando al punto di partenza di questa mia indagine. Dovevo narrare la storia di una vera e propria piccola biblioteca di sessantasei scritti, e invece ho parlato sempre di un libro solo.

Uno dei fatti che più colpiscono lo studioso della Bibbia è la grande varietà e al tempo stesso la vivente unità di questi scritti che, dall'arida genealogia vanno al volo ardito della lirica più calda ed ispirata. Qui i miti popolari, raccolti in età remotissime; qui la cronaca, la narrazione nuda dei fatti nel loro ordine cronologico; qui la storia, testimone dei tempi e maestra della vita; qui la filosofia della storia, che dei fatti indaga le origini, le ragioni ultime, gli effetti inevitabili; qui il poema filosofico a tesi, grandioso, simmetrico; qui la canzonetta erotica, che il popolo cantava nelle sue cerimonie nuziali; qui il semplice bigliettino di raccomandazione e la letterina calda d'affetto dell'amico all'amico; qui la smagliante visione apocalittica; qui la raccolta di proverbi, che riassumono la scienza della vita pratica di generazioni intere. E, nonostante questa immensa varietà, nonostante la spiccata fisionomia speciale di ciascuno di questi scritti, la Bibbia non è un agglomeramento di membra disunite tenute più o meno malamente assieme con qualche mezzo artificiale, ma una è, di una unità incontestabile.

Ora, come si spiega questa unità? C’è chi la spiega, dicendo: Essa nasce dal fatto che nella Bibbia abbiamo tutto quello che ci rimane dell'intera letteratura di una razza.

Atri, invece, spiegano la cosa dicendo: che la ragione dell'unità della Bibbia sia in quella nota particolare, che tutti i libri hanno in comune.

Personalmente ritengo che la ragione della unità della Bibbia sia da ricercare altrove; forse nel fatto incontestabile che in tutte le parti della Bibbia aleggia un unico ideale, palpita una unica persona, vi aleggia un l'ideale preciso, il trionfo del Bene in tutte le estrinsecazioni della vita.

Questo libro è una cattedrale!

 

 

1. 1825-1905.

2. 1775-1853.

3. 1810-1895.

4. Susiana era il nome del paese di Elam che aveva per capitale Susa, a oriente della Caldea e al nord del Golfo Persico.

5. 521-485 av. Cr.

6. 727-699 ay. Cr.

7. 333 ay. Cr.

8. Queste tavolette furono scoperte a Ninive, tra le rovine della Biblioteca di Asshurbanipal, nel 1872.

9. Gen. XIV.1

10. Certo A. Chester Beatty.

11. Nel 1892 il Bouriant pubblicò il testo greco dei primi trentacinque capitoli del libro, tratti da un manoscritto membranaceo scoperto in Egitto. Ora a questo codice del Bouriant il nuovo codice papiraceo di Chester Beatty aggiunge una considerevole parte del resto del libro. Esso appartiene al quinto secolo, se pure, come potrebbero indurre a credere la forma pesante, senza eleganza, dello scritto e i molti errori di ortografia, non sia opera di qualche scriba inesperto del secolo precedente.

 

Il Libro dei Libri

Nei suoi manoscritti - Nelle sue Traduzioni - Fra le rovine dei Templi