(1) Non diece volte, ma cento e cinquanta, (2)
Voglio provar la pietra in un chiar vietro,
Con tossichi e metalli inforno rietro,
Poi che Jeber di farlo ogni hor si vanta.
Che ci non ha nel orto alchuna pianta
Di vere laude, pianga e torni indietro
Per altrovar virtute, et io ne impietro
Gratia nel ciel dove si gode e canta.
Dal suo balcon sopran mi par vedere
Un vecchio antiquo forse qual Zenone,
Darmi speranza come experto e pratico;
Per non peschar rubini in fondo aquatico
Del Tago, o Nilo, et in septentrione
Agathe o margherite bianche e niere,
Voglio mi dar piacer,
Con antimonio, sale et orpimento
E far di rame e cupro, (3) fino argiento.

 


1. Zenone: il filosofo presocratico Zenone non ha alcuna tradizone che lo colleghi all'alchimia. Può darsi che ci si riferisca a Xenocrate, allievo di Platone le cui teorie demonologiche influenzarono i primi scrittori cristiani. Il riferimento di Felice, comunque, è ambiguo.

2. Le rime di questo sonetto sono le stesse del precedente, e nello stesso ordine. Esprimono però sentimenti opposti: là disperazione, qui speranza.

3. Rame e cupro: indica sempre rame, ma forse in due condizioni diverse.