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 di Arturo Reghini

 

Diversi anni or sono Luigi Valli dava alle stampe: «La Chiave della Divina Commedia» in cui, procedendo felicemente lungo la linea interpretativa divinata dal Foscolo e poi seguita da Gabriele Rossetti, dal Perez, dal Pascoli e da qualche altro, riesciva a porre in evidenza trenta armonie tra l'Aquila e la Croce nel poema sacro, ed a rintracciare, almeno in parte, la dottrina nascosta sotto il velame delli versi strani. Il pensiero esposto e simultaneamente occultato da Dante sarebbe, molto sinteticamente, questo: La Croce si è mostrata impotente a redimere di fatto l'umanità e non può redimerla da sola.

 Occorre il concorso dell'Aquila, ossia dell'autorità e della giustizia imperiale, occorre ristabilire l'Impero, ritogliere alla Chiesa l'infausta dote datale da Costantino; avrà allora fine senz'altro la corruzione della Chiesa e l'umanità, grazie alla doppia virtù della Croce e dell'Aquila, potrà effettivamente salvarsi. Dante proclamava apertamente che sulla cattedra di San Pietro stavano degli indegni usurpatori, dei predicatori di ciancie, che non possedevano il verace intendimento dato da Cristo al suo primo convento; e velatamente aggiungeva che sul carro della Chiesa stava seduta la meretrice apocalittica, riconosceva il fallimento della predicazione della Croce e la necessità dell'intervento dell'Aquila imperiale per salvare l'umanità. Questa concezione ardita e per certo cattolicamente poco ortodossa inspirava non soltanto gli scritti ma anche l'azione di Dante, intesa ad attuare il suo programma mediante le armi dei Templari dapprima, e poi dell'Imperatore.

 

Seguendo logicamente il filo di questi studi Luigi Valli successivamente pubblicava un poderoso volume, estremamente importante ed interessante, intitolato: «Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore». I primi secoli della letteratura italiana e tutta la storia e le lotte di quei tempi sono l'oggetto di questo studio, e si presentano sotto una luce ed un aspetto dai più sino ad ora insospettato ed inaspettato. Con un lavoro paziente, metodico, scientifico ed imponente il Valli, riprendendo l'opera incompresa e negletta del Rossetti, appura e dimostra l'esistenza sin dagli inizi della letteratura italiana di un linguaggio segreto, il gergo dei Fedeli d'Amore; ne decifra il senso, la molteplice allegoria dottrinale, settaria e politica, e riporta alla luce tutto un grandioso movimento, inspirato dalla «tradizione iniziatica» e nemico acerrimo della Chiesa di Roma.

 

Non potendo neppure succintamente riassumere le vicende di questa grandiosa lotta diremo solo come, attraverso questa comprensione, i poeti d'amore, gli scrittori del «dolce stil novo», che sembravano stranamente perdersi a cantare di un loro amore assurdo, manierato ed inconsistente, si trasfigurano in lottatori formidabili, in ardenti paladini della loro Fede Santa. Grandeggiano drammaticamente su tutti le nobilissime figure di Cecco d'Ascoli e di Dante Alighieri, questi tanto più grande quanto più sia compreso. Noi esterniamo a Luigi Valli la nostra ammirazione e la nostra riconoscenza; la sua opera costituisce, come l'abbiamo intesa definire, uno «spezzone di gelatina», e per quanto contro di essa si sono coalizzati il misoneismo miope e pigro della «critica positiva», le vestali dell'estetica pura e gli accorgimenti degli interessati, la luce è ormai fatta e finirà con l'imporsi.

L'amore di cui ardeva il cuore dei Fedeli d'Amore è affine all'amore mistico della letteratura persiana ed a quello del «Cantico dei Cantici». Gabriele Rossetti lo ricollegava senz'altro all'amore platonico, il che darebbe un carattere pagano al movimento. Il Valli dimostra che la «rosa», il «fiore», la «donna», che è sotto vari nomi l'unico oggetto di questo amore, è l'intelligenza attiva, che innamora di sé l'intelletto possibile; è, come canta Dina Compagni:  

 

L'amorosa Madonna Intelligenza

che fa nell'alma la sua residenza

che co' la sua bieltà m'ha innamorato.

 

Al cumulo delle prove rinvenute in proposito, o riportate, dal Valli, se ne potrebbero aggiungere altre assai; questa, per esempio: Dante sin dal principio della «Commedia» parla della  divina potestate,  la somma sapienza e il primo amore, ponendo il suo «amore» in una triade che corrisponde perfettamente - nella Qabalah - alla triade delle più elevate Sephiroth: Kether, H’ocmâ, Binâ, ossia la Corona, la Sapienza e l'Intelligenza.

Se questa è la donna, la domina, dei Fedeli d'Amore, è perfettamente logico che Francesco da Barberino nei suoi «Documenti di Amore» ponga la docilitas, la docilità (da docere, ammaestrare), per prima tra le dodici virtù, che l'Amore deve risvegliare nei novizi. La tradizione che pone tra i primi requisiti dell'iniziando questa docilità si è trasmessa sino a noi, come risulta ad esempio da quanto dice e riporta A. Reghini alle pp. 106-108 del suo libro sulle «Parole sacre e di Passo». Anche la parola disciplina ha il duplice senso di scienza e di costrizione; ed il tedesco gelehrig corrisponde per la sua polisemia al latino docilis.

 

La trasmissione del linguaggio segreto dei Fedeli di Amore in quello di sette e movimenti posteriori è stata riconosciuta, oltreché dal Valli e prima di lui, dal Rossetti e dall'Aroux, i quali anzi si spinsero troppo oltre su questa via e furono talora fuorviati dall'intento di volere riconoscere le concordanze tra i vari gerghi settari; ma la concordanza esiste in parte indubbiamente, ed induce a porre il problema della trasmissione, non del solo gergo settario, ma della stessa dottrina tradizionale.

Anche noi, col Valli, riteniamo che il Rossetti, primo sistematico scopritore del gergo settario dei Fedeli d'Amore, fu condotto alla sua interpretazione dalla conoscenza di antiche tradizioni segrete. Se la memoria non ci inganna, il suo «Mistero dell'Amor platonico nel Medio Evo» è dedicato a B. L., che è molto verisimilmente Bulwer Lytton, l'autore di «Zanoni», che oltre ad avere una profonda erudizione esoterica, era anche un esperto conoscitore della lingua e della letteratura italiana. Si può forse pensare che il Rossetti sia stato indotto ed avviato dal Bulwer Lytton allo studio sistematico del gergo settario medioevale, studio felicemente ripreso dal Valli, che è pervenuto ad emendare, estendere e completare i risultati conseguiti dal Rossetti nel secolo scorso.

 

Abbiamo veduto che l'Amore è l'«Intelligenza attiva», è, come dice Dante nell'ultimo verso della Commedia, l'Amor che move il Sole e l'altre stelle. Nell'intelletto possibile del Fedele d'Amore questa intelligenza attiva è desta ed attiva, nei profani è dormiente ed inoperosa. Coerentemente secondo il Valli (op. cit. p. 172), nel gergo settario dormire significa essere nell'errore, essere lontano dalla verità, ed in particolare appartenere alla Chiesa di Roma. È il simbolismo adoperato da Dante negli ultimi canti del Purgatorio, in cui all'immersione nel fiume Lete, il fiume del sonno o dell'oblio, succede quella nell'Eunoè, in virtù della quale come pianta novella (neofita) rinnovellata di novella fronda, Dante diviene puro e disposto a salire alle stelle, ossia capace di assurgere al «regno dei cieli». Come è noto, si tratta di un simbolismo pagano, adoperato da Virgilio e da Platone, e che si ritrova sin nel più antico orfismo e nei Misteri eleusini; ivi al fiume Lete, che travolge la coscienza degli uomini, è contrapposta la fresca sorgente della Memoria o la virtù mnemonica del melograno, che dona il risveglio e l'immortalità. L'anàmnesi platonica, il ricordo, si identifica alla conoscenza, e corrispondentemente la verità, la aleteia, è la negazione, il superamento, del Lete. Il conseguimento della verità è una conquista della coscienza sopra il sonno e la morte; occorre giungere a mantenere la continuità della coscienza anche attraverso il sonno e la morte.

L'Amore in senso iniziatico ha dunque la capacità di sottrarre al sonno ed alla morte, dando al Fedele d'Amore una vita nuova. Ciò si raggiunge per gradi di perfezionamento successivo.

 

Nei «Documenti di Amore» di Francesco da Barberino, nei primi gradi il Fedele d'Amore è rappresentato trafitto dal dardo d'Amore e negli ultimi è rappresentato con delle rose in mano (Valli, op. cit., pag. 249). In una delle dodici figure dell'«Azoth» di Basilio Valentino si ritrova il simbolismo del dardo. Ma l'affinità tra il simbolismo d'amore e quello ermetico ed il legame tra le due tradizioni risultano ancor più manifesti per la presenza del Rebis ermetico in uno dei disegni che illustrano i «Documenti di Amore» di Francesco da Barberino. Il Rebis, o androgino ermetico, è un caratteristico ed importantissimo simbolo ermetico, simbolo e termine di cui abbiamo brevemente tracciato la storia nel nostro scritto sopra «Un codice alchemico italiano»; la figura del Rebis riprodotta dal Valli (op. cit., p. 247) risale al tempo di Dante ed è più antica di alcuni secoli di quelle che abbiamo rintracciato nei libri di ermetismo.

Altre concordanze col simbolismo e con la terminologia ermetica si ritrovano nei versi di un oscuro poeta di amore, Nicolò dei Rossi, il quale in una sua canzone esprime «i gradi e la virtude del vero amore». Questi gradi son quattro:

  • Il primo si chiama liquefatio la quale si oppone alla congelazione.

  • Il secondo grado si chiama languor,

  • Il terzo zelus,

  • Nel quarto l'amore attinge la somma gerarchia mediante l'estasi od excessus mentis (cfr. Valli op. cit., pp. 97. 191).

Si comprende dunque come una delle piu importanti opere della letteratura d'amore, il «Roman de la Rose» (di cui il «Fiore» è la versione italiana dovuta ad un Durante fiorentino che è quasi sicuramente Dante), tratti esplicitamente di alchimia e venga catalogato nella letteratura alchemica. Questa rosa cantata con così commovente accordo da tutti questi poeti, a cominciare da Ciullo l'Alcamo, la candida rosa dantesca, è evidentemente affine, se non identica, alla rosa ermetica dei Rosa-croce.

Una importante conferma di questa assimilazione ed affinità tra ermetismo e Fedeli d'Amore ci è offerta dal quarto dei così detti «gradi templari» della Massoneria sorti in Francia od in Germania verso la metà del XVIII secolo. Si tratta dei Princes de Mercy, detti anche Cavalieri del Delta sacro, e designati anche in altro modo. Loro compito, dice il rituale, è «custodire con fedeltà il tesoro della sapienza tradizionale, sempre velandolo a coloro che non sappiano penetrare nel terzo cielo». Terzo cielo è il nome del loro tempio ed è, come tutti sanno, il cielo di Venere. Notiamo peraltro che nell'orfismo e nel pitagoreismo il terzo cielo era l'ultimo. Filolao infatti dice che i cieli sono tre: Urano, il cosmo e l'Olimpo. Il terzo cielo, l'Olimpo, è la dimora degli Dèi, e San Paolo si riferiva a questa classificazione orfico-pitagorica dei cieli quando raccontava di essere stato rapito al terzo cielo.

 

Ora l'«Intelligenza» di Dino Compagni, scrive il Valli (op. cit. p. 186), «sta in un palazzo dove i diversi ambienti rappresentano probabilmente gradi di iniziazione, e in quel palazzo il terzo loco è lo salutatorio... richiamandoci alle frequenti allusioni al terzo cielo o al terzo grado, che nel cielo materiale è il cielo di Venere, ma nel simbolo significò assai probabilmente la setta o un grado superiore della sua iniziazione».

I Principi di Mercede «pervengono mediante la loro triplice virtù a sollevare il velo della verità»; e si chiamano perciò beni émeth, i figli della Verità. Tra i simboli caratteristici del grado figura il Palladio dell'Ordine, ossia «la statua della Verità, ignuda e coperta di un velo tricolore ». Questi tre colori che ricompaiono nella decorazione del Tempio ed in altri simboli del grado sono il verde, il bianco ed il rosso, i tre colori ermetici, i tre colori di cui Dante adorna la sua Beatrice (Purg. XXX, 31-33).

 

Il simbolismo numerico del grado si basa sul numero tre e le sue potenze; il Delta sacro o Delta luminoso è uno dei suoi simboli principali. La parola émeth, verità, consta di tre lettere, la prima, la mediana, e l'ultima dell'alfabeto ebraico. Il suo valore numerico è 441, ossia nove. Sul trono stanno nove luci. Nel tempio stanno nove colonne, ciascheduna delle quali porta un candelabro a nove luci; ossia in tutto vi sono 81 luci. L'età di 81 anni è l'età rituale. Non staremo a ricordare quale importanza annetta Dante al tre ed al nove, e con quanta frequenza il numero nove ricorra nella «Vita Nuova»: il Valli riporta (op. cit., p. 273) dei versi in cui Jacopo da Lentini propone che «le mercé siano strette... né dagli amadori chiamate infino che compie anni nove».

 

E, quanto al numero 81, il Valli ha già riportato il seguente strano ed ardito passo di Dante che nel «Convivio» scrive precisamente così: «...Platone, del quale «ottimamente si può dire che fosse maturato... vivette ottantuno anno... E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe a li ottantuno anno di mortale corpo in eternale trasmutato» (IV, XXIV); ossia, se ecc. ..., sarebbe giunto all'età rituale dei Cavalieri del Delta sacro. Naturalmente Dante nella «Vita Nuova» fa morire Beatrice nel nono giorno del mese di giugno del 1281; ed ha cura di specificare che in Siria il mese di giugno è il nono, e che Beatrice era morta quando «lo perfetto numero nove volte era compiuto» nel terzo decimo secolo, ossia nel 1281.

Tra i simboli di questo grado che si riconnettono al simbolismo dei «Fedeli d'Amore» notiamo ancora la freccia che sta sul trono dell'Eccellentissimo (il presidente della camera), che è evidentemente il dardo che Francesco da Barberino pone in mano di Amore nella prima figura dei suoi «Documenti di Amore» (cfr. Valli, pp. 237-249). Questa freccia è di legno bianco ed ha le piume dipinte parte in verde e parte in rosso, e la punta ha d'oro.

 

Altro simbolo del grado è costituito da due frecce, i due dardi d'Amore della tradizione (cfr. Valli, p. 362), uno d'oro, l'altro di piombo: i due dardi della canzone dantesca: «Tre donne intorno al cor mi sono venute». Per piu ampie notizie sopra questo argomento rimandiamo al Manuale di Andres Cassard (New-York, 1871. 6ª ed., p. 381 sgg). Ed infine occorre appena accennare come l'unica Fenice, di cui si fa un continuo parlare nella poesia dei Fedeli d'Amore e che, come mostra il Valli, rappresenta l'organizzazione e la tradizione iniziatica sempre rinascente, non sia altro che uno dei più importanti simboli dell'ermetismo, il simbolo dell'opera al rosso. La purpurea Fenice rinasce e vive tra le fiamme del «fuoco filosofico», come il Fedele di Amore ardendo di santo zelo (lo zelus di Nicolò dei Rossi) rinasce alla vita nuova mediante l'excessus mentis.

 

Altri numerosi raffronti si potrebbero stabilire tra il gergo settario decifrato dal Valli ed il linguaggio simbolico degli ermetisti; tra il simbolismo della dottrina d'Amore e dei movimenti affini e derivati. Raffronti che costituiscono un indizio e forse una prova della esistenza e della continuità di una tradizione iniziatica che risale al Medioevo. A differenza del Valli, noi facciamo peraltro molte riserve circa la purezza del carattere cristiano di tale tradizione. Quando si incomincia a riconoscere la esistenza di un «Falso sembiante», in una organizzazione segreta, procedente per gradi, è lecito dubitare che se amor e cor gentil sono una cosa, la parola gentile possa anche avere il senso che ha in latin sangue gentile; e che, se Dante prende da Virgilio lo bello stile, Virgilio possa rappresentare anche l'iniziazione pagana. Ma avremo occasione di ritornare su questi problemi; per ora ci limitiamo a notare come il Boccaccio, che il Valli ci mostra esaltatore dei Templari, il Boccaccio autore di una «Genealogia degli Dei», nella decima novella del Decamerone si faccia beffe della resurrezione della carne, proprio cioè di quello stesso insegnamento di cui si fecero beffe gli Ateniesi, dicendo a San Paolo: «Su questo ti sentiremo un'altra volta». Ricordiamo, a proposito del Boccaccio, che nella sua terza novella egli fa dire a Melchisedech che tra il giudaismo, il cristianesimo e l'islamismo «nessuno sa quale sia la vera fede». Che il Boccaccio metta frasi di questo genere proprio in bocca a Melchisedech, che occupa una posizione di primo ordine nella tradizione e nella gerarchia esoterica, è cosa che può far riflettere assai e può far sospettare quale fosse l'unica Fenice che con Sion congiunse l'Appennino, come dice un sonetto che va sotto il nome di Cino da Pistoia.

 

Un'ultima osservazione. In un nostro precedente scritto sulla Conoscenza del simbolo avemmo occasione di citare un passo del «Convivio», da cui risulta come secondo Dante nel linguaggio allegorico i sensi da considerare fossero quattro, corrispondenti forse ai quattro gradi del rito e dell'organizzazione. Di questi quattro sensi il più importante, per noi, è l'ultimo, ossia il senso anagogico. Naturalmente questo senso spirituale, che si riferisce alla tecnica del perfezionamento spirituale, non può essere inteso e talora semplicemente intraveduto, senza la esperienza tecnica personale: intender non lo può chi non lo prova, dice Dante. Ed è per questo che esso è sfuggito quasi sempre a coloro che sino ad ora si sono occupati del linguaggio segreto dei Fedeli d'Amore, a differenza del senso che potremmo chiamare sinagogico. Per esempio, dormire significa allegoricamente vivere nell'ignoranza, nell'inerzia dell'intelletto, moralmente significa non partecipare al lavoro dell'organizzazione, anagogicamente lo stato opposto a quello del Risveglio iniziatico. Il Valli sostiene che, mentre la «Vita Nuova» è scritta in cifra, Dante ha abbandonato nella «Commedia» il gergo settario; ma, se questo è vero, in parte almeno, per il senso morale o politico, poiché nel poema sacro l'ostilità contro la Chiesa è esplicita e addirittura violenta, non è vero per il senso anagogico. Questo senso è ancora e necessariamente nascosto sotto il velo del simbolismo, e per interpretarlo occorre possedere l'esperienza degli stadi di coscienza cui si riferisce, e la conoscenza dei simboli tradizionalmente adoperati per indicarli. Per questa ragione il vero e supremo significato del linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore rimane e rimarrà sempre un mistero per tutti coloro che «dormono» e seguiteranno a «dormire».

 

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