Quinto Dialogo

Interlocutori: Dicsono Arelio, Teofilo, Gervasio, Poliinnio.

 

•Teofilo•È dunque l'universo uno, infinito, inmobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser essere compreso; e però infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza inmobile. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere, che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito; a cui come non si può aggiongere, cossì è da cui non si può suttrarre, per ciò che lo infinito non ha parte proporzionabili. Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno, da cui patisca e per cui venga in qualche affezione. Oltre che, per comprender tutte contrarietadi nell'esser suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione posser avere ad altro e novo essere, o pur ad altro e altro modo di essere, non può esser soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso, che lo alteri, perché in lui è ogni cosa concorde. Non è materia, perché non è figurato né figurabile, non è terminato né terminabile. Non è forma, perché non informa né figura altro, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo. Non è misurabile né misura. Non si comprende, perché non è maggior di sé. Non si è compreso, perché non è minor di sé. Non si agguaglia, perché non è altro e altro ma uno e medesimo. Essendo medesimo e uno, non ha essere ed essere; e perché non ha essere ed essere, non ha parte e parte; e per ciò che non ha parte e parte, non è composto. Questo è termine di sorte che non è termine, è talmente forma che non è forma, è talmente materia che non è materia, è talmente anima che non è anima: perché è il tutto indifferentemente, e però è uno, l'universo è uno.
 

In questo certamente non è maggiore l'altezza che la lunghezza e profondità; onde per certa similitudine si chiama, ma non è, sfera. Nella sfera, medesima cosa è lunghezza che larghezza e profondo, perché hanno medesimo termino; ma ne l'universo medesima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché medesimamente non hanno termine e sono infinite. Se non hanno mezzo, quadrante e altre misure, se non vi è misura, non vi è parte proporzionale, né assolutamente parte che differisca dal tutto. Perché, se vuoi dir parte de l'infinito, bisogna dirla infinito; se è infinito, concorre in uno essere con il tutto: dunque l'universo è uno, infinito, impartibile. E se ne l'infinito non si trova differenza, come di tutto e parte, e come di altro e altro, certo l'infinito è uno. Sotto la comprensione de l'infinito non è parte maggiore e parte minore, perché alla proporzione de l'infinito non si accosta più una parte quantosivoglia maggiore che un'altra quantosivoglia minore; e però ne l'infinita durazione non differisce la ora dal giorno, il giorno da l'anno, l'anno dal secolo, il secolo dal momento; perché non son più gli momenti e le ore che gli secoli, e non hanno minor proporzione quelli che questi a la eternità. Similmente ne l'immenso non è differente il palmo dal stadio, il stadio da la parasanga; perché alla proporzione de la inmensitudine non più si accosta per le parassoth che per i palmi. Dunque infinite ore non son più che infiniti secoli, e infiniti palmi non son di maggior numero che infinite parassoth. Alla proporzione, similitudine, unione e identità de l'infinito non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell'infinito queste cose sono indifferenti. E quello che dico di queste, intendo di tutte l'altre cose di sussistenza particulare.
 

Or, se tutte queste cose particulari ne l'infinito non sono altro e altro, non sono differenti, non sono specie, per necessaria consequenza non sono numero; dunque, l'universo è ancor uno immobile. Questo, perché comprende tutto, e non patisce altro e altro essere, e non comporta seco né in sé mutazione alcuna; per consequenza, è tutto quello che può essere; ed in lui (come dissi l'altro giorno) non è differente l'atto da la potenza. Se dalla potenza non è differente l'atto, è necessario che in quello il punto, la linea, la superficie e il corpo non differiscano: perché cossì quella linea è superficie, come la linea, movendosi, può essere superficie; cossì quella superficie è mossa ed è fatta corpo, come la superficie può moversi e, con il suo flusso, può farsi corpo. È necessario dunque che il punto ne l'infinito non differisca dal corpo, perché il punto, scorrendo da l'esser punto, si fa linea; scorrendo da l'esser linea, si fa superficie; scorrendo da l'esser superficie, si fa corpo; il punto, dunque, perché è in potenza ad esser corpo, non differisce da l'esser corpo dove la potenza e l'atto è una medesima cosa.
 

Dunque, l'individuo non è differente dal dividuo, il simplicissimo da l'infinito, il centro da la circonferenza. Perché dunque l'infinito è tutto quello che può essere; è inmobile; perché in lui tutto è indifferente, è uno; e perché ha tutta la grandezza e perfezione che si possa oltre e oltre avere, è massimo ed ottimo immenso. Se il punto non differisce dal corpo, il centro da la circonferenza, il finito da l'infinito, il massimo dal minimo, sicuramente possiamo affirmare che l'universo è tutto centro, o che il centro de l'universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella. Ecco come non è impossibile, ma necessario che l'ottimo, massimo, incompreensibile è tutto, è per tutto, è in tutto, perché, come semplice e indivisibile, può esser tutto, essere per tutto, essere in tutto. E cossì non è stato vanamente detto che Giove empie tutte le cose, inabita tutte le parti de l'universo, è centro de ciò che ha l'essere, uno in tutto e per cui uno è tutto. Il quale, essendo tutte le cose e comprendendo tutto l'essere in sé, viene a far che ogni cosa sia in ogni cosa.
 

Ma mi direste: perché dunque le cose si cangiano, la materia particulare si forza ad altre forme? Vi rispondo, che non è mutazione che cerca altro essere, ma altro modo di essere. E questa è la differenza tra l'universo e le cose de l'universo; perché quello comprende tutto lo essere e tutti i modi di essere: di queste ciascuna ha tutto l'essere, ma non tutti i modi di essere; e non può attualmente aver tutte le circostanze e accidenti, perché molte forme sono incompossibili in medesimo soggetto, o per esserno contrarie o per appartener a specie diverse; come non può essere medesimo supposito individuale sotto accidenti di cavallo e uomo, sotto dimensioni di una pianta e uno animale. Oltre, quello comprende tutto lo essere totalmente, perché estra e oltre lo infinito essere non è cosa che sia, non avendo estra né oltra; di queste poi ciascuna comprende tutto lo essere, ma non totalmente, perché oltre ciascuna sono infinite altre. Però intendete tutto essere in tutto, ma non totalmente e omnimodamente in ciascuno. Però intendete come ogni cosa è una, ma non unimodamente.
 

Però non falla chi dice uno essere lo ente, la sustanza e l'essenzia; il quale, come infinito e interminato, tanto secondo la sustanza quanto secondo la durazione quanto secondo la grandezza quanto secondo il vigore, non ha raggione di principio né di principiato; perché, concorrendo ogni cosa in unità e identità, dico medesimo essere, viene ad avere raggione absoluta e non respettiva. Ne l'uno infinito, inmobile, che è la sustanza, che è lo ente, se vi trova la moltitudine, il numero, che, per essere modo e moltiformità de lo ente, la quale viene a denominar cosa per cosa, non fa per questo che lo ente sia più che uno, ma moltimodo e moltiforme e moltifigurato. Però, profondamente considerando con gli filosofi naturali, lasciando i logici ne le lor fantasie, troviamo che tutto lo che fa differenza e numero, è puro accidente, è pura figura, è pura complessione. Ogni produzione, di qualsivoglia sorte che la sia, è una alterazione, rimanendo la sustanza sempre medesima; perché non è che una, uno ente divino, immortale. Questo lo ha possuto intendere Pitagora, che non teme la morte, ma aspetta la mutazione. L'hanno possuto intendere tutti filosofi, chiamati volgarmente fisici, che niente dicono generarsi secondo sustanza né corrompersi, se non vogliamo nominar in questo modo la alterazione. Questo lo ha inteso Salomone, che dice "non essere cosa nova sotto il sole, ma quel che è fu già prima". Avete dunque come tutte le cose sono ne l'universo, e l'universo è in tutte le cose; noi in quello, quello in noi; e cossì tutto concorre in una perfetta unità. Ecco come non doviamo travagliarci il spirto, ecco come cosa non è, per cui sgomentarne doviamo. Perché questa unità è sola e stabile, e sempre rimane; questo uno è eterno; ogni volto, ogni faccia, ogni altra cosa è vanità, è come nulla, anzi è nulla tutto lo che è fuor di questo uno. Quelli filosofi hanno ritrovata la sua amica Sofia, li quali hanno ritrovata questa unità. Medesima cosa a fatto è la sofia, la verità, la unità. Hanno saputo tutti dire che vero, uno ed ente son la medesima cosa, ma non tutti hanno inteso: perché altri hanno seguitato il modo di parlare, ma non hanno compreso il modo d'intendere di veri sapienti. Aristotele, tra gli altri, che non ritrovò l'uno, non ritrovò lo ente, e non ritrovò il vero, perché non conobbe come uno lo ente; e benché fusse stato libero di prendere la significazione de lo ente comune alla sustanza e l'accidente, e oltre de distinguere le sue categorie secondo tanti geni e specie per tante differenze, non ha lasciato però di essere non meno poco aveduto nella verità per non profondare alla cognizione di questa unità e indifferenza de la costante natura ed essere; e, come sofista ben secco, con maligne esplicazioni e con leggiere persuasioni pervertere le sentenze degli antichi e opporsi a la verità, non tanto forse per imbecillità de intelletto, quanto per forza d'invidia e ambizione.
 

•Dicasana•Sì che questo mondo, questo ente, vero, universo, infinito, inmenso, in ogni sua parte è tutto, tanto che lui è lo istesso ubique. Laonde ciò che è ne l'universo, al riguardo de l'universo (sia che si vuole a rispetto de li altri particolari corpi), è per tutto secondo il modo della sua capacità; perché è sopra, è sotto, infra, destro, sinistro, e secondo tutte differenze locali, perché in tutto lo infinito son tutte queste differenze e nulla di queste. Ogni cosa che prendemo ne l'universo, perché ha in sé quello che è tutto per tutto, comprende in suo modo tutta l'anima del mondo (benché non totalmente, come già abbiamo detto); la quale è tutta in qualsivoglia parte di quello. Però, come lo atto è uno, e fa uno essere, ovunque lo sia, cossì nel mondo non è da credere che sia pluralità di sustanza e di quello che veramente è ente.
 

Appresso so che avete come cosa manifesta che ciascuno di tutti questi mondi innumerabili, che noi veggiamo ne l'universo, non sono in quello tanto come in un luogo continente e come in uno intervallo e spacio, quanto come in uno comprensore, conservatore, motore, efficiente; il quale cossì tutto vien compreso da ciascuno di questi mondi, come l'anima tutta da ciascuna parte del medesimo. Però, benché un particolare mondo si muova verso e circa l'altro, come la terra al sole e circa il sole, nientedimeno al rispetto dell'universo nulla si muove verso né circa quello, ma in quello.
 

Oltre, volete che sì come l'anima (anco secondo il dir comune) è in tutta la gran mole, a cui dà l'essere, e insieme insieme è individua, e per tanto medesimamente è in tutto e in qualsivoglia parte intieramente; cossì la essenza de l'universo è una nell'infinito ed in qualsivoglia cosa presa come membro di quello, sì che a fatto il tutto e ogni parte di quello viene ad esser uno secondo la sustanza; onde non essere inconvenientemente detto da Parmenide uno, infinito immobile, sia che si vuole della sua intenzione, la quale è incerta, riferita da non assai fidel relatore.
 

Dite che quel tutto che si vede di differenza negli corpi,.quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori e altre proprietadi e comunitadi, non è altro che un diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrottibile di uno inmobile, perseverante ed eterno essere; in cui son tutte forme, figure e membri, ma indistinti e come agglomerati, non altrimente che nel seme, nel quale non è distinto il braccio da la mano, il busto dal capo, il nervo da l'osso. La qual distinzione e sglomeramento non viene a produre altra e nuova sustanza, ma viene a ponere in atto e compimento certe qualitadi, differenze, accidenti e ordini circa quella sustanza. E quel che si dice del seme al riguardo de le membra degli animali, medesimo si dice del cibo al riguardo de l'esser chilo, sangue, flemma, carne, seme; medesimo di qualch'altra cosa, che precede l'esser cibo o altro; medesimo di tutte cose, montando da l'infimo grado della natura sino al supremo di quella montando da l'università fisica, conosciuta da' filosofi, alla altezza dell'archetipa, creduta da' teologi, se ti piace; sin che si dovenga ad una originale ed universale sustanza medesima del tutto, la quale si chiama lo ente, fondamento di tutte specie e forme diverse; come ne l'arte fabrile è una sustanza di legno soggetta a tutte misure e figure, che non son legno, ma di legno, nel legno, circa il legno. Però tutto quello che fa diversità di geni, di specie, differenze, proprietadi, tutto che consiste nella generazione, corrozione, alterazione e cangiamento, non è ente, non è essere, ma condizione e circostanza di ente ed essere; il quale è uno, infinito, immobile, soggetto, materia, vita, anima, vero e buono.
 

Volete che per essere lo ente indivisibile e semplicissimo, perché è infinito e atto tutto in tutto e tutto in ogni parte (in modo che diciamo parte nello infinito, non parte dello infinito), non possiamo pensar in modo alcuno che la terra sia parte dello ente, il sole parte della sustanza, essendo quella impartibile; ma sì bene è lecito dire sustanza della parte o pur, meglio, sustanza nella parte; cossì, come non è lecito dire parte dell'anima esser nel braccio, parte dell'anima esser nel capo, ma sì bene l'anima nella parte che è il capo, la sustanza della parte o nella parte che è il braccio. Perché lo essere porzione, parte, membro, tutto, tanto quanto, maggiore minore, come questo come quello, di questo di quello, concordante, differente e di altre raggioni che non significano uno assoluto, e però non si possono riferire alla sustanza, a l'uno, a l'ente, ma per la sustanza, nell'uno e circa lo ente, come modi, raggioni e forme; cossì, come comunmente si dice circa una sustanza essere la quantità, la qualità, relazione, azione, passione e altri circostanti geni, talmente ne l'uno ente summo, nel quale è indifferente l'atto dalla potenza, il quale può essere tutto assolutamente ed è tutto quello che può essere, è complicatamente uno, inmenso, infinito, che comprende tutto lo essere ed è esplicatamente in questi corpi sensibili e in la distinta potenza e atto che veggiamo in essi. Però volete che quello che è generato e genera (o sia equivoco o univoco agente, come dicono quei che volgarmente filosofano) e quello di che si fa la generazione, sempre sono di medesima sustanza. Per il che non vi sonarà mal ne l'orecchio la sentenza di Eraclito, che disse tutte le cose essere uno, il quale per la mutabilità ha in sé tutte le cose; e perché tutte le forme sono in esso, conseguentemente tutte le diffinizioni gli convegnono; e per tanto le contradittorie enunciazioni son vere. E quello che fa la moltitudine ne le cose, non è lo ente, non è la cosa, ma quel che appare, che si rapresenta al senso ed è nella superficie della cosa.
 

•Teofilo•Cossì è. Oltre questo, voglio che apprendiate più capi di questa importantissima scienza e di questo fondamento solidissimo de le veritadi e secreti di natura. Prima, dunque, voglio che notiate essere una e medesima scala per la quale la natura descende alla produzion de le cose, e l'intelletto ascende alla cognizion di quelle; e che l'uno e l'altra da l'unità procede all'unità, passando per la moltitudine di mezzi. Lascio che, con il suo modo di filosofare, gli Peripatetici e molti Platonici alla moltitudine de le cose, come al mezzo, fanno procedere il purissimo atto da un estremo e la purissima potenza da l'altro; come vogliono altri per certa metafora convenir le tenebre e la luce alla constituzione de innumerabili gradi di forme, effigie, figure e colori. Appresso i quali, che considerano dui principii e dui principi, soccorreno altri nemici e impazienti di poliarchia, e fanno concorrere quei doi in uno, che medesimamente è abisso e tenebra, chiarezza e luce, oscurità profonda e impenetrabile, luce superna e inaccessibile.
 

Secondo, considerate che l'intelletto, volendo liberarse e disciorse dall'immaginazione alla quale è congionto, oltre che ricorre alle matematiche ed imaginabili figure, a fin che o per quelle o per la similitudine di quelle comprenda l'essere e la sustanza de le cose, viene ancora a riferire la moltitudine e diversità di specie a una e medesima radice. Come Pitagora che puose gli numeri principii specifici de le cose, intese fundamento e sustanza di tutti la unità; Platone ed altri, che puosero le specie consistenti nelle figure, di tutti il medesimo ceppo e radice intesero il punto come sustanza e geno universale. E forse le superficie e figure son quelle che al fine intese Platone per il suo Magno, e il punto e atomo è quello che intese per il suo Parvo, gemini principii specifici de le cose; i quali poi si riducono ad uno, come ogni dividuo a l'individuo. Que' dunque che dicono, il principio sustanziale esser l'uno, vogliono che le sustanze son come i numeri; gli altri che intendeno il principio sustanziale come il punto, vogliono le sustanze de cose essere come figure; e tutti convegnono con ponere un principio individuo. Ma meglior e più puro è il modo di Pitagora che quel di Platone, perché la unità è causa e raggione della individuità e puntalità, ed è un principio più absoluto e accomodabile a l'universo ente.
 

•Gervasio•Perché Platone, che venne appresso, non fece similmente né meglio che Pitagora?.
 

•Teofilo•Perché volse più tosto, dicendo peggio e con men comodo e appropriato modo, esser stimato maestro che, dicendo megliormente e meglio, farsi riputar discepolo. Voglio dire, che il fine de la sua filosofia era più la propria gloria che la verità; atteso che non posso dubitar che lui sapesse molto bene che il suo modo era appropriato più alle cose corporali e corporalmente considerate, e quell'altro non meno accomodato e appropriabile a queste, che a tutte l'altre che la raggione, l'imaginazione, l'intelletto, l'una e l'altra natura sapesse fabricare. Ogniuno confessarà, che non era occolto a Platone che la unità e numeri necessariamente essaminano e donano raggione di punto e figure, e non sono essaminati e non prendeno raggione da figure e punti necessariamente, come la sustanza dimensionata e corporea depende dall'incorporea e individua; oltre che questa è absoluta da quella, perché la raggione di numeri si trova senza quella de misura, ma quella non può essere absoluta da questa, perché la raggione di misure non si trova senza quella di numeri. Però la aritmetrica similitudine e proporzione è più accomodata che la geometrica, per guidarne per mezzo de la moltitudine alla contemplazione e apprensione di quel principio indivisibile; che, per essere unica e radical sustanza di tutte cose, non è possibile, ch'abbia un certo e determinato nome, e tal dizione che significhe più tosto positiva che privativamente: e però è stato detto da altri punto, da altri unità, da altri infinito, e secondo varie raggioni simili a queste.
 

Aggiungi a quel che è detto che, quando l'intelletto vuol comprendere l'essenzia d'una cosa, va simplificando quanto può: voglio dire, dalla composizione e moltitudine se ritira, rigittando gli accidenti corrottibili, le dimensioni, i segni, le figure a quello che sottogiace a queste cose. Cossì la lunga scrittura e prolissa orazione non intendemo, se non per contrazione ad una semplice intenzione.

 

L'intelletto in questo dimostra apertamente come ne l'unità consista la sustanza de le cose, la quale va cercando o in verità o in similitudine. Credi, che sarebbe consummatissimo e perfettissimo geometra quello che potesse contraere ad una intenzione sola tutte le intenzioni disperse ne' principii di Euclide; perfettissimo logico chi tutte le intenzioni contraesse ad una. Quindi è il grado delle intelligenze; perché le inferiori non possono intendere molte cose, se non con molte specie, similitudini e forme; le superiori intendeno megliormente con poche; le altissime con pochissime perfettamente. La prima intelligenza in una idea perfettissimamente comprende il tutto; la divina mente e la unità assoluta, senza specie alcuna, è ella medesimo lo che intende e lo ch'è inteso. Cossì dunque, montando noi alla perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine; come, descendendosi alla produzione de le cose, si va esplicando la unità. Il descenso è da uno ente ad infiniti individui e specie innumerabili, lo ascenso è da questi a quello.
 

Per conchiudere dunque questa seconda considerazione, dico che, quando aspiriamo e ne forziamo al principio e sustanza de le cose, facciamo progresso verso la indivisibilità; e giamai credemo esser gionti al primo ente e universal sustanza sin che non siamo arrivati a quell'uno individuo in cui tutto si comprende; tra tanto non più credemo comprendere di sustanza e di essenza, che sappiamo comprendere di indivisibilità. Quindi i Peripatetici e Platonici infiniti individui riducono ad una individua raggione di molte specie; innumerabili specie comprendono sotto determinati geni, quali Archita primo volse che fussero diece; determinati geni ad uno ente, una cosa; la qual cosa ed ente è compresa da costoro come un nome e dizione ed una logica intenzione, e in fine una vanità. Perché, trattando fisicamente poi, non conosceno uno principio di realità ed essere di tutto quel che è, come una intenzione e nome comune a tutto quel che si dice e si comprende. Il che certo è accaduto per imbecillità di intelletto.
 

Terzo, devi sapere che, essendo la sustanza ed essere distinto ed assoluto da la quantità, e per conseguenza la misura e numero non è sustanza ma circa la sustanza, non ente ma cosa di ente, aviene che necessariamente doviamo dire la sustanza essenzialmente essere senza numero e senza misura, e però una e individua in tutte le cose particolari; le quali hanno la sua particularità dal numero, cioè da cose che sono circa la sustanza. Onde chi apprende Poliinnio come Poliinnio, non apprende sustanza particolare, ma sustanza nel particolare e nelle differenze, che son circa quella; la quale per esse viene a ponere questo uomo in numero e moltitudine sotto una specie. Qua, come certi accidenti umani fanno moltiplicazione di questi chiamati individui dell'umanità, cossì certi accidenti animali fanno moltiplicazione di queste specie dell'animalità. Parimenti certi accidenti vitali fanno moltiplicazione di questo animato e vivente. Non altrimente certi accidenti corporei fanno moltiplicazione di corporeità. Similmente certi accidenti di sussistenza fanno moltiplicazione di sustanza. In tal maniera certi accidenti di essere fanno moltiplicazione di entità, verità, unità, ente, vero, uno.
 

 Quarto, prendi i segni e le verificazioni per le quali conchiuder vogliamo gli contrarii concorrere in uno, onde non fia difficile al fine inferire che le cose tutte sono uno, come ogni numero, tanto pare quanto ìmpare, tanto finito quanto infinito, se riduce all'unità; la quale iterata con il finito pone il numero, e con l'infinito nega il numero. I segni le prenderai dalla matematica, le verificazioni da le altre facultadi morali e speculative. Or, quanto a' segni, ditemi: che cosa è più dissimile alla linea retta, che il circolo? che cosa è più contrario al retto che il curvo? Pure nel principio e minimo concordano, atteso che (come divinamente notò il Cusano, inventor di più bei secreti di geometria) qual differenza trovarai tu tra il minimo arco e la minima corda? Oltre, nel massimo, che differenza trovarai tra il circolo infinito e la linea retta? Non vedete come il circolo, quanto è più grande, tanto più con il suo arco si va approssimando alla rettitudine? Chi è sì cieco, che non veda qualmente l'arco BB, per esser più grande che l'arco AA, e l'arco CC più grande che l'arco BB, e l'arco DD più che gli altri tre, riguardano ad esser parte di maggior circolo; e con questo più e più avicinarsi alla rettitudine della linea infinita del circolo infinito, significata per IK? Quivi certamente bisogna dire e credere che, sì come quella linea che è più grande, secondo la raggione di maggior grandezza, è anco più retta; similmente la massima di tutte deve essere in superlativo più di tutte retta; tanto che al fine la linea retta infinita vegna ad esser circolo infinito. Ecco dunque come non solamente il massimo e il minimo convegnono in uno essere, come altre volte abbiamo dimostrato, ma ancora nel massimo e nel minimo vegnono ad essere uno e indifferente gli contrari.
 

Oltre, se ti piace comparare le specie finite al triangolo, perché dal primo finito e primo terminato tutte le cose finite se intendeno, per certa analogia, participare a finitudine e la terminazione (come in tutti geni li predicati analogi tutti prendeno il grado e ordine dal primo e massimo di quel geno), per tanto che il triangolo è la prima figura, la quale non si può risolvere in altra specie di figura più semplice (come, per il contrario, il quatrangolo se risolve in triangoli), e però è primo fondamento d'ogni cosa terminata e figurata: trovarai che il triangolo, come non si risolve in altra figura, similmente non può procedere in triangoli di quai gli tre angoli sieno maggiori o minori, benché sieno varii e diversi, di varie e diverse figure, quanto alla magnitudine maggiore e minore, minima e massima. Però se poni un triangolo infinito (non dico realmente e assolutamente, perché l'infinito non ha figura; ma infinito dico per supposizione, e per quanto angolo dà luogo a quello che vogliamo dimostrare) quello non arà angolo maggiore che il triangolo minimo finito, non solo che li mezzani e altro massimo.
 

Lasciando stare la comparazione de figure e figure, dico di triangoli e triangoli; e prendendo angoli e angoli, tutti, quantunque grandi e piccioli, sono equali, come in questo quadro appare. Il quale per il diametro è diviso in tanti triangoli: dove si vede che non solamente sono uguali li angoli retti di tre quadrati A, B, C, ma anco tutti gli acuti che risultano per divisione di detto diametro, che constituisce tanti al doppio triangoli, tutti di equali angoli. Quindi per similitudine molto espressa si vede come la una infinita sustanza può essere in tutte le cose tutta, benché in altri finita in altri infinitamente, in questi con minore in quelli con maggiore misura.
 

Giongi a questo (per veder oltre che in questo uno e infinito li contrarii concordano) che lo angolo acuto e ottuso sono dui contrarii, i quali non vedi qualmente nascono da uno individuo e medesimo principio, cioè da una inclinazione che fa la linea perpendicolare M, che si congionge alla linea iacente BD, nel punto C? Questa, su quel punto, con una semplice inclinazione verso il punto D, dopo che faceva indifferentemente angulo retto e retto, viene a far tanto maggior differenza di angolo acuto e ottuso, quanto più s'avicina al punto C; al quale essendo gionta e unita, fa l'indifferenza d'acuto e ottuso, similmente annullandosi l'uno e l'altro, perché sono uno nella potenza di medesima linea. Quella come ha possuto unirsi e farsi indifferente con la linea BD, cossì può disunirsi e farsi differente da quella, suscitando da medesimo, uno e individuo principio i contrariissimi angoli, che sono il massimo acuto e massimo ottuso sin al minimo acuto e ottuso minimo, ed oltre all'indifferenza di retto e quella concordanza che consiste nel contatto della perpendicolare e iacente.
 

Quanto alle verificazioni poi, chi non sa primamente circa le qualitadi attive prime della natura corporea, che il principio del calore è indivisibile, e però separato da ogni calore, perché il principio non deve essere cosa alcuna de le principiate? Se è cossì, chi deve dubitare di affirmare che il principio non è caldo né freddo, ma uno medesimo del caldo e del freddo? Onde aviene che un contrario è principio de l'altro, e che però le trasmutazioni son circolari, se non per essere un soggetto, un principio, un termine e una continuazione e un concorso de l'uno e l'altro? Il minimo caldo e il minimo freddo non son tutto uno? Dal termine del massimo calore non si prende il principio del moto verso il freddo? Quindi è aperto che non solo ocorreno talvolta i dui massimi nella resistenza e li dui minimi nella concordanza, ma etiam il massimo e il minimo per la vicissitudine di trasmutazione; onde non senza caggione nell'ottima disposizione sogliono temere i medici; nel supremo grado della felicità son più timidi gli providi. Chi non vede uno essere il principio della corrozione e generazione? L'ultimo del corrotto non è principio del generato? Non diciamo insieme: tolto quello, posto questo? era quello, è questo? Certo (se ben misuramo) veggiamo che la corrozione non è altro che una generazione, e la generazione non è altro che una corrozione; l'amore è un odio, l'odio è un amore, al fine. L'odio del contrario è amore del conveniente; l'amor di questo è l'odio di quello. In sustanza dunque e radice, è una medesima cosa amore e odio, amicizia e lite. Da onde più comodamente cerca l'antidoto il medico, che dal veleno? Chi porge meglior teriaca, che la vipera? Ne' massimi veneni ottime medicine. Una potenza non è di dui contrarii oggetti? Or onde credi che ciò sia, se non da quel, che cossì uno è il principio de l'essere come uno è il principio di concepere l'uno e l'altro oggetto; e che cossì li contrarii son circa un soggetto come sono appresi da uno e medesimo senso? Lascio che l'orbicolare posa nel piano, il concavo s'acqueta e risiede nel convesso, l'iracondo vive gionto al paziente, al superbissimo massimamente piace l'umile, a l'avaro il liberale.
 

In conclusione, chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrarii e oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto de l'unione. A questo tendeva con il pensiero il povero Aristotele, ponendo la privazione (a cui è congionta certa disposizione) come progenitrice, parente e madre della forma; ma non vi poté aggiungere. Non ha possuto arrivarvi, perché, fermando il piè nel geno de l'opposizione, rimase inceppato di maniera che, non descendendo alla specie de la contrarietà, non giunse, né fissò gli occhi al scopo; dal quale errò a tutta passata, dicendo i contrarii non posser attualmente convenire in soggetto medesimo.
 

•Poliinnio•Alta, rara e singularmente avete determinato del tutto, del massimo, de l'ente, del principio, de l'uno. Ma vi vorei veder distinguere de l'unità, perché trovo un Vae soli! Oltre che, sento grande angoscia per quel, che nel mio marsupio e crumena non vi alloggia più che un vedovo solido.
 

•Teofilo•Quella unità è tutto, la quale non è esplicata, non è sotto distribuzione e distinzione di numero, e tal singularità che tu intendereste forse; ma che è complicante e comprendente.
 

•Poliinnio•Exemplum? perché, a dire il vero, intendo, ma non capio.
 

•Teofilo•Come il denario è una unità similmente, ma complicante, il centenario non meno è unità, ma più complicante; il millenario non è unità meno che l'altre, ma molto più complicante. Questo che ne l'aritmetrica vi propono, devi più alta e semplicemente intenderlo ne le cose tutte. Il sommo bene, il sommo appetibile, la somma perfezione, la somma beatitudine consiste nell'unità che complica il tutto. Noi ne delettamo nel colore; ma non in uno esplicato qualunque sia, ma massime in uno che complica tutti colori. Ne delettamo nella voce, non in una singulare, ma in una complicante che resulta da l'armonia di molte. Ne delettamo in uno sensibile, ma massime in quello che comprende in sé tutti sensibili; in uno cognoscibile che comprende ogni cognoscibile; in uno apprensibile che abbraccia tutto che si può comprendere; in uno ente che complette tutto, massime in quello uno che è il tutto istesso. Come tu, Poliinnio, ti delettareste più ne l'unità di una gemma tanto preziosa, che contravalesse a tutto l'oro del mondo, che nella moltitudine di migliaia delle migliaia di tai soldi di quali ne hai uno in borsa.
 

•Poliinnio•Optime.
 

•Gervasio•Eccomi dotto; perché come chi non intende uno, non intende nulla, cossì chi intende veramente uno, intende tutto; e chi più s'avicina all'intelligenza dell'uno, s'approssima più all'apprension di tutto.
 

•Dicasana•Cossì io, se ho ben compreso, mi parto molto arrichito dalla contemplazione del Teofilo, fidel relatore della nolana filosofia.
 

•Teofilo•Lodati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima e absolutissima causa, principio e uno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

De Causa, Principio e Uno

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Musica: "Caelum non animum" (Carmina Burana  secolo XIII)