Shir ha-shirim, il Cantico dei Cantici è stato oggetto, nel tempo, di diverse chiavi di lettura tra cui, in particolare, quella alchemica e quella Cabalistica. Per la prima, sarebbero facilmente individuabili nel Cantico le varie fasi dell'opera alchemica, per la seconda si tratterebbe di un'unione amorosa e cerimoniale in parte riconducibile al maithuna tantrico, senza tuttavia utilizzare di questo né le particolari tecniche, né l' arresto seminale...

In questo lavoro sono riportate le riflessioni  finali presentate, nell'anno di vera luce 5995, dal carissimo Fratello Sergio M. a termine di un anno di studio sul Cantico dei Cantici. 

Lo scritto costituisce un opera della maestria del Fratello. Il suo contenuto non riflette di necessità la posizione della Loggia o del G.O.I.

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© Sergio M.

 


 

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Lettura alchemica per il Cantico dei Cantici

 

Shir ha-shirim, il Cantico dei Cantici è stato oggetto, nel tempo, di diverse chiavi di lettura tra cui, in particolare, quella alchemica e quella cabalistica. Per la prima, sarebbero facilmente individuabili nel Cantico le varie fasi dell'opera alchemica, per la seconda si tratterebbe di un'unione amorosa e cerimoniale in parte riconducibile al maithuna tantrico, senza tuttavia utilizzare di questo né le particolari tecniche, né l' arresto seminale.

L'interpretazione di senso alchemico ha suscitato sempre molto fascino e non c'è quasi testo di alchimia che non la richiami. Tra i più recenti, citerò Alchimia Pratica di Pancaldi. L'autore sottolinea come tutto il Cantico, a cominciare dal versetto I-5: "Sono nera, ma formosa", possa essere letto in chiave alchemica. "Per l' amante dell'arte -egli osserva- l'apparire della nerezza è buon segno, è il segno che la putrefazione avviene, ed il fuoco, nei suoi regimi, rende manifesta la nuova forma." Per continuare poi con i versetti V-10 e V-11: "Il mio diletto è bianco e rosso, e si distingue tra mille. Il suo capo è oro puro, i suoi riccioli sono grappoli di palme, neri come il corvo...". "Chi conosce le immagini alchemiche dei filosofi - osserva ancora il Pancaldi - sa subito di cosa si tratta in questi versetti, e chi parla."

Per un'interpretazione ben più antica e riferita alle diverse fasi della Grande Opera, si può ricordare il Commentario sul Cantico dei Cantici di Rabbi Issa'char Baer. Anche se il Rabbi presenta un commento nel secondo senso del Pardès ,cioè il Remmez allegorico, il traduttore, nel dedicare il libro al maestro e amico Gérard Encausse, altrimenti noto come Papus, non può fare a meno, nell' introduzione, di tracciare le linee di una interpretazione di senso alchemico del Cantico, a cominciare dal solito versetto I-5:"Sono nera ma bella...", individuandovi il soggetto e la materia dell' arte. Per continuare poi con i seguenti versetti: I-6: il lilium artis, II-4: la preparazione e la purificazione, II-7 e IV-6: il fuoco, III-1: la putrefazione, III-6: la sublimazione e la distillazione, da V-9 a V-14: la coagulazione e il cambiamento di colore, II-12 e VIII-4: la fissazione, VI-7: la moltiplicazione, VIII-8: l' aumento e la proiezione.

Non c’è dubbio che se ci incamminiamo su questa strada, se cioè procediamo in una lettura analitica e talora frammentaria del Cantico, ricercando ogni volta i simboli che abbiamo in mente, noi troveremo convincente la lettura in chiave alchemica dello Shir ha-shirim, ma ciò può valere anche per altre opere, per esempio per Meshalim o Proverbi della sapienza di Salomone. Se, però, esaminiamo il Cantico nel suo insieme, noi vi troviamo qualcosa di diverso. Due giovani in carne e ossa sono i protagonisti, la poesia che si manifesta dal parlare l’uno dell’altro, dallo stare l’uno con l’altro è ben reale, il loro amore suggellato da grande spiritualità è tuttavia anche fisico e, come lirica d’amore, il Cantico non teme il confronto con i più grandi versi della poesia classica e profana. D’altra parte, se di operazione alchemica si tratta, si tratta di un’operazione a due vasi, ma un’operazione a due vasi è veramente un’operazione alchemica?

Le operazioni a due vasi possono essere di tre tipi. Un primo tipo si caratterizza nell'usare l'amore per lavare col fuoco, come si suole dire. Tecnicamente l'operazione è semplice: in un ambiente saturo di profumi, gli amanti si siedono, immobili, l'uno di fronte all'altra con l'unico compito di amarsi e di desiderarsi, soprattutto spiritualmente. É appena superfluo sottolineare che tale operazione presenta almeno due rischi: il primo è che il fuoco utilizzato per lavare l'acqua sia tanto forte da impedire l'amalgamazione del mercurio oppure che sia troppo debole per essere un vero e proprio lavaggio col fuoco. Un altro rischio è la sublimazione del desiderio e la sua trasformazione in un atteggiamento di devozione mistica.

Un secondo tipo di operazione a due vasi è un autentico atto di magia sessuale, con doppia uccisione dello zolfo e del mercurio.

Il terzo tipo di operazione a due vasi è un atto di magia cerimoniale dove il congiungimento degli amanti si trasforma in un rituale vero e proprio. Nella magia sessuale la donna è mero oggetto e quanto meno è riservata la sua condotta e spento il suo intelletto, tanto più l'operazione è in grado di riuscire: tra tutte, le predilette sono le fanciulle di bassa casta e le cortigiane. Nella magia cerimoniale, al contrario, la donna deve essere giovane, bella e saggia: si tratta cioè di trasformare, utilizzando tecniche respiratorie e astrali, un mero atto biologico in un rituale e di fare della coppia umana, una coppia divina.

Tra le scuole orientali, oltre al tantrismo, anche il taoismo ricorre ad operazioni alchemiche a due vasi. L'uso di pratiche di magia sessuale o cerimoniale, tuttavia, appare nel taoismo finalizzato alla realizzazione dell'albedo (l'opera al bianco della tradizione occidentale), per conseguire la longevità e la salute del corpo. La Sezione Ventottesima dell'antico Libro delle prescrizioni mediche offre tutta una serie di ricette per curare le diverse malattie e non si stanca mai di sottolineare l'importanza del mercurio nella risoluzione delle principali affezioni corporee, ivi compreso l'invecchiamento. La cosa più sorprendente, alla luce del tradizionale maschilismo che sempre descrive le operazioni a due vasi, è poi contenuta nella parte della Sezione denominata Segreti dell'alcova di Giada, in cui il maestro Chung insegna alle donne come appropriarsi dello yang: "Lo yin nutrito dallo yang non c'è malanno che non allontani, non c'è viso a cui non dia colore, non c'è pelle che non renda vellutata, e non c'è vecchiaia a cui non rechi il dono immenso della giovinezza". Nel libro, le tecniche del congiungimento sono descritte con pignoleria, anche se sono tutte da ricondurre ad analogie cosmiche e alla corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo. L'uomo e la donna si uniscono secondo il ritmo del Cielo che ruota verso sinistra e della Terra che ruota verso destra. Come nella Tavola Smeraldina di Ermete Trismegisto ciò che è in alto è come ciò che è in basso e come nell'arte regia si tratta di fare della terra, il cielo e del cielo, la terra preziosa.

Appare dunque evidente come le pratiche orientali di magia sessuale e di magia cerimoniale, sin qui esaminate, facciano tutte riferimento all'alchimia. Tantrismo e Hatha-Yoga ad un'alchimia indiana preesistente all'alchimia diffusasi con la penetrazione islamica dell'India. Il taoismo cinese ad un'alchimia i cui testi risalgono almeno al IV secolo av.C.. In particolare, l'alchimia indiana è attestata da antichi testi sanscriti e si viene sviluppando come Rasayana, che, letteralmente, significa la via del succo(rasa) o del mercurio. Quanto alle differenti specie di Yoga tantrico, la loro somiglianza con l'alchimia è ancora più netta. In effetti, sia il seguace dello Hatha-Yoga che quello del Tantra mirano a tramutare il proprio corpo in un corpo incorruttibile che chiamano corpo divino, corpo della gnosi, corpo perfetto o, in altri contesti, corpo del libero nella vita. Dal canto suo, l'alchimista persegue la trasmutazione del corpo e sogna di conservare indefinitamente la giovinezza, la forza e l'agilità. Inoltre, sia nel Trantra-Yoga che nell'alchimia il processo di trasmutazione del corpo comporta un'esperienza di morte e di risurrezione iniziatica. C'è infine da osservare che lo Yoga tantrico, proprio come il taoismo e l'ermetismo, si basa sulle corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo: Kundalini Shakti è l'unica energia che si trova nel corpo umano come nell'universo, anche se nel macrocosmo prende il nome di Mahakundali. Il Vishvasara Tantra ripete con altre parole, ma con lo stesso significato, l'assunto ermetico della Tavola di Smeraldo: "Ciò che è qui è ovunque, ciò che non è qui non è in nessun luogo". Kundali è il serpente arrotolato che si manifesta tanto nei mondi quanto alla base della spina dorsale dell'uomo. Kundalini è il potere del serpente che si srotola, la sua energia si realizza in spiralità creative di mondi o uova di Brahma, rotanti nelle loro orbite circolari. Kundalini è energia cosmica che può ridestarsi anche nell'uomo e la sua struttura, all'interno dell'organismo umano, ricorda quella del caduceo di Mercurio. Senza il risveglio di questo fuoco interno nulla è possibile, ma, proprio come avviene in alchimia, non basta ridestare il fuoco del serpente per operare la trasmutazione. Perché questa sia possibile, infatti, occorre che il serpente risvegliato e il fuoco ridestato sappiano provvedere alla giusta cottura del mercurio. Quanto all'alchimia cinese, il suo rapporto con il taoismo è evidente dal momento che tale filosofia di vita risale sino alle confraternite di fabbri, che detengono la più prestigiosa tra le arti magiche e il segreto delle potenze prime. Si viene così sviluppando un'alchimia taoista che, mediante fabbri, confraternite, maestri e segreti del mestiere trasmette il sapere alchemico: compito degli iniziati è sacrificare al forno per ottenere la polvere del cinabro, l'equivalente cinese della polvere di proiezione che, come nell'alchimia occidentale, può essere mutata in oro finissimo. Quest'oro farà dell'uomo comune l'Uomo Reale e dell'antica arte della metallurgia l'Arte Regia.

Ciò che accomuna le diverse alchimie della purificazione dei metalli, sia nell'area orientale che medio-orientale, è l'assimilazione della luce e del seme. Tale assimilazione è presente in molti miti indiani, cinesi, tibetani e iraniani. Tra i più diffusi è un mito tibetano delle origini: al principio gli uomini irradiavano direttamente la luce e Sole e Luna non esistevano. Quando negli uomini si destò l'istinto sessuale, in loro si spense la luce e i due luminari apparvero in cielo.

Da ciò che si è detto, è evidente come le operazioni a due vasi siano vere e proprie operazioni alchemiche. Non sembra dunque potersi rivelare grande differenza tra un'interpretazione di senso alchemico del Cantico e una interpretazione che, sia pure dichiaratamente cabalistica, si prospetti come un'operazione a due vasi assimilabile al maithuna tantrico. D'altro canto, ove lo si devitalizzi dei suoi principi di senso, che tecnicamente sono la respirazione e l'arresto seminale e teoricamente è l'unità dello spirito, il maithuna cessa di essere un'operazione alchemica a due vasi per divenire niente altro che un'unione erotica o tutt'al più un atto di magia sessuale. In questa stessa prospettiva, il Cantico, il libro più santo dell' intera Thorah, altro non sarebbe che una sorta di ierogamia finalizzata alla dissoluzione della diade uomo-donna nell'androgine originario, archetipo antropomorfico dell'Uno-Dio. Vero è che nella visione della Qabalah, l'unione mistica, facendo discendere la Shekhina sugli sposi, si pone al servizio della procreazione. Si spiega così anche la funzione del flusso seminale che, in luogo di essere arrestato, viene sparso abbondantemente, come nei rirtuali ierogamici dei primitivi, quale elemento propiziatorio di collegamento e di fecondazione tra Cielo e Terra, tra alto e basso.

Per quanto tranquillizzante possa apparire questa chiave di lettura del Cantico, non sembra credibile sostenerla ad una più attenta osservazione, non tanto e non solo per l'arcaicità e la semplicità dei simboli che ogni ierogamia è costretta a riproporre, quanto perché l'idea della dissoluzione della diade che la sorregge è puramente illusoria, almeno in un'ottica che si ispiri alla Qabalah, dovendosi ricordare come lo Zohar parli sempre di Devequth cioè di comunione, unificazione, mai di dissoluzione e di Uno. La stessa Ma'aseh Bereschith che consente di raggiungere l'unificazione mediante l'unione dell'uomo e della donna, mantiene sempre l'Uno come trascendenza e come indicibile lontananza. Proprio su ciò si basa la differenza tra Qabalah ebraica e i sistemi sin qui ricordati. L'ermetismo alchemico, le varie filosofie dell'induismo e del buddismo, lo Yoga tantrico, il taoismo e ogni visione ierogamica dell'universo, pur nella diversità delle condizioni storiche da cui provengono, sono tutte concezioni dell'immanenza, dove ogni idea di rettificazione o di reintegrazione tende alla riscoperta del proprio originario e al desiderio dell'uomo di farsi Yogi, Dio, Uno, Spirito. Nella visione della Qabalah, al contrario, sempre sussiste quella indicibile lontananza che blocca sul nascere ogni aspirazione prometeica dell'uomo a farsi Dio o ad annullarsi in Lui. D'altra parte, nell'iniziazione cabalistica, mutano anche il ruolo dell'uomo e della donna. In una lettura di senso alchemico la donna è l'elemento fluidificante, l'acqua corrosiva e terribile. Prostituta o dea, la sua demonizzazione come la sua divinizzazione non hanno altro scopo che il tirocinio ascetico del neofita. In ogni altro caso la donna è, per così dire, vampirizzata a fini magici o terapeutici oppure è terra irrorata.

C'è nel Cantico, pur nella diversità, una sostanziale parità e dignità degli amanti: "Io ho desiderato d'essere all'ombra tua e mi vi sono posta a sedere"(I-3). É questo il versetto citato da Giordano Bruno nel De umbris idearum a proposito dell'ombra e della luce. La donna è la polarità lunare, la luce riflessa, l'ombra della luce, necessaria quanto la luce stessa per la reintegrazione. Ciò che tuttavia potrà essere reintegrato non è l'Uno in quanto tale, ma l'Uno come unificato. Si legge in Zohar: "Qui la donna si unisce al suo sposo. Quando si siano stretti l'un l'altro in un abbraccio, allora bisogna che le loro membra siano aderenti e i loro tabernacoli congiunti, come se fossero Uno e che la loro comunione si diffonda in ogni parte di loro secondo il desiderio del cuore, per potersi elevare nella direzione di Aïn Soph, affinché tutto si unisca laggiù per fare di quelli dell'alto e di quelli del basso un desiderio solo". É opportuno osservare che qui alto e basso non assumono lo stesso significato che hanno nella massima ermetica della Tavola di Smeraldo. Qui si vuol dire che quando Tiphereth lo sposo e Malcouth la sposa si uniscono, si uniscono lassù anche H'cmâ-il padre e Binâ-la madre, tutti accomunati nel medesimo desiderio verso Kether. Resta del tutto fuori portata Aïn Soph, mentre la stessa aspirazione di raggiungere Kether, più che una possibilità effettiva, manifesta la volontà simbolica dell'unificazione. La differenza non è poca e spiega quel riferimento alla indicibile lontananza che è caratteristica dell’iniziazione cabalistica.

Conviene a questo punto tentare un’introduzione di senso cabalistico alla lettura del Cantico:

"I tuoi amori sono migliori del vino"(I-2): una sposa invoca lo sposo il cui amore è giudicato essere migliore del vino. Il vino, nel linguaggio della Qabalah, è il diffondersi della sephira Binâ sino a Malcouth, passando attraverso Guebourâ: la sephira Binâ insieme a H'cmâ e a Kether costituisce la triade suprema, questo amore migliore del vino è dunque una effusione che fluendo innanzi tutto da Kether giunge a Tiphereth lo sposo perché egli ne faccia dono a Malcouth la sposa. Tiphereth è nell'Albero della vita l'aspetto mascolino della divinità e porta il nome di sposo, di sole e di cielo. La sua immagine umana è quella di un re. Tiphereth è sephira centrale, pietra angolare e di equilibrio di tutto l'Albero, la sua funzione è quella del collegamento tra Alto e Basso, tra polo nord e polo sud della psiche (la sephira nascosta Daath e Yesod), tra opposti (H'cmâ e Binâ, H'esed e Guebourâ) e, infine, tra simili (H'esed e Hod, Guebourâ e Netzâ). Gli influssi che da ogni sephira fluiscono in Tiphereth, si riversano in Malcouth per mezzo di Yesod.

Malcouth è l'aspetto femminile della divinità, è la sposa che si congiunge allo sposo attraverso Yesod. Nell' universo è la Luna, nella parte alta dove si unisce a Yesod e, nella sua parte inferiore, è la terra, il regno, il campo, la vigna.

Yesod o fondamento è il membro maschile del corpo sephirotico e raccoglie, appoggiandosi a Tiphereth, gli influssi che provengono da tutti gli altri sephiroth per introdurli in Malcouth. Ha l'aspetto di un uomo nudo, forte e bello. Per la parte superiore, dove si unisce a Tiphereth, è il firmamento del cielo, per la parte inferiore, dove si unisce a Malcouth, è la Luna. Così, la Luna, in Malcouth, rappresenta l'aspetto femminile della divinità, mentre in Yesod diventa il membro maschile del corpo sephirotico: ciò si spiega non solo per la doppia polarità di Yesod, maschile in collegamento con Tiphereth, femminile in collegamento con Malcouth, ma soprattutto in riferimento ai noti versetti del Genesi dove è detto che Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza e subito dopo che lo creò maschio e femmina (I-27). Senza contare, poi, l'antico costume dei popoli nomadi di adorare la Luna come divinità maschile.

Continuando nella lettura del Cantico si giunge ai versetti I-5 e I-6: "Sono bruna ma bella..." e "Non fateci caso se sono un pò mora: è il Sole che mi ha abbronzata...", versetti citati assai spesso a sostegno dell' interpretazione di senso alchemico. In realtà, dal punto di vista della Qabalah, i due versetti insieme anche al già richiamato versetto II-3: "All'ombra di lui che desideravo mi sono seduta..." rappresentano la luna che si veste d'ombra, che si nasconde. É questo il momento del novilunio, quando scompare la luce e con lei si ritirano Grazia e Clemenza divine (la sephira H'esed) per lasciare il posto al Rigore (la sephira Guebourâ). Il momentaneo ritrarsi della luce divina è il segno che l'uomo è lasciato a se stesso e in balìa dei propri peccati: "La luna s'è nascosta, ciò significa che domina il serpente malvagio che può nuocere al mondo, ma quando si desta la Clemenza, la luna riappare liberandosi della sua veste d'ombra".

Quanto al versetto I-6 (...il Sole mi ha abbronzata), può anche intendersi tanto Malcouth come terra dove nella densità si oscura la luce del Sole, che Malcouth come luna le cui fasi oscure, così come la luce, dipendono dal Sole. cfr. Le Zohar, a cura di C. Mopsik, vol. I-t. II, Verdier, Paris 1984, pp. 128, 171-2, 246, 274, 328, 394-6, 429, 491 note comprese.

"I figli di mia madre..." dello stesso versetto I-6 sono le sephiroth del piano inferiore, tutte nate da Binâ che è anche madre di Malcouth. E ancora il : "Guardare la vigna..." sembra un compito di Malcouth-Luna nei confronti di Malcouth-Terra. Il versetto I-8: "A una cavalla dei cocchi di Faraone io ti paragono..." sembra alludere alla raffigurazione mitica della Luna piena. Il versetto I-11: "Noi ti faremo dei fregi d'oro con cubetti d'argento..." è un altro riferimento alla bellezza lunare della fanciulla. Nel versetto I-15: "Gli occhi tuoi sono di colomba..." è contenuto un ulteriore riferimento alla Luna. La Dione greca e la Diana dei Latini sono altrettanti nomi della Luna o dea della colomba. L'identificazione di luna e colomba è in realtà molto più antica e si deve far risalire al mito pelasgico e cananeo della creazione. In tale mito, la luna ha una doppia funzione: è matrice cosmica che emerge dal Caos ed è al tempo stesso il luminare che oggi conosciamo. Come matrice cosmica il suo nome era presso i Sumeri Iahu o divina colomba. Uscita dal Caos, la dea è fecondata dal vento del nord o Borea, poi identificato, nei miti ebraico-egizi e nel mito orfico con il serpente Ofione. Volando sul mare, la dea prese la forma di una colomba e depose l'Uovo Universale, ordinando poi ad Ofione di arrotolarsi sette volte intorno all'uovo: questo infine si schiuse e ne uscirono i sette pianeti.

Nel secondo capitolo c'è un duplice riferimento al melo, come albero (II-3) e come pomo (II-5). Il melo è pianta di Tiphereth, lo sposo solare e l'intera immagine evocata richiama il Giardino delle Esperidi della tradizione occidentale e l'undicesima fatica di Ercole, l'iniziato solare. Particolarmente importante, in chiave sephirotica, è poi il versetto II-6. Dice la sposa: "La sua sinistra è sotto il mio capo, la sua destra sta per abbracciarmi...". Qui il riferimento è in Zohar. la sinistra di Tiphereth è Guebourâ, la sua destra è H'esed, quando Tiphereth e Malcouth si uniscono è la Grazia (H'esed che è a destra dell' Albero della vita) a sostenere Malcouth, mentre il Rigore (Guebourâ o Din che è a sinistra) si ritrae.

I versetti che seguono, da II-7 a II-17 manifestano ancora il rapporto tra i due luminari: Sole-Tiphereth e Luna-Malcouth: ora è il Sole che non vuole che la Luna si svegli, ora è la Luna che vede il Sole "saltellare tra i monti", venir giù, cioè dalle alture dove dimora Kether e ancora: è la Luna che vede il Sole "far capolino dalla finestra, spiare tra le grate", poi è il Sole che la insegue tra le fessure delle rocce. Infine è la Luna che invoca lo sposo prima che giunga la notte: "Prima che muoia il giorno e si allunghino le ombre, ritorna" (II-17)

Nel successivo capitolo del Cantico, la fanciulla va in cerca del suo amante: è notte profonda e durante la notte Tiphereth e Malcouth non sono più insieme. "Le guardie di ronda" del versetto III-3 sono forse i sette palazzi. che circondano Malcouth; il ritrovamento e l'abbraccio degli amanti avviene infine nel momento aurorale (III-4), allorché nuovamente Malcouth introduce lo sposo nella casa della madre Binâ .

Il versetto III-6: "Chi è costei che sale dal deserto, simile a colonne di fumo, profumata di mirra e d'incenso..." è in chiara simbologia con la simbologia lunare dei profumi e con l'olocausto dei noviluni. Infine, gli ultimi tre versetti del capitolo si ricollegano tutti all' Albero della vita: il legno con cui è fatto il baldacchino del re viene dal Libano, cioè da Kether. Salomone, il re, cioè Tiphereth, è seduto nel centro dell'Albero: le colonne d'argento di cui parla il Cantico sono i sephiroth alla sua destra, la spalliera d'oro è la colonna centrale che risale a Kether, il sedile di porpora è Yesod. Nel IV capitolo, lo sposo esalta la bellezza della sposa sino al momento dell'unione. Tutta la simbologia femminile e lunare è qui riproposta persino nel particolare del melograno, simbolo a un tempo di Yesod e di Malcouth, della luna e della terra, della morte e della risurrezione.

Su questa scia si potrebbe continuare a lungo se questo fosse un vero e proprio studio sul Cantico dei Cantici, ma l'intento è piuttosto quello di mostrare la fondatezza di un interpretazione del Cantico dal punto di vista della Qabalah, tenendo altresì conto che un'interpretazione alchemica male si concilia con la tradizione religiosa degli Ebrei e che proprio nell'ultimo capitolo del Cantico traspare il nome stesso del Tetragramma. É vero, d'altra parte, che nel quinto versetto del penultimo capitolo: "Il tuo capo è come il Carmelo e le chiome del tuo capo sono come la porpora del re legata nei canali" le due interpretazioni, almeno nel commento dello Zohar, si conciliano e che, se collochiamo tutti i sistemi iniziatici sin qui ricordati sull' Albero della vita, ci accorgiamo che conducono tutti a Tiphereth, cioè alla realizzazione della Grande Opera. In ciascuno, tuttavia appare diverso il cammino per raggiungere la sephira centrale dell' Albero. Se ascendiamo infatti per i due sentieri centrali: il trentaduesimo o sentiero di Saturno, che unisce Yesod a Malcouth, e il venticinquesimo che va da Yesod a Tiphereth, noi operiamo secondo i principi dell'alchimia ermetica. Se utilizziamo per l'ascesa le varie tecniche di magia sessuale o di magia cerimoniale, dobbiamo procedere a serpentina, sino a raggiungere Tiphereth dal lato sinistro dell'Albero. Passiamo in tal caso per i sentieri ventinovesimo, ventisettesimo e ventiseiesimo a meno che, all'ultimo momento non prendiamo la scorciatoia offerta dal ventiquattresimo sentiero che da Netzâ sale direttamente a Tiphereth. É questa però una strada assai difficile o addirittura impraticabile perché il ventinovesimo sentiero ci appesantisce e ci riempie di scorie.

Per tentare di raggiungere Tiphereth dal lato sinistro dell'Albero ci sono altre due strade: quella che passa per i sentieri trentunesimo e ventiseiesimo e quella che passa per i sentieri trentaduesimo, trentesimo e ventiseiesimo. Anche se il secondo è un sentiero più bilanciato dell'altro, sono entrambi sentieri della mano sinistra e della magia.

Per salire a Tiphereth, a questo punto, non resta che una strada: quella che passa per i sentieri trentaduesimo, ventottesimo e ventiquattresimo. Per la verità, un'autentica ascesa a Tiphereth, come si è visto dalla lettura del Cantico, presuppone l'unificazione di tutte le sephiroth. In altri termini, per ascendere lungo l'Albero occorre non solo saper salire a Tiphereth, ma una volta qui dobbiamo ricevere l'illuminazione che ci consenta di seguitare a viaggiare per tutti i sentieri che corrono tra la terza e la decima sephira. Solo allora saremo stabilmente in Tiphereth e avremo infine realizzato l'Opera.

Non è tuttavia indifferente il modo di salire per la prima volta a Tiphereth. In definitiva, non ci sono che tre sentieri che conducono alla sephira centrale: il venticinquesimo, proprio dell' alchimia, il ventiseiesimo, comune alle varie forme di magia rossa e nera e, infine, il ventiquattresimo attraverso il quale può tentare di salire l'iniziato della Qabalah il quale abbia compreso il significato di santità che la tradizione religiosa degli Ebrei riconosce al Cantico dei Cantici.

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