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Roma ereditò il culto del pballus dall'Egitto e dalla Grecia, insieme a tutte le religioni pagane, e mantenne integre, per non breve tempo, le forme esteriori della venerazione, sia nei riti dei Misteri e delle iniziazioni, sia nelle numerose feste istituite.

Ma già parecchi secoli prima, quasi inavvertitamente, si era incominciato a perdere la pura concezione filosofica dell'antico simbolo fallico e ad accettare, in sua vece, un significato a grado a grado più ristretto e più materiale.

Nelle città dell'Ellesponto e della Propontide si era andata diffondendo la venerazione di una Divinità nuova, legata senza dubbio all'antica idea del Lingam, ma del tutto umanizzata e personificata in una delle innumerevoli deità pagane.

Priapo, dio della fecondità animale e del germoglio campestre, nato da Bacco e da Venere, offriva alla mentalità contemporanea una concezione più accessibile che non il significato filosofico del «principio attivo della natura» o della «morte cabirica» o del «mistero d'Osiride», e con facilità si sovrapponeva e si sostituiva all'idea originaria della virtù spermatica dell'Universo.

Nell'idea religiosa il phallus andava man mano assumendo, per sé stesso, l'espressione della forza fecondatrice, identificata nella virtù divina attribuita a Priapo.

Il Dio era tutto intero nella figura del fallo eretto, e il fallo era lo stesso Priapo nella sua divinità mostruosa e oscena. L'elemento occulto e divino andavasi confondendo con l'elemento sessuale: il lato lascivo andava conquistando attribuzioni divine che ne promovevano l'esibizione e ne incitavano il culto. Qualsiasi orgia compiuta alla presenza di Priapo e sotto la sua protezione, non poteva non possedere un carattere sacro.

Per la comprensione della nuova deità e per il rapido sviluppo del suo culto, era stata più che efficace la leggenda che aveva introdotto fra gli Dei il mostruoso patrono del germoglio vegetale e della fecondità animale.

Secondo la leggenda, riportata da Apollonio, Priapo era nato dal connubio di Adone e di Venere, la quale durante un viaggio di Bacco in India, si compiacque giacere col bellissimo suo amante. Ma Giunone, presa da gelosia, camuffatasi da vecchia e fingendo di dar aiuto a Venere nel parto, toccò con la mano avvelenata l'utero delta Dea partoriente e fece si che il fanciullo nascesse mostruosamente gobbo e col pene di smisurata grandezza. Venere, vergognandosi di un figlio così brutto, lo lasciò a Làmpsaco, nell' Ellesponto; ma, cominciando le donne di quella città a mostrare forte simpatia per quel Dio adulterino dal membro enorme, i mariti, gelosi, pensarono di scacciarlo. Furono però puniti da lui con una malattia che li umiliava innanzi alle mogli. Costretti così a propiziarselo, cominciarono a diffondere il suo culto, come protettore della forza sessuale maschile, sacrificandogli l'asino, che egli odiava perché gli faceva una temibile concorrenza per le proporzioni del suo membro.

Preceduto da questa leggenda e basato essenzialmente su di essa, il culto di Priapo aveva fatto il suo ingresso nell'Italia pre-romana, diffondendosi rapidamente.

Ed ecco che pelasgi, jonici, etruschi, sanniti, sabini, ernici, pompeiani, non costruiscono una casa, un monumento, un'opera d'arte, senza omettere il simbolo priapèjo, costituito da un fallo, che doveva mantenere propizia la potente virtù del Dio.

Nell'isola di Santorino (Egeo) é tuttora scolpito su un muro un grosso fallo sotto il quale è scritto: toij filoij, come un cordiale saluto augurale al passante che avrebbe potuto leggere anche a distanza di secoli.

Sull'Acropoli etrusco-pelasgica, che si erge in mezzo alla città di Alatri, nel Lazio, si osservano tracce di un emblema fallico in altorilievo, scolpito sull'architrave granitico di una delle porte. Sono tre falli poderosi: due posti, l'uno di fronte all'altro, in posizione orizzontale, e il terzo più sotto in posizione verticale, eretto fra le punte dei primi due! Che cosa esprime questo solenne emblema fallico se non un atto di culto verso il Dio Priapo, che doveva tutelare la città dall'invidia, spargere nelle campagne e negli orti la sua virtù fecondatrice e infondere in tutto il popolo un magnifico vigore sessuale affinché nascesse forte e numerosa la figliolanza? Costruita l'Acropoli, per difesa e per tempio, quale marchio più potente e augurale di un triplice fallo poteva suggellarla e consacrarla nei secoli?

Nell'Etruria e specialmente a Fiesole, il simbolo fallico trovasi di frequente sui muri e forse era scolpito su quasi tutte le case private, al pari che in innumerevoli opere d'arte giunte fino a noi. Emblemi fallici si scoprono molto spesso sugli antichi sepolcri di Volterra, di Castel d'Asso, di Chiusi, di Orvieto, di quasi tutte le città dell'Etruria.

Molti vasi rinvenuti a Tarquinia sono ornati con falli, in artistiche figurazioni, anche in atto di accoppiamento sessuale, con l'evidente intenzione di onorare a virtù di Priapo. Non mancano in Etruria nemmeno monumenti sepolcrali modellati sul tipo delle stele attiche e delle erme con la cima arrotondata, ad imitazione dei pali scolpiti trovati nello Yucatan.

Giovenale parla di un antico bicchiere di vetro, in forma di fallo, detto phallovitrobulus (Priapus ex vitro) che serviva per brindisi orgiastici e per cerimonie dionisiache.

La 94° tavola delle Antichità d'Ercolano mostra, dal canto suo, un fallo alato con la metà del corpo posteriore d'un cavallo. Quattro campanelle sono appese a questo fallo, forse per bizzarro ornamento, mentre la parte posteriore del corpo equino esprime con evidenza l'atto dell'erezione del pene. Un'altra tavola presenta ancora due falli alati con la parte posteriore di un leone nella stessa posa.

Gli scavi di Pompei attestano, in maniera più evidente il culto di Priapo, nell'epoca pre-romana. Il membro virile trovasi effigiato o appeso da per tutto a mo' di gingillo, in molti oggetti di uso comune, in pitture, statuette e ninnoli. Interessante, fra gli altri, il fallo scolpito su un pilastro che faceva parte di una casa della strada principale. Questo fallo, conservato interamente, misura la lunghezza di otto o nove piedi ed è certo una manifestazione del culto di Priapo, malgrado che parecchi abbiano ravvisata in quella strana asta inalberata, l'insegna di un lupanare che esisteva lì presso, allo svolto della strada. Anche le figure che adornano, artisticamente, le pareti delle cinque o sei camerette che formano l'accennato lupanare, non possono essere che manifestazioni di culto al Dio della fecondità animale, in un luogo che era quasi il suo tempio: manifestazioni di culto che ad ogni modo coprivano molto opportunamente le naturali intenzioni oscene dei frequentatori del luogo, dinanzi agli occhi dei censori e degli edili.

Attraverso questa deturpazione dell' antico principio filosofico-religioso, dovuta all'influsso del Dio Priapo, il culto fallico venne importato a Roma.

L'impronta della concezione pagana e il lato osceno già preponderante, avevano fatto obliare gran parte del puro concetto mistico dell'emblema.

Le feste Dionisiache, importate dall'Egitto e dalla Grecia e ripetute integralmente, si prestavano a meraviglia per lo sviluppo del culto fallico, in un senso prevalentemente lascivo e corrotto.

Nella coscienza popolare, in cui era già penetrato il significato profondo che legava il mito di Diòniso ai fenomeni della natura, l'idea mistica dell'emblema della fecondità e della forza generatrice, aveva trovato il campo più propizio per confondersi tenebrosamente e animalizzarsi in una sintesi pagana e assurda che divinizzava la forza sessuale, considerava culto l'atto osceno, attribuiva poteri misteriosi alla virtù divina manifestata nel fallo.

Soprattutto l'occulto potere posseduto dall'emblema priapéo, parve conquistare più rapidamente la coscienza superstiziosa dei Romani.

La falloforia e le altre cerimonie ithyfalliche anziché essere dirette, nell'intenzione, ad onorare ed a commemorare la divinità, parvero intese piuttosto ad uno scopo di propiziazione della virtù divina attribuita a Priapo, contro la potenza maligna delta gelosia e dell'invidia. Il fallo, portato su carri processionalmente, doveva, mediante i suoi occulti poteri, allontanare i malanni dalla campagna, dagli armenti, dagli uomini. Priapo non proteggeva che i suoi devoti e principalmente quelli che gli manifestavano maggiore e più assidua devozione.

Ed ecco che accanto alle manifestazioni collettive che avevano luogo nei baccanali, nei misteri, nelle frequenti falloforie, e, oltre i particolari riti assegnati alle Vestali (che conservavano anche il simbolo fallico fra le cose sacre!), s'era andato diffondendo un culto anche individuale, da parte di ciascun devoto, sicché Priapo, ben presto, venne ammesso fra gli Dei Lari. Il suo simbolo, detto fascinum, costituito da un piccolo fallo di legno, di osso, di ambra, di oro, portato indosso era il più potente amuleto che si potesse avere! Chi aveva con sé il fascinum, poteva contare con assoluta certezza sull'immunità da ogni malanno, specialmente dalla fascinazione, dalla jettatura, dalla gelosia, dagli invidiosi. Sotto questo aspetto, Priapo era principalmente, il patrono dei fanciulli e degli Imperatori, ma la sua azione benefica si estendeva alle donne, agli adulti, agli animali, agli orti.

La maggior parte delle alcove tenevano dipinto o appeso al muro, o collocato su una mensola, come gingillo, un fallo di discrete proporzioni che doveva rendere innocua l'invidia contro gli sposi, allontanare dal marito l'impotenza e la debolezza, dalla moglie la sterilità, e far generare forte e numerosa figliolanza.

Ai fanciulli ponevasi addosso l'amuleto rappresentato dal fallo; amuleto che, d'ordinario figurava coniato in una medaglietta o incluso nella bulla, piccolo astuccio, composto di due lamine metalliche, rotonde, concave, simili a vetri d'orologio. Le bullae erano portate dai pueri ingenui fino a quando deponevano la toga pretesta, e dalle ragazze fino a quando andavano a marito. Bullae in forma di mezzaluna, di stelletta, di cuore, di fiore, erano preferite dalle fanciulle anche per civetteria, oltre che per difesa contro il mal d'amore. Ma non mancano prove archeologiche per far ritenere che le bulle fossero portate indistintamente anche dagli adulti e specialmente dalle donne.

Gli uomini, per garantirsi dal malocchio, portavano il fascinum, alla cintura, alle dita, al collo, inseparabilmente, al pari degli Imperatori che, nei trionfi di guerra, attaccavano al carro trionfale la potente bulla, o anche inalberavano su di esso il fallo riprodotto in legno o in metallo.

Ma più caratteristico e più diffuso era il fascinum portato dalle donne. Poiché Priapo difendeva dalla fascinatio, dal mal d'amore, dalla sterilità, dai cattivi matrimoni, il fallo, che era il suo simbolo anzi lo stesso Priapo, non doveva mai mancare al sesso gentile!

I Musei di Aquileja e di altre città, conservano ricche raccolte di questi curiosi gingilli, graziosamente riprodotti in osso, in legno, in ambra, in oro, che le donne romane portavano alle orecchie come pendenti, alle dita come anelli, ai polsi come braccialetti e più spesso legati al collo con una catenina.

Per proprio conto le donne, specialmente quelle che erano prossime a prendere marito, andavano alquanto più oltre nel culto del fallo. Ritirate religiosamente nel recondito Larario (Lararium), che non mancava ad alcuna casa, lontane dagli occhi indiscreti, esse ricorrevano alla potenza infallibile di Priapo, perché le assistesse e le preparasse al gran passo del matrimonio.

Nel Larario, il fallo, simbolo di Priapo, spiccava fra le altre divinità domestiche. Il raccoglimento del luogo facilitava ogni confidenza, accresceva la fiducia, spingeva a pratiche di fervente fanatismo. Talune, dopo aver inghirlandato di freschi fiori l'emblema di Priapo, giungevano a confidenze anche maggiori, fino a sedersi devotamente su di esso, come per offrirgli il proprio corpo e per facilitare ed attivare la sua potente virtù col più intimo contatto.

Sennonché, lateralmente a questo decadimento del culto fallico verso una forma quasi del tutto superstiziosa, era inevitabile che prevalesse anche la corrente oscena e sensuale, che, fin dal primo apparire del culto di Priapo, aveva inquinato il puro concetto filosofico-religioso degli antichi.

Molto influirono su questa decadenza il culto di Bacco e di Venere Ciprigna, con le frequenti feste e con i tenebrosi misteri; le strane e oscene solennità lupercali e la turba famelica delle meretrici di ogni bordo e di ogni colore che, affluendo da tutti i paesi conquistati, aveva infestata Roma.

Tutto ciò costituiva ormai l'ambiente e il quadro di sfondo del culto fallico.

T. Livio dice che la corruttela progrediva di pari passo con i Baccanali. Le Orgie notturne in onore di Bacco, dette Nittelie, erano frequentissime. Un sacerdote greco, predicando misteriose dottrine, aveva introdotto nei misteri bacchici, già per se stessi dissoluti, forme strane di sensualità, dando, così, larga diffusione al culto. Tali innovazioni attirarono molto il popolo e specialmente donne e giovani licenziosi.

Si cominciò a superare ogni limite.

Se le feste dionisiache diurne incitavano all'allegria, alla sfrenatezza, alla scurrilità, le notturne promovevano le forme di libertinaggio più oscene.

Il Senato, nel 186 ay. C., dovette anzi intervenire, impedendo tutte le feste bacchiche, per porre freno alle nefandezze che vi si commettevano. Ma sotto gli Imperatori, le orgie dionisiache furono ripristinate, con maggiore libertà e dissolutezza.

Priapo, preso ormai e concepito nella sua manifestazione fallica, trionfava. Esso costituiva la Deità scurrile e oscena, per la quale ogni forma erotica e lussuriosa pareva assumere un carattere sacro. Per il suo culto, quindi, tutto era permesso, mentre lo stesso Priapo presiedeva alle orgie e le accettava, infondendo e comunicando ai fedeli il suo potere misterioso.

Non v'era perciò alcun freno alle nefandezze; la lussuria aveva preso il posto della stessa religione, identificandosi e confondendosi con essa.

Dal canto loro, le antiche feste lupercali, promovevano nelle campagne ciò che le feste bacchiche facilitavano nelle città.

Le feste dei Luperci si celebravano in onore di Pane Liceo, Dio dei pastori della vegetazione, della germinazione, spesso confuso e identificato con Priapo. Queste feste parevano aver ereditato, in forma corrotta e volgare, il principio filosofico della “forza attiva della natura”:ad esse infatti veniva attribuita una segreta e misteriosa influenza sulla forza naturale e animale della procreazione.

Anche nelle lupercali si commettevano le più oscene stranezze. Fra l'altro, si scannavano capre, e dopo di aver toccato la fronte di giovanetti col coltello insanguinato, si tagliavano le pelli delle vittime in tante coregge che servivano poi da staffile per le donne. I luperci, nudi o coperti appena di qualche pelle di capra, correvano pazzamente staffilando le donne che accettavano le percosse di buon grado, ritenendo che facilitassero loro la gravidanza e il parto. A queste e ad altre strane pratiche veniva attribuita una misteriosa influenza sulle forze del mondo vegetale e animale: corruzione evidente dell'originario potere riconosciuto nel simbolo fallico.

Ma al completo decadimento del culto, contribuì in massima parte, la gamma delle meretrici di tutti i ranghi che infestavano Roma.

É facile comprendere sotto quale aspetto, queste fameliche sacerdotesse di Venere, intendessero il culto fallico, e quale reale intenzione dessero al simbolo di Priapo. I lupanari abbondavano di queste figure; ma nessuno ha stentato a vedere in esse altro significato all'infuori di espressioni oscene e lubriche. II fallo pareva diventato l'emblema del meretricio, tanto che una categoria di prostitute, dette alicariae, che adescavano i passanti sulle porte dei fornai, offrivano ad essi una speciale focaccia detta coliphium, fatta in forma di membro virile. Era come la caratteristica tessera che le faceva riconoscere ed entrare in rapporto con gli avventori.

Un'altra categoria di meretrici, le lupae, esercitavano il loro mestiere per le campagne e per i boschi, forse al seguito dei luperci: esse attiravano i carrettieri, i contadini, i boscaioli con un ululato caratteristico che aveva loro procurato il nome di lupae, e, in antri rocciosi o in capanne, che costituivano i templi di queste Deità boscherecce, esercitavano il culto del loro Priapo o Pane, di cui parevano assumere le funzioni di sacerdotesse.

Quelle di alto bordo, invece, cariche di oro e di pietre preziose, simulando esagerata superstizione, ostentavano l'emblema fallico d'oro o di ambra, che in realtà rappresentava la loro efficace insegna.

A tanto venne avvilito in Roma il culto del «principio attivo dell'Universo e dell'e Emblema della fecondità».

Perduta l'idea della concezione filosofica, sorpassati i limiti in cui il culto poteva trovare una giustificazione nel simbolo o nella leggenda mitologica, la sentina delle corruttele e delle oscenità, che s'era prodotta in Roma, aprì la degna tomba a tutte le cerimonie dionisiache e priapee, mentre a cancellare e a diradare i misteri oscuri e licenziosi delle divinità pagane, si levava già l'alba pura e immacolata del Cristianesimo.

Sono giunti fino a noi, e perdurano tuttora, notissimi a tutti, non pochi residui del culto fallico specialmente sotto l'aspetto superstizioso; ma – tranne che in India - ogni idea del culto come si svolse in Egitto, in Samotracia, in Grecia, nell'Ellesponto, a Roma, è completamente perduta.

Appena é stato possibile compilare, con lunghe e pazienti ricerche, la presente monografia riassuntiva.

 


Il Culto fallico nell'antichità

Le origini e i simboli - Il Culto in Egitto - Il Culto a Roma -