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Geber, il Maestro dei Maestri

Un certo numero di eruditi e di grandi librai mi hanno assicurato che quest'uomo, cioè Jâbir, non era mai esistito in realtà. Altri dicono che se è esistito non ha mai composto altro libro che quello della Misericordia; quanto alle altre opere che portano il suo nome, sarebbero opera di gente che gliele ha attribuite. Figura confusa da sempre tra storia e leggenda Jâbir, o Geber, come lo chiamavano in Europa, fu il più grande degli alchimisti islamici. Proseguendo nella sua serialità dedicata alla filosofia ermetica, Paolo Lucarelli esamina alcuni dei problemi posti dal corpus geberiano.

Il suo nome era Abu Abdallah Jâbir ibn Havvân ibn Abdallah asSufi. Gli autori non sono d'accordo su di lui. Gli Shĵ'iti pretendono che fosse uno dei loro notabili e una delle guide della loro dottrina; dicono che fu uno dei compagni di Ja'far asSâdiq (che Dio sia soddisfatto di lui) e abitante di Kufa. Un gruppo di filosofi al contrario assicura che fu uno dei loro che compose opere sulla retorica e sulla filosofia.

Per parte loro gli adepti dell'arte di fabbricare l'oro e l'argento rivendicano per lui la supremazia in quest'arte, all'epoca in cui viveva, ma dicono che aveva sempre dovuto nascondersi. Aggiungono che andava senza posa di città in città, non soggiornando mai a lungo in uno stesso luogo, nel timore che il sovrano attentasse alla sua vita.
«Secondo certi autori Jâbir faceva parte del gruppo dei Barmecidi ai quali era interamente devoto e in particolare a Ja'far ibn Yahya. Coloro che sono di questo parere aggiungono che il suo maestro Ja'far, Jâbir intendesse parlare del Barmecide di questo nome, mentre gli Shĵ'iti pensano che egli volesse indicare Ja'far as-Sâdiq.

«Una persona degna di fede e che si occupava di alchimia mi ha raccontato che Jâbir abitava nella via Bâb as-Sham, nel quartiere detto Quartiere dell'oro. Aggiunse che Jâbir risedeva per lo più a Kufa a causa delle eccellenti condizioni atmosferiche di questa città, e che vi preparava il suo elixir. Quando si demolì a Kufa il portico nel quale si trovò un mortaio d'oro del peso di circa duecento rotls questo stesso uomo mi disse che il sito in cui lo si trovò era lo stesso posto della casa di Jâbir ibn Hayyân e che non si trovò in questo portico che questo mortaio e un laboratorio per la dissoluzione e la combinazione. Questo avveniva sotto il regno di 'Izz-Eddaula, figlio di Mo'izz-Eddaula. Abu Sebekteguin, il ciambellano, mi ha detto che era lui stesso quello che aveva ritirato il mortaio per prenderne possesso. Un certo numero di eruditi e di grandi librai mi hanno assicurato che quest'uomo, cioè, Jâbir, non era mai esistito in realtà. Altri dicono che se è esistito non ha mai composto altro libro che quello della Misericordia; quanto alle altre opere che portano il suo nome, sarebbero opera di gente che gliele ha attribuite» (1).

In questa pagina di un erudito del X secolo sono già riassunti tutti i dubbi ed i problemi connessi con la figura storica del grande alchimista musulmano, il cui stesso nome, «Riparatore figlio del Vivente», con la sua perfetta concordanza ermetica, suscita qualche dubbio di autenticità (2).

 

Jâbir e lo shĵ’ismo

Innanzitutto va esaminato il possibile legame con lo shĵ’ismo, che già la città di Kufa, e poi la presunta amicizia con i Barmecidi, sembrano sottolineare.

Di Kufa la leggenda narra che fu fondata per l'atmosfera salubre che permise ad arabi malaticci di riprendere forza e vigore illanguiditi dal clima iracheno. Comunque fosse, il sito doveva almeno provocare una singolare inclinazione alla speculazione ed all'azione rivoluzionaria: residenza del genero del Profeta, fu il centro da cui si sviluppò la rivolta della shî'a, il movimento degli «amici di 'Ali», coloro che sostenevano la dinastia di Maometto, i Banû Hâshim, come unici veri Imâm, cioè unici califfi legali.

Quando il 25° giorno del Ramadan del 129 dell'Egira (9 giugno 747) Abû Muslim, emissario della setta Hâshimiyya, spiegò le bandiere nere della rivolta nella provincia di Khorâsân nella Persia orientale, si raccoglievano i frutti dell'opera trentennale di un'organizzazione rivoluzionaria segreta in cui ancora la leggenda vuole il padre di Jâbir tra i fondatori e i protomartiri.

Si dice infatti che verso il 71920 Abû Ikrima, sellaio, e Hayyân , speziale di Kufa, si incontrassero in Siria con l'Imân Muhammad ibn ‘Ali. Questi li inviò nel Khorâsân col mandato di invitare la popolazione a giurare fedeltà alla causa degli Abbasidi e di eccitare il malcontento contro gli 'umayyadi per la loro condotta perversa e l'insopportabile tirannia. Molti aderirono, ma i due finirono per essere catturati. Furono decapitati e i loro corpi impalati.

Secondo questa versione, orfano di padre, nato da poco, Jâbir sarebbe stato mandato in Arabia, probabilmente da qualcuno dei suoi consanguinei della tribù di Azd, per vivere presso i beduini. Qui avrebbe studiato il Corano, la matematica ed altre materie sotto la guida di uno studioso chiamato Harbi al-Himyari.

Nascerebbe dunque Jâbir con la stessa shî'a e ne sarebbe privilegiato esponente.

D'altra parte bisogna ricordare che sin dall'inizio questa setta dimostrò un atteggiamento quantomeno benevolo verso forme di pensiero occulto, per cui qualche studioso è giunto a definire lo shĵ’ismo «esoterismo dell'Islam» (3). Il doppio volto, rivoluzionario e religioso del movimento contribuì certamente a farne ricettacolo di dottrine eterodosse anche se, preso il potere, non poté, come sempre avviene in simili casi, che rinunciare almeno visibilmente a questo lato inquietante che poteva sussistere solo nell'ombra del Palazzo o comunque all'opposizione di una realtà pubblica e legale. Restano però del VI Imâm, Ja'far al Sâdiq, presunto maestro di Jâbir, affermazioni non comuni, segni di una continuità di pensiero sotterraneo: «La nostra causa è un segreto (sirr) dentro un segreto, il segreto di qualcosa che rimane velato, un segreto che solo un altro segreto può spiegare; è un segreto di un segreto che si appaga di un segreto».

Sono frasi che hanno il fascino dell'incomprensibilità. Di fronte alla scelta ufficiale della consuetudine più ortodossa e meno scandalosa. sarà il troncone ismâ'ilita a farsene erede affermando chiaramente (curiosa contraddizione) le due letture del Corano e il contrasto tra il senso interno (bâtin) e esterno (zâhir) con l'infinita trascendenza del primo rispetto al secondo. Ne conseguì una risposta intransigente anche sul piano politico, che la storia vuole falliti e ricca di quei connotati «neri»» e sgradevoli che accompagnano sempre esoterismi che si sono voluti «svelare».

Della dottrina bâtinita sappiamo alcuni metodi esegetici, tra cui l'importanza del valore numerico delle lettere nell'allegoria (ta'wil) del testo sacro: mezzo di prestidigitazione sicuro e ovunque usato per trasferire antichi messaggi in nuovi scritti. Lo troveremo anche in Jâbir. Si aggiungeva, con il consueto tono di presuntuosa propaganda, che solo gli iniziati possono accedere alla conoscenza. Gli altri devono contentarsi di miseri essoterismi: «Noi (gli Imâm) siamo i Sapienti che impartiscono l'insegnamento, i nostri shâ'iti sono i destinatari del nostro insegnamento. Il resto, ahimé, è la schiuma trascinata dal torrente».

Eppure è interessante la citazione di 'Ali che, se non fosse falsa, aprirebbe visioni di vertigine sulla stessa figura del Profeta: «L'Alchimia è sorella della Profezia». Con questa, il primo Imâm e quarto Califfo diviene polo segreto dell'islam, come più tardi, in Occidente, San Giovanni guiderà interpretazioni esoteriche cristiane. In entrambi i casi le influenze ermetiche si notano evidenti, come nella formazione del corpo stesso dell'Imâm, che risulta da una specie di alchimia microcosmica in cui la radiazione lunare scende come rugiada celeste sull'acqua e i frutti di cui si nutrono gli sposi al momento di concepirne la nascita: la sua carne sarà allora «jisni kâfûri» sottile e bianca come canfora. Allo stesso modo i Maestri descrivono il nutrimento rugiadoso del Sole e della Luna dei Filosofi per la generazione del piccolo «Regulus».

Quanto tutto ciò sia frutto di influenze iraniche è argomento di dubbio e di discussione.

È certo, comunque, che nell'ismâ'ilismo, ancor più di quel che non accada per il resto dello shĵ’ismo, i grandi nomi sono per lo più persiani. Il che riconduce alla famiglia dei Barmecidi, potentissimi «visir» dei Califfi, che ebbero nei fatti la guida dell'immenso impero abbaside. In genere sono definiti persiani, ma sembra più corretto considerarli iranici dell'Asia Centrale, discendenti degli aristocratici sacerdoti buddisti della città di Balkh. Il legame tra questi e Jâbir è ribadito in vari passi dei suoi testi, ed in un singolare episodio. Narra che una delle concubine di Yahya al-Bârmaki, di grandissima bellezza ed intelligenza, fosse ridotta in fin di vita da una malattia sconosciuta. Jâbir fu chiamato e, come egli stesso racconta: «Avevo con me un certo elixir e gliene detti una dose di due grani in due once di aceto e miele: in meno di mezz'ora ella era ritornata in salute come prima. Allora Yahya mi si gettò ai piedi e me li baciò, ma io dissi: "Non così fratello", ed egli mi domandò circa gli usi degli elixir ed io gliene detti quanto me ne restava e gli spiegai come doveva essere adoperato: dopo di che egli si applicò allo studio della scienza e perseverò tanto da acquistare molte cognizioni; ma non divenne mai così abile come suo figlio Jâ'far». I rapporti quindi erano molto stretti, se giunsero sino ad un'«iniziazione» all'Arte di Alchimia, ma questo fugherebbe l'ipotesi di un insegnamento ricevuto da Jâ'far al-Bârmaki, il visir di Harûn al-Rashid, perché allora sarebbe stato Jâbir ad ammaestrare i Barmecidi e non l'inverso.

Tuttavia ci pare illusione cercare di fissare con documenti, date e fatti qualcosa che ha più della favola che della realtà. Ricordiamo che siamo alla corte del Califfo delle Mille e una Notte, e che Jâ'far al-Bârmaki è il suo fedele compagno nelle storie che vi si narrano. Baghdâd, appena fondata sulla riva occidentale del Tigri, presso le rovine di Babilonia, risplende di tesori e misteri nella quiete promessa dal nome che al-Mansûr volle darle, Madinat as-Sâlam, Città di Pace. L'eroe dell'epoca non è il guerriero, ma Sindbad il mercante marinaio, l'avventuriero del fantastico e dell'improbabile, accettati entrambi con entusiasmo da una classe borghese colta, curiosa e vagabonda, che nel momento del pericolo pone la sua fede e speranza in Dio e nel suo volere. È un mondo colmo di maghi, geni, principesse stregate e assurde combinazioni che si rinchiudono in sé stesse, come cerchi concentrici che mostrano sempre il giusto pesare della bilancia divina. I primi Sùfì si aggirano per le strade dei bazar a testimoniare una mistica nuova e irriducibile; mentre nelle scuole della Sunna vecchi eruditi estraggono dal Libro Santo commenti appropriati per guidare le genti dell'Islam nel loro vivere quotidiano.

In questo mondo pacifico, ricco, pieno di incanti e di mistero accettiamo allora l'ennesima novella del cantastorie che ci narra di un alchimista chiamato Jâbir ibn Hayyân al-Sùfi al-Azd al-Kufi at-Tusi, che per volere di Allah, il Misericordioso, ottenne il dono della Pietra che Transmuta in oro, e scrisse migliaia di pagine per insegnare ad altri l'Arte Divina.

Davvero il «Corpus» jâbiriano è immenso, anche nella parte conservata e trasmessa nei secoli. Sono centinaia di capitoli che, pur considerando la piccola mole di alcuni, sembra difficile poter attribuire all'opera di un solo uomo. Si parla allora di «Scuola» e di autori che misero i loro scritti sotto l'autorevole nome del Maestro, a significare continuità di tradizione, valore del messaggio e umiltà di cuore. Un erudito dell'epoca commenta questo ipotetico atteggiamento con saggio scetticismo (4): «Per conto mio io dico che un uomo di merito che si mettesse al lavoro e si desse la pena di comporre un volume di due mila pagine, facendo appello a tutte le risorse del suo spirito e della sua intelligenza, senza contare la fatica materiale che gli imporrebbe il lavoro della copia, e che in seguito mettesse il suo libro sotto il nome di un altro personaggio esistito o no, sarebbe un imbecille. È una cosa che nessun uomo in possesso di qualche tintura della scienza non intraprenderà mai e non vorrà accettare; infatti che profitto e che vantaggio ne trarrebbe?». E conclude: «Jâbir dunque è esistito in realtà: la sua personalità è certa e celebre, ed è l'autore di opere molto importanti e molto numerose».

In effetti l'insieme delle opere di Jâbir sembra ammontasse a più di 3000 titoli: si sono conservati 215 trattati, tutti dedicati in qualche modo all’Arte Alchemica (5). Abbastanza eterogenei per composizione e tecniche proposte, hanno una evidente fisionomia che li accomuna, per cui non pare impossibile immaginarli di un unico autore dotato di insopportabile prolissità e di inafferrabile coerenza.

Jâbir praticava, egli stesso lo afferma, il principio della «dispersione della scienza», tabdìd al 'ilm, con incredibile perizia e «invidia» profonda, pretendendo evidentemente dai suoi eventuali lettori una pazienza infinita e un'attenzione spasmodica. Probabilmente nessun altro autore ermetico si è spinto tanto in là nella descrizione analitica delle operazioni, ma è certo che nessun altro ha spinto a tanta disperazione i profani che hanno osato avvicinarsi ai suoi scritti.

Talvolta pare colto da una specie di ingannevole compassione. Cosicché dopo che nei lunghi, noiosissimi, 70 Libri, ha ripetuto per decine e decine di volte le stesse descrizioni di una strana distillazione da compiersi assolutamente con steli di mirto (qualche studioso moderno l'ha preso sul serio, immaginando studi anticipati sulla capillarità), nel Trattato sul Mercurio Occidentale confessa: «Vi abbiamo detto (in un'altra opera) di distillare su degli steli di mirto... ma non si tratta qui del mirto che voi credete, perché noi abbiamo l'abitudine di togliere alle cose i loro veri nomi, per dargli quello di una cosa conosciuta che è in rapporto con la preparazione della Pietra ... »

Prosegue dando alcune indicazioni che fanno intendere che non solo non di mirto si trattava, ma nemmeno di distillare una sostanza liquida: «... mirto che Maria chiama "gli scalini dell'oro", che Democrito chiama "l'uccello verde" e che i filosofi hanno denominato con diversi appellativi e soprannomi allo scopo di dissimularne la conoscenza agli iniziati e a più forte ragione a coloro che non lo sono. ... Lo si è chiamato così a causa del suo color verde e perché è simile al mirto nel fatto che conserva a lungo il color verde, malgrado la alternanza di freddo e di calore. Questa cosa verde, chiamata mirto, esce come un germoglio da una base chiamata lo stelo del mirto. ...È questo stelo che brucia l'anima della pietra e ne consuma le impurezze combustibili, esso ne sbarazza tutti i principi che la corrompono, rende alla vita il morto e il fuoco non ha più azione su di lui... ».

Come si vede, ne scaturisce un'immagine ben diversa da una distillazione normale: in effetti l'operazione pare più simile ad una calcinazione in crogiolo di una sostanza con l'aggiunta di un'altra che ne risucchi in qualche modo la parte più pura.

Con tutto ciò l'Adepto si è ancora ben guardato dal dire troppo, e le indicazioni mancanti sono forse celate in un altro testo, o in un ennesimo enigma, o, più probabilmente, riservate a chi, giunto a questo punto sperimentale, sappia riconoscere ciò di cui si parla.

Nel Piccolo Libro della Clemenza, Jâbir ammette le difficoltà, per non dir peggio, di questo approccio testuale, descrivendo i supposti rimproveri del suo Maestro. È una descrizione molto dettagliata del suo metodo di insegnamento scritto, che vale ripetere a memento di chiunque voglia studiarne i testi: «Il mio maestro mi chiamò: o Jâbir! Maestro, gli risposi, eccomi ai vostri ordini.

Tra tutti i libri, mi disse allora, che tu hai composto e nei quali hai trattato dell'Opera... ve ne sono che hanno la forma allegorica e il cui senso apparente non offre alcuna realtà. Altri hanno la forma di trattati per la guarigione delle malattie e non potrebbero essere compresi che da un sapiente abile. Alcuni sono redatti sotto forma di trattati astronomici, che contengono delle osservazioni e delle equazioni; là l'Opera è racchiusa nella scienza astronomica, così bene che l'Opera non è comprensibile che per i soli grandi sapienti: ora, quelli non hanno bisogno di trattati. Ve n'è che sono sotto la forma di trattati di letteratura, dove le parole sono usate talvolta con il loro senso vero, talvolta con un senso figurato: ora, le tracce della scienza che dà l'intelligenza di queste parole sono scomparse e gli iniziati non esistono più. Nessuno dopo di te quindi potrà più coglierne il senso esatto. Ve n'è che sono basati su delle particolarità, che si possono in seguito sviluppare per analogia e riflessione: su questo punto non c'è differenza tra te e gli altri. Infine tu hai composto numerose opere sui minerali e sulle droghe, e questi libri hanno turbato lo spirito dei cercatori che hanno consumato i loro beni, sono diventati poveri e sono stati spinti dal bisogno a coniare monete di falso peso o a fabbricare pezzi falsi, e la colpa di tutto questo è tua, e di ciò che hai scritto nelle tue opere... ».

In questo senso i trattati dedicati alla cosiddetta Scienza delle bilance sarebbero senza dubbio i più meritevoli di rampogne; se mai il Maestro di Jâbir potesse ancora parlare. Non a caso, sono anche quelli che hanno suscitato più interesse e maggior esegesi da parte degli studiosi profani, grazie ad una loro apparente comprensibilità, seppure totalmente assurda.

Sono 144 trattati che partono da una teoria quasi scontata in ermetismo: che un corpo incorruttibile richiede un perfetto equilibrio tra le Nature che lo compongono, dove ad una lettura ingenua si intendono le classiche quattro nature aristoteliche, Caldo Freddo Umido Secco.

Da qui Jâbir trae lo spunto per sviluppare un'ipotesi quantomeno bislacca, che vuole calcolare a priori il peso relativo delle «Nature» di un ente qualchessia. Tutte le misure sono ricondotte ai numeri 1,3,5,8 con il loro magico totale di 17. Leggiamo un passo in cui sviluppa questo argomento: «Sappiate che ogni cosa in questo mondo, cioè nel mondo di esistenza e di corruzione, non può possedere più di 17 forze. Inoltre se essa possiede 1 unità di calore, essa ha necessariamente 3 unità di freddo. Reciprocamente se essa possiede 1 unità di freddo, avrà 3 unità di calore; non esiste nessuna altra proporzione per le cose agenti. Se la cosa ha 5 parti di secchezza, ne avrà 8 di umidità, e reciprocamente se ha 8 parti di secchezza ne avrà 5 di umidità. Questa è la regola assoluta per le cose passive. Tutte le combinazioni delle cose così sono stabilite. Ritenete questo, agite di conseguenza e voi allora troverete la vera via, col permesso di Dio».

E ancora: «Questa è una conseguenza delle 17 forze. In effetti una parte di calore può sviluppare e mettere in movimento 8 parti di umidità e 8 di secchezza, quali che esse siano. La messa in movimento della secchezza col calore è più facile della messa in movimento dell'umidità; perché l'umidità è più pesante e appartiene al genere del freddo, sebbene vi sia al momento mescolanza e unione tra lei e il calore. Abbiamo detto che le 17 forze rappresentano qui solo una parte di uno degli agenti e 5 pani dell'altro paziente, ora 5 e 4 fanno 9 e 8 fanno 17. Questa è la base del mondo, sappiatelo».

La Bilancia perfetta sarà quella delle Lettere. Giocando sul fatto che in arabo i numeri sono rappresentati anche dall'alfabeto. Jâbir trae da computi sui nomi delle cose, secondo complesse matrici, valori conclusivi sulle relazioni tra nature che darebbero opportuni suggerimenti di riequilibrio.

Tutto ciò, come abbiamo già detto, appare del tutto assurdo e darebbe, se preso alla lettera, una ben misera immagine di uno dei più grandi Filosofi Ermetici. In realtà in questi testi Jâbir sfrutta tutte le possibili astuzie dell'inganno testuale, e nell'originale arabo non mancano a completare i trabocchetti giochi di parole cui la lingua semita si presta particolarmente. Non è tuttavia impossibile che la trattazione originaria fosse in greco, come vorrebbe lo stesso autore: «La scienza delle bilance non ha cessato di esistere dall'epoca di Sergio che al momento della sua morte l'ha trasmessa ad un sapiente di questo mondo, facendogli prendere l'impegno di non parlarne e non discorrerne che con un filosofo come lui e non con altre persone. Questo è continuato sino alla mia epoca, quando ho dovuto raccogliere la tradizione che non poteva essere confidata che a me solo, perché ero l'ultimo dei rappresentanti di questa scienza. Mi è stato richiesto di impegnarmi a mantenere il segreto per me e a non diffonderlo; ma ho rifiutato di accettare la tradizione a queste condizioni. (Ho deciso perciò di divulgare) parte di questa scienza, e ne nasconderò una parte, dando certe cose e tenendomene altre».

In realtà, come avrà capito chiunque abbia un po' di «tintura di dottrina» (per usare l'espressione consacrata dall'uso) si tratta qui del misteriosissimo problema dei Pesi della Grande Opera, che sono di due tipi, cosiddetti dell'Arte e di Natura. Del secondo nessuno, nemmeno i più grandi Adepti, conosce le proporzioni, che d'altronde non servono per operare. Dei primi, invece, tutti gli autori riconoscono la grande importanza in quelle prime operazioni che permettono alle Nature, filosofiche e non aristoteliche, di attirarsi, congiungersi e interagire per generare gli occulti fenomeni di cui si parla nei testi. In Alchimia nulla è più difficile a conoscersi dell'inizio, massimo arcano dell'Opera, di cui si è taciuto o si è parlato solo per enigmi. Jâbir in fondo si mostra più «caritatevole» di altri nel suo tentativo dichiarato di aprire quantomeno la strada ad una possibile conoscenza. Non lo si può certo accusare per la follia di chi lo vuole intendere letteralmente e s'intesta a ragione su una teoria manifestamente insensata e impraticabile (6).

In realtà nulla nell'opera di Jâbir fa dubitare della concretezza delle sue opinioni o della serietà sperimentale delle sue proposte operative. Come tutti i veri Filosofi della Natura, anche l'Adepto musulmano insiste sulla necessità di un atteggiamento che oggi potremmo definire «scientifico», nel senso più moderno del termine. Per rendersene conto basta leggere questi passi, che, tra l'altro. sono paradossalmente proprio in introduzione all'argomento della «Bilancia».

« … È un principio rigoroso ed assoluto che una proposizione che non è sostenuta da prove è una semplice affermazione che può essere vera o falsa. È solo quando se ne sarà data la prova che diremo, "il tuo dire è vero"... Sinché non vi avranno fornito queste prove, dovete giudicare ciò che avete inteso come una cosa che vi colpisce, ma che non vi convince; qualsiasi proposizione potendo essere falsa o vera; e per lo più falsa quando le prove sono lontane.»

Queste affermazioni sono ribadite nel Libro della Misericordia (Kitâb ar-Rabman, chiamato anche K. Al-Uss, Libro della Fondazione) il più antico dei suoi scritti, che si dice sia stato trovato sotto il guanciale quando morì a Tûs nell'815. Qui la descrizione del corretto modo per affrontare lo studio e la pratica della Grande Opera dà suggerimenti preziosi e semplici, che non lasciano molto spazio a fantasie occultistiche.

«O uomo intelligente! se il vostro spirito vi fa desiderare di conoscere quest'Opera, sappiate innanzitutto se è vera, o se non esiste; se voi potete acquisirla o no. Bisogna giungere a che abbiate su quello una certezza e che in nessun modo conserviate alcun dubbio a questo riguardo.

«Se voi avete acquisito questa certezza, sia con i vostri sensi, se siete intelligente, sia per induzione, che è l'equivalente dei sensi, bisognerà allora che sappiate con cosa può essere fatta l'Opera, se è con le pietre, le piante o gli animali, e sceglierete il modo più vicino e più verosimile per giungere allo scopo.

«In seguito bisognerà che sappiate se è una cosa unica, semplice, non complessa il che non esiste in questo mondo o se si tratta di due cose concordanti e combinate, di due cose divergenti e combinate, o infine di più cose concordanti e combinate.

«Bisogna anche sapere se questa combinazione è opera della Natura, o se è stata immaginata dai Filosofi.

«Poi sarà necessario sapere come si opera, se si deve operare la cottura di questa materia isolatamente e allora effettuare la sola sublimazione, oppure compiere una semplice decomposizione, oppure ancora eseguire nel contempo la sublimazione e la decomposizione. Infine dovrete sapere se il nero di questa tintura deve operare una trasformazione completa o incompleta.

«Quando saprete tutto questo in modo certo, e non avrete più il minimo dubbio a questo riguardo, non vi preoccupate della fatica del vostro corpo, della spesa del vostro denaro, né dell'abbandono dei vostri affari; perché allora sarete glorificato agli occhi delle persone intelligenti e degli uomini sagaci.

«A questo punto completate le cose di cui non vi potete dispensare e poi occupatevi delle cose dell'Opera; non spendete per questa più del superfluo della vostra fortuna. Chiedete a Dio che vi assista all'interno ed all'esterno per tutto ciò che desidererete, lavorando con tutta la vostra forza. Abbiate cura di leggere i libri di questa Scienza e fatevi aiutare dalle persone intelligenti che si occupano di questi lavori, perché i libri sono inchiavardati e le chiavi dei loro catenacci sono nei petti degli uomini».

Tra i segreti «inchiavardati» nei petti dei Maestri, uno dei più gelosamente custoditi è certamente il nome della cosiddetta «Materia Prima», fondamento operativo e base concreta della Grande Opera. Qui Jâbir sembra abbia creato un'ambiguità che lascia oggi perplessi gli studiosi. Infatti nei 70 Libri, Kitâb al-Sab'in, tra le decadi che compongono il testo, le prime descrivono l'Opera servendosi di sostanze animali, vegetali e minerali, seppure con un degrado dell'Elixir ottenuto. Jâbir sarebbe allora il primo, se non l'unico alchimista, a proporre un processo che si scosti dal regno metallico.

I1 realtà si è notato che quando dovrebbe trattare della cosiddetta «Opera Animale», hayawâni, il testo parla di tutt'altro e che i riferimenti a sostanze specifiche sono quasi nulli. La stessa impostazione del Libro appare paradossalmente, sin dalla dichiarata intenzione di voler insegnare procedimenti di durata progressivamente ridotta e di grado di difficoltà crescente, per cui un commentatore attento ha immaginato una specie di sistema pedagogico per accompagnare con una sperimentazione diversa il crescere spirituale e intellettuale dell'apprendista, in una specie di iniziazione graduale (7).

Sul problema della Materia, comunque, è ancora il Libro della Misericordia, a nostro parere il più chiaro e il meno «invidioso» dei suoi testi, a sciogliere i dubbi. Vi si afferma: «Certi autori sono del parere che l'operazione animale sia praticata con materie non viventi che provengono dagli animali; per esempio col sangue, con l'urina, la saliva, il cervello, il fiele. Ma tutto ciò è lontano dal dare un risultato, perché vi è troppo scarto tra l'animale e il minerale. Non si può trasformare la natura di una cosa che trasformandola in una natura a lei vicina e che contiene una certa quantità della sua azione e della sua potenza... O mio Dio, non vi sei che tu che puoi trasformare l'animale in un minerale inerte, senza operare mescolanze e senza utilizzare tintura. Ma non è questo lo scopo che si propongono questi autori e ciò che li ha portati ad emettere questa opinione, è la loro ignoranza sulla creazione dei tre regni: i minerali, le piante e gli animali, e anche l'ignoranza nella quale erano relativamente ai gradi di trasformazione delle sostanze le une nelle altre: perché i metalli sono già creati nei loro minerali. Se avessero conosciuto la verità a questo riguardo, sarebbero arrivati al risultato cercato senza il minimo sforzo».

In precedenza aveva detto: «La distinzione tra le cose animali e terrose è la seguente, le cose animali sono il mercurio, l'oro, l'argento, il piombo, il rame e il ferro. Le cose terrose si dividono in due categorie, viventi e morte; tra le viventi si ha lo zolfo, l'arsenico, il sale ammoniaco e tutto ciò che fonde e brucia e di cui il fuoco fa uscire lo spirito. La seconda categoria, quella delle cose morte, comprende tutto ciò che non fonde, né brucia, né dà vapori...».

Evitando l'inganno di un'interpretazione letterale troppo «chimico-fisica», si vede ribadito qui un tema comune a tutta la letteratura ermetica, quello della distinzione tra sostanze vive e morte. Jâbir le definisce ajsâd e ajsâm. Le seconde non sono utili per l'Opera che è detta «Animale», perché nasce da corpi «animati». Gli autori successivi li diranno anche «filosofici», per distinguerli più nettamente.

La confusione certo è voluta, Ma in conclusione si risolve in perfetta coerenza con la tradizione.

Studioso di grande cultura e di insaziabile curiosità, l'Adepto ha arricchito i suoi trattati con infinite applicazioni particolari di processi di vera e propria «chimica» in senso moderno, che dimostra di conoscere e padroneggiare sia nell'analisi di sostanze, che nei procedimenti per via umida e secca. L'elenco dei suoi scritti comprende opere su una amplissima serie di argomenti che vanno dal computo astronomico, alla geometria, alla logica, alla medicina, sino all'ingegneria militare. Una specie di genio multiforme quindi, il cui nome divenne simbolo di Filosofo ermetico per eccellenza. Latinizzato in «Geber», preposto ad altri testi, fu oggetto di benedizioni e invettive da parte di generazioni di studiosi, alcuni dei quali avrebbero ben volentieri sottoscritto queste sue parole di apparente contrizione:

«Ho visto, in effetti, moltiplicando il numero dei miei libri, allungandoli e riempiendoli di fatti, che nessuno potrebbe arrivare a scoprirne la verità, a meno di consacrarvi tutta la sua vita, di avere un'intelligenza superiore, di dedicarvi tutto il suo studio, di vegliare notte e giorno e di rinunciare a frequentare i suoi amici, privandosi così della felicità completa».

Eppure, nei secoli, pare non sia mai mancato che qualcuno accettasse queste spiacevoli condizioni.

 

 Note:

1- Fihrist. Op. cit. X sezione.

2- La radice JBR è oggetto di numerosi giochi di parole; tra l'altro può generare uno dei nomi di Dio, Jâbbar, l'Onnipotente.

3- H Corbin, Storia della Finsaja Islamica. Milano 1973.

4- Fihrist. op cit.

5- Per quel che segue vedi in particolare, The beginning of Arab Alchemy, by Mohammed Yahia Haschmi, in «.Ambix», IX. 3. The Antiquity of Alchemy, by H.E. Stapleton, in «Ambix» V. 1-2. E. John Holmyard, Storia dell'Alchimia, Firenze 1959. Jâbir ibn Hayyân, Dix traités d'alchimie... traduit de l'arabe et commenté par Pierre Lory. Paris 1983.

Berthelot, opp. citt. Seyyed Hossein Nasr, An introduction to Islamic Cosmological Doctrines. London 1978. Lo studio più completo comunque. con una catalogazione di tutti i trattati conservati, si trova in: Jâb ibn Hayyân. Contribution à l'histoire des idées scientifiques dans l'Islam. Par P.Kraus. Paris 1986.

6- Vedi ad esempio le analisi, peraltro completamente opposte, di Kraus e Corbin, o gli studi dello Stapleton sul quadrato magico di Saturno.

7- P. Lory, op. cit.

 

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