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L'Universo è una Illusione?

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Se ci guardiamo intorno, vediamo una molteplicità di esistenti che si dislocano nello spazio e divengono attraverso il tempo. Così gli esistenti ci appaiono. Ma come sono realmente? Qual è il loro vero essere, la loro verità?
Ce lo chiediamo, perché abbiamo la sensazione viva che al di là delle apparenze ci sia una realtà più fondamentale, una realtà assoluta, definibile in maniera ben diversa. Così noi ci sentiamo sollecitati ad affinare, ad approfondire la nostra sensibilità metafisica; e via via sentiamo di conseguire una sensibilità sempre più matura.
Ecco, allora, che, alla luce di una migliore presa di coscienza, ci pare di aver compiuta un’importante scoperta. Di che si tratta? Possiamo esprimere questa nuova intuizione in brevi parole?
Penso che si possa riassumere in una frase come queste che seguono: “L’intera, profonda, assoluta realtà delle cose è olografica”; “L’intero, profondo, assoluto essere degli esistenti è un ologramma”; “Il tutto (la totalità delle cose, la totalità degli esistenti) è un ologramma”, alias “è olografico”. Cercherò di definire meglio il senso di tutto questo, procedendo per gradi.
Nel proporre le definizioni, un po’ lapidarie, appena enunciate, ho tirato fuori di punto in bianco due parole: il sostantivo “ologramma” col suo aggettivo “olografico”. Sono termini che richiedono una definizione previa.
Che cos’è un ologramma? Si è detto che la natura olografica del vero profondo essere delle cose è oggetto di una scoperta; ma, quanto all’ologramma, direi che si tratta, piuttosto, di un’invenzione.
L’olografia è un metodo, una maniera di fotografare un qualsiasi oggetto, sì da poterne ottenere una proiezione tridimensionale, solida, a differenza di quanto si ottiene per mezzo di una diapositiva o di una proiezione cinematografica, che sono piatte, a due sole dimensioni.
La luce laser è un tipo di luce estremamente pura e coerente, che in modo particolare si presta alla formazione di ologrammi. Un raggio di luce laser viene sdoppiato. Dei due raggi che ne risultano, il primo viene diretto su un oggetto da fotografare; mentre il secondo, per via di un sistema di specchi, viene ad incontrarsi con la luce riflessa del primo. I due raggi di luce che vengono a risultare in ultimo, incontrandosi, generano una configurazione o schema di interferenze, che viene registrato su una porzione di pellicola.
Attraverso questa porzione di pellicola si può proiettare un altro raggio laser o, in certi casi, anche solo una luce intensa. Se ne otterrà una immagine a tre dimensioni. Attorno a tale immagine si potrà girare a piacimento come esplorando una realtà concreta e viva, osservandola da ogni angolo visuale in tutti i suoi dettagli.
L’illusione ottica verrà meno solo quando allungheremo una mano, per constatare che quell’immagine è fatta di pura aria.
Si è visto, più o meno, che cos’è un ologramma. Ma, per concludere che l’intero essere delle cose è esso stesso olografico, bisogna compiere un altro passo avanti. Prendiamo la porzione di pellicola sulla quale un oggetto è fotografato, e tagliamola in pezzettini anche minutissimi. Noteremo che ciascun pezzettino comprende non una parte dell’ologramma, bensì l’ologramma intero. Potremmo dire, al limite, che ciascun punto dell’ologramma contiene il tutto.
Un terzo passo avanti è la constatazione che non solo ogni pellicola o frammento di pellicola ha questa proprietà, ma che il medesimo può dirsi della realtà universa, come di ciascun suo punto.
Si perviene ad una tale conclusione solo raccogliendo e confrontando tutti quei fenomeni che la suggeriscono in maniera sempre più diretta e specifica.
Ci è di particolare aiuto, in questo, un libro di Michael Talbot, che nell’edizione originale del 1991 è intitolato The olographic universe, e Tutto è uno – L’ipotesi della scienza olografica nell’edizione italiana.
Giova, all’inizio, riferire in estrema sintesi qualche essenziale notizia ricavabile da questo libro. Negli anni venti il neurochirurgo canadese Wilder Penfield si era convinto che ogni ricordo o tipo di ricordi particolare avesse nel cervello una sua locazione specifica. Al contrario Karl Pribram aveva osservato che, quando ad un paziente veniva asportata una porzione anche cospicua del cervello, egli non subiva mai la perdita di ricordi specifici.
Verso la metà degli anni sessanta, Pribram lesse un articolo che descriveva la prima costruzione di un ologramma. Ne fu sollecitato a riformulare la propria scoperta nei termini suggeriti da quella recente invenzione. E concluse che ogni parte del cervello contiene tutta l’informazione necessaria per richiamare un ricordo completo.
Pribram, poi, si rese conto che non solo la memoria, ma la stessa capacità di vedere non è affatto legata ad alcuna localizzazione del cervello, ma è diffusa e olografica.
Nel frattempo il fisico David Bohm perveniva alla conclusione che l’intero universo è strutturato come un ologramma.
Questo concetto è da porre in rapporto con la scoperta che un elettrone è del tutto privo di dimensioni spaziali. Esso, infatti, si può manifestare come particella, ma altresì come onda.
I fenomeni subatomici, detti quanti, sono sia onde che particelle. Si manifestano come particelle quando noi li guardiamo, altrimenti sono onde. Poiché esistono come particelle solo quando vengono osservate, non si può dire che le particelle subatomiche siano “cose” ciascuna esistente in sé in modo separato.
Il fisico danese Niels Bohr aveva concluso che i fenomeni subatomici sono parte di un sistema indivisibile. Bohm accettò e fece propria la posizione di Bohr, non solo, ma le diede ulteriore sostegno. Fu quando constatò che grandi quantità di elettroni dai movimenti apparentemente casuali rivelavano, poi, in realtà, un agire altamente coordinato. Ciascun fenomeno subatomico avveniva come se ogni particella sapesse bene quel che trilioni di altre particelle stavano facendo in contemporanea.
Bohr negava che, al di là del paesaggio subatomico, esistesse alcuna realtà più profonda, mentre invece fu questa la tesi di fondo verso cui si orientarono le ricerche di Bohm. Così questi pervenne a formulare l’idea che, al di là e alla base dei quanti di energia, si desse quello che chiamò il potenziale quantistico. E teorizzò che questo potenziale, al pari della gravità, pervadesse l’intero spazio.
C’era poi, per Bohm, una differenza rispetto ai campi gravitazionali e magnetici: l’influenza del potenziale quantistico non diminuiva con la distanza. Per quanto sottili fossero i suoi effetti, tale influenza era ugualmente potente ovunque.
Bohm, poi, denunciò la limitatezza del modo in cui la scienza contemporanea considerava la causalità. Per esempio si potrebbe chiedere a qualcuno che cosa fu a causare la morte di Abraham Lincoln. E questi potrebbe rispondere che fu il proiettile sparato dalla pistola di John Wilkes Booth. Ma una spiegazione più completa dovrebbe includere non solo tutti i fattori che indussero Booth a uccidere il presidente degli Stati Uniti, ma anche tutti gli eventi che condussero all’invenzione della pistola e prima ancora alle armi da fuoco. E, insomma, una risposta adeguata dovrebbe comprendere l’intera evoluzione dell’umanità e, prima ancora, dell’intero universo.
Nello svolgere e approfondire il suo concetto di potenziale quantistico, Bohm pervenne a definirlo come “interezza”. Una tale “interezza quantica” funziona in modo più simile all’unità organica di un essere vivente, che non all’unità ottenuta mediante l’assemblaggio delle parti di una macchina.
A questo livello subquantistico viene meno ogni localizzazione di parti in spazi diversi. Ciascun punto dello spazio equivale a ciascun altro. È la proprietà che i fisici chiamano “non località”.
A noi che lo captiamo, un elettrone si può esprimere nella forma di un corpuscolo, di una particella. Esso, tuttavia, nella sostanza non è una particella elementare: è semplicemente un nome che noi diamo ad un particolare aspetto della realtà intera.
La realtà totale è definibile un ologramma in movimento (od “olomovimento”). Così quelle che noi chiamiamo “parti” o “particelle” non possono mai ritenersi separate dal tutto, nella stessa maniera per cui i diversi getti di una fontana non potrebbero mai considerarsi separati dall’acqua che ne sgorga. Siamo, perciò, ben lontani anche dall’idea che la totalità dell’universo sia una massa amorfa, indifferenziata.
Un’altra idea di Bohm appare interessante all’estremo: che la materia sia, nel fondo, coscienza, e si esprima in un insieme di modi e gradazioni di coscienza. Nell’elettrone c’è già qualcosa di simile alla mente. E, similmente a un qualsiasi frammento di pellicola olografica, ciascuna porzione dell’ologramma cosmico contiene l’immagine dell’intero. Nell’unghia del pollice della nostra mano sinistra possiamo trovare l’incontro di Cesare e Cleopatra, come l’intera galassia di Andromeda.
Tutto questo apporta un nuovo significato alla celebre poesia di William Blake che dice:

 

Vedere un mondo in un granello di sabbia

e un paradiso in un fiore selvatico,

tenere l’infinito nel palmo della tua mano

e l’eternità in un’ora.
 

Bohm sostiene, poi, che, malgrado la sua materiale concretezza e immensità di dimensioni, l’universo non esiste di per sé per virtù propria, ma deriva da qualcosa di più fondamentale: è l’esprimersi visibile di un “ordine implicito” ancor più essenziale e originario. E non è detto che questo sia il limite ultimo delle cose.
Vorrei osservare che rimane, qui, un adeguato spazio per un vero assoluto e – perché no? – per un Dio creatore.
Vorrei notare ancora che, se Dio è Coscienza, c’è sicuramente un posto per Dio in un universo come quello bohmiano, dove, essendo tutto infinitamente interconnesso, sono interconnesse anche tutte le coscienze nell’unità di una Coscienza assoluta, infinita e quindi eterna.
Il volume di Michael Talbot, dalla cui prima parte ho attinto questi dati, ci offre un quadro assai chiaro di come l’idea dell’universo come ologramma prenda forma dalle ricerche della nuova fisica.
Personalmente io avevo già avuto modo di trattare la questione, di come la medesima idea olografica della realtà intera possa emergere da uno studio approfondito di vari fenomeni. Avevo, però, concentrato l’attenzione sui fenomeni paranormali. Quanto ho letto, con estremo interesse, nel successivo corso del libro di Talbot non fa che confermare le risultanze della mia personale indagine, di cui passo, ora, a fornire un breve schema.
Il carattere nonlocale della memoria e della vista suggerisce che il cervello non va identificato col soggetto di quelle funzioni, ma è un semplice strumento, di cui il soggetto umano si può servire o meno. Un animale o un uomo può ricordare e vedere anche quando ampie porzioni del cervello siano state asportate. Egli può ancora utilizzare, come organo della vista, un’altra parte del corpo – ad esempio i polpastrelli delle dita – in luogo dell’occhio.
Tutto questo suggerisce la conclusione che un soggetto vede e ricorda, non solo, ma vive le sue esperienze ed assume le proprie decisioni non col cervello, ma con la mente: con una mente che continua ad agire in modo pieno anche in circostanze in cui il cervello e il resto del corpo interrompano il loro normale funzionamento.
È quanto si può notare nel corso delle esperienze fuori del corpo e delle esperienze di premorte. Ne ho trattato io stesso nel mio volume Le esperienze di confine e la vita dopo la morte (esaurito e riproposto nel nostro sito internet, tra i Testi del Convivio, col titolo I fenomeni che suggeiscono la sopravvivenza). Per quanto concerne, in particolare, le esperienze fuori del corpo, tra i più significativi punti di riferimento ho menzionato in bibliografia opere di Ernesto Bozzano (1934), Celia Green, Susan Blackmore, Herbert Greenhouse, Sylvan Muldoon ed Hereward Carrington, Robert Monroe, Oliver Fox, Robert Crookall.
Quanto alle esperienze di premorte, un valido aiuto per una migliore comprensione di esse ci è offerto dalle parimenti ricordate opere di Raymond Moody, Karlis Osis ed Erlendur Haraldsson, Michael Sabom.
Nel suo uscire dal corpo fisico, la mente umana può assumere una forma simile a quella del corpo: può concretarsi in quello che viene chiamato il “doppio”.
La mente umana può anche esprimersi in una forma simile a quella di una sfera o di una nubecola. In ogni caso la mente si può localizzare a piccola distanza dal corpo fisico abbandonato.
Ma può, ancora, trasferirsi ad una distanza anche immensa, fino ad entrare in intimo contatto con la mente di un altro essere umano o fino ad inserirsi in una situazione corporea, in un luogo fisico.
Nell’immedesimarsi in un’altra mente, il soggetto umano di cui si parla può comunicare con essa in maniera diretta, attraverso un fenomeno di telepatia.
Nell’immedesimarsi in una situazione fisica lontana, può conoscere qualcosa di essa. E non certo per la mediazione di organi di senso, che in questo caso mancano, ma direttamente. Si avrà, in questo secondo caso, un fenomeno di telestesia o chiaroveggenza nel presente.
Su questi fenomeni si possono leggere utilmente le opere più classiche sotto ricordate di Eugène Osty, Ernesto Bozzano (1942), René Sudre, Gastone De Boni; e ancora libri come La telepatia di Vincenzo Nestler, Guida ai vostri poteri paranormali di Hereward Carrington, I poteri della mente e La chiaroveggenza di Manuela Pompas.
Si tratta pur sempre, qui, di un relativo identificarsi nell’altra persona e nell’altro luogo. Il soggetto umano che esperisce è qui, ed è, ad un tempo, immedesimato in quella persona e in quel luogo, pur siti a grandissima distanza. A differenza di quel che può verificarsi in fenomeni più accentuatamente fisici (come gli acustici e gli elettromagnetici), la distanza, come tale, non limita in alcun modo il fenomeno di telepatia e di chiaroveggenza, diciamo così, nella sua efficacia e buona riuscita.
Un soggetto umano può curarne un altro, malato, con le proprie mani, praticandogli massaggi o medicandolo o intervenendo con una operazione di chirurgia. Ma può altresì curarlo senza la mediazione delle mani e del proprio corpo in genere. Può trasferire in lui il proprio psichismo, in tal maniera che questo agisca direttamente sullo psichismo dell’infermo.
Tale diretta azione dello psichismo del “guaritore” o del “pranoterapeuta” su quello disarmonico di un uomo sofferente potrà riequilibrarlo, perché esso a propria volta possa agire sul fisico nella maniera più positiva e proficua, facendolo funzionare nella maniera giusta.
Sulla pranoterapia si può utilmente leggere il sotto menzionato volume di Piero Cassoli e Giovanni Iannuzzo, scritto da due medici, e anche quello di Nicola Cutolo, quale testimonianza dell’esperienza personale di un pranoterapeuta particolarmente valido. Sulle guarigioni spirituali, e in modo speciale su quelle che hanno luogo nel movimento carismatico cattolico, è interessante il volume di Francis MacNutt.
Possiamo chiederci in che modo la mente del guaritore possa agire sulla mente del malato in maniera così diretta. La risposta, anche qui, è: trasferendosi nel suo intimo. Un tale trasferimento sarà effettivo, sia che il malato si trovi accanto a chi lo cura, sia che si trovi in luogo anche molto distante.
Come si vede, al pari che nei fenomeni di telepatia e di chiaroveggenza nel presente, anche nei fenomeni di guarigione psichica e spirituale lo spazio viene come abolito. Il conoscente e il conosciuto, il terapeuta e il malato da curare sono entrambi – per così dire – nel medesimo spazio: sono due in uno. Anche queste fenomenologie confermano la natura olografica della realtà universale.
Un sensitivo che voglia mettersi in contatto con una persona da lui distante, o a lui sconosciuta, per poterne sapere qualche cosa, dove si trovi, e simili, usa spesso un oggetto che sia particolarmente impregnato di quella persona: per esempio un fazzoletto, un anello o un orologio che quella persona abbia l’abitudine di portare addosso. Tra la persona e l’oggetto di sua proprietà c’è già una identificazione. Non certo in termini strettamente logico-matematici ma in termini partecipativi si può dire che, in qualche modo, quell’oggetto è quella persona.
A propria volta il sensitivo, tenendo l’oggetto in mano e concentrandosi su di esso, finisce per identificarsi con esso, finché nei medesimi termini partecipativi si possa dire che il sensitivo è l’oggetto.
L’identificazione con l’oggetto, che è già tutt’uno con la persona ricercata, consentirà di dire che il sensitivo è quella persona.
Un guaritore potrebbe identificarsi col malato, per curarlo, avvalendosi anche lui di un oggetto strettamente connesso con lo stesso infermo. Ma anche un mago potrebbe cercare di procurarsi un oggetto appartenente alla persona-bersaglio, o anche una sua ciocca di capelli o frammenti di unghie tagliate, al fine non più di giovare a lui ma, al contrario, di nuocergli, o di “legarlo”, o al limite di farlo morire mediante una “fattura”.
Si consultino, per la magia, le opere di Marcel Mauss, di Ernesto De Martino, di Francesco Albèrgamo, di Jerôme-Antoine Rony, ma anche un libro di Ernesto Bozzano, Popoli primitivi e manifestazioni supernormali, che pone a confronto la magia con le risultanze della ricerca psichica e in particolare di quel che sappiamo del paranormale come viene vissuto in genere presso quei popoli e culture.
Anche qui si può enunciare una sorta di proprietà commutativa: se l’oggetto è la persona-bersaglio, e se il mago si fa quell’oggetto fino ad esserlo, il mago diviene quella persona ed alfine è la persona, al fine di operare maleficamente all’interno di essa per legarla, o nuocerle,
o farla morire.
Oltre che nella telepatia e nella chiaroveggenza nel presente, il carattere olografico della realtà totale trova conferma anche nella pranoterapia e nella magia, e così in ogni azione benefica o malefica che si possa esercitare a distanza come abolendo lo spazio.
Ma il carattere olografico della realtà totale viene confermato anche da quei fenomeni di conoscenza paranormale che superano la barriera del tempo: sono la chiaroveggenza nel passato (o retrocognizione) e la chiaroveggenza nel futuro (o precognizione).
Per la chiaroveggenza nel passato si può trovare un’ampia documentazione, in volumi di William Denton e di Gustav Pagenstecher.
Per la chiaroveggenza nel futuro ci si può ben riferire ad ampie monografie come quelle di Bozzano (1947 e 1948), e di Arthur Osborn. Di particolare interesse teorico ho trovato An experiment with time di J. W. Dunne.
La retrocognizione può scattare spontanea, ma si può ottenere anche mediante un “oggetto psicometrico” usato come “induttore”.
Si tratta, per esempio, di una piccola pietra del Foro Romano, che in senso partecipativo si identifichi col Foro e ne consenta una visione di tempi antichi al sensitivo che, tenendo la pietra in mano, si identifichi con essa.
Può anche trattarsi di un bottone o di un frammento della giacca che un uomo politico assassinato indossava al momento dell’uccisione, in una situazione così carica di emotività.
Sempre nei medesimi termini partecipativi di cui si diceva, il vestito è la persona ricercata che, indossandolo, vi ha lasciato tracce psichiche soprattutto di quel momento fatale; a propria volta, il sensitivo è il vestito; quindi il sensitivo è la persona ricercata. Ed è la persona colta in quel particolare momento, nella cui situazione egli si cala nella maniera più immediata: ci si identifica, cioè, saltando qualsiasi mediazione spaziale, non solo, ma temporale.
I fenomeni di retrocognizione suggeriscono con forza che il passato è tuttavia presente; ma, dal canto loro, i fenomeni di precognizione confermano che il medesimo si può dire dello stesso futuro.
Passato e futuro sono come le pagine di un libro che, rispettivamente, precedono e seguono quella che stiamo leggendo ora. Le pagine sono, sì, successive, ma legate in un volume che è presente dinanzi a me, dove sono tutte compresenti.
Il tempo appare qui come una quarta dimensione dello spazio, che, aggiungendosi alle classiche tre, diviene graficamente esprimibile nella forma del cronotopo. Questa figura è simile a quella di un orario ferroviario, dove le stazioni, dove le fermate di un treno, pur successive nel tempo, appaiono tutte compresenti allo sguardo che contempla la pagina.
La relatività del tempo è la grande scoperta di Albert Einstein. La relatività einsteiniana apre una via, che, percorsa coerentemente fino in fondo, può condurre la nuova fisica a considerare la successione temporale come insieme di attimi tutti compresenti nella sfera di un presente eterno.
Vorrei, qui consigliare come particolarmente illuminante la lettura dei testi di Giuseppe Arcidiacono Oltre la quarta dimensione e Relatività ed esistenza. In appendice a questa seconda opera si trova un importante saggio di Luigi Fantappiè, “Relatività e concetto di esistenza”. Arcidiacono presenta le concezioni di Minkowski, De Sitter, Castelnuovo, dello stesso Fantappiè e della Gnosi di Princeton.
Sul passaggio dalla fisica classica alla nuova fisica relativistica vedi in bibliografia i libri di Max Born, Albert Einstein, Leopold Infeld, nonché quello di Einstein ed Infeld in collaborazione.
Sul rapporto tra la nuova fisica, la metafisica e la spiritualità si possono utilmente consultare i libri di Fritjof Capra, Paul Davies e Fabrizio Coppola parimenti riportati nella nota bibliografica.
Nella prospettiva “olistica” suggerita dai fenomeni di telepatia e di chiaroveggenza nel presente, nel passato e nel futuro, come dagli altri accennati, ciascun punto dello spazio può contattare ciascun altro nella maniera più diretta e senza alcuna mediazione per il semplice fatto che tutti i punti spaziali coincidono.
Così, nella medesima prospettiva, il momento presente in cui il sensitivo ha la propria esperienza si collega con qualsiasi altro attimo temporale passato o futuro, in quanto i momenti temporali anche più diversi coincidono tutti.
Nella dimensione dell’esistenza, dove la realtà appare molteplice e diveniente, gli spazi e i tempi si distinguono bene. Ma c’è un’altra dimensione, quella dell’intero profondo assoluto essere, c’è quella che possiamo chiamare – perché no? – la dimensione di Dio, che si caratterizza come nonlocale e atemporale, come infinita ed eterna.
Questa dimensione assoluta è fondamentale rispetto a qualsiasi altra. Qui, si può dire, tutto è in tutto, qualsiasi esistente è in qualsiasi altro, qualsiasi punto dello spazio coincide con qualsiasi altro e qualsiasi attimo con qualsiasi altro attimo del tempo.
Quale matematico, io sono stato sempre abbastanza scarso fin dagli anni di scuola. Ma non è detto che anche un semplice non possa avere una buona idea. Ritengo di avere avuto una discreta intuizione, che forse può essere d’aiuto per una formulazione anche in termini matematici delle conclusioni cui siamo giunti. Mi faccio coraggio e propongo la mia idea. È nientemeno che quella di una “geometria del punto”.
A titolo di premessa, rilevo che ciascun punto si distingue da un altro punto perché tra i due si interpone un segmento di linea retta, o anche perché vi si interpone un sistema di linee, da cui si generino figure piane e solide.
Il primo caso è quello di due punti che giacciano sul piano medesimo. Il secondo caso è quello di più di due punti che giacciano su piani diversi.
In assenza di linee, tutti i punti coinciderebbero. È quel che si ha nella dimensione di un meta-spazio, dove linee e sistemi di linee sono superati.
Il medesimo può dirsi dei punti della successione temporale, o momenti successivi. In una dimensione in cui le successioni intermedie siano superate, tutti gli istanti coincidono. È il coincidere stesso di tutti gli attimi nella dimensione dell’eternità.
C’è una dimensione, che possiamo chiamare spaziale, in cui i vari punti sono diversi e più  o meno tra loro distanti, e c’è una dimensione meta-spaziale, dove tutti i punti coincidono.
C’è, poi, una dimensione temporale, dove tutti i punti del tempo, o istanti, sono diversi e successivi; e c’è una dimensione meta-temporale, in cui tutti gli istanti coincidono in un unico istante eterno.
Ogni punto dello spazio può partecipare insieme della dimensione spaziale e di quella metaspaziale; così come ogni istante può partecipare insieme della dimensione temporale e di quella metatemporale, eterna.
Ho espresso nei termini più semplici, e più sprovveduti, la mia intuizione geometrica, ed ora vorrei dare un cenno pur minimo di un’intuizione assai generalizzata, di natura spirituale e religiosa, che si può ritrovare espressa in credenze, miti e riti delle tradizioni più diverse. È l’intuizione che ogni luogo sacro, o consacrato, coincide col centro del mondo.
Nell’ultimo capitolo, Talbot riferisce le parole con cui un uomo-medicina degli ogdala, Alce Nero, espresse la sostanza di una “grande visione” avuta sulla cima di una collina, l’Harvey Peak delle Black Hills: “…Vidi più di ciò che posso dire e compresi più di ciò che non vidi; poiché stavo vedendo in modo sacro le forme di tutte le cose nello spirito, e la forma di tutte le forme nel modo in cui devono vivere insieme come un solo essere”. Tra le comprensioni più profonde che Alce Nero acquisì a seguito di tale esperienza, c’è questa: “Harney Peak era il centro del mondo”. È una comprensione che si completa con quest’altra: non solo Harvey Peak, ma “qualunque luogo è il centro de mondo”.
Questo pensiero è stato espresso anche da un altro personaggio, menzionato parimenti nel libro di Talbot: il cinese Fa-Tsang. Anch’egli era dell’idea che ogni punto dell’universo ne fosse il centro.
Fa-Tsang espresse altresì il concetto che l’intero cosmo fosse implicito in ciascuna delle sue parti. Paragonò l’universo a un reticolato multidimensionale di gioielli, di cui ciascuno rifletta gli altri all’infinito.
Viene, qui, spontaneo un raffronto con la filosofia di Leibniz: precisamente, con la sua concezione della “monade”. Le monadi leibniziane sono “sostanze semplici”. Non hanno parti, quindi nemmeno hanno figura né estensione, e in nessun modo sono divisibili, né trasformabili per gradi. Questo mi fa pensare ad un possibile parallelo tra le monadi e i punti geometrici (Monadologia, I, 1-3).
C’è, ancora, un’altra analogia possibile tra la monade e il singolo punto – quale che sia – che identificandosi con qualsiasi altro punto rispecchia e riassume in sé l’intero essere delle cose.
Si rilegga, in proposito, questo brano del filosofo tedesco: “Non è… possibile spiegare come una monade possa venire alterata, o mutata nel suo interno, da qualche altra creatura, dal momento che non potrebbe aver luogo alcuna trasposizione, né potrebbe concepirsi in essa alcun movimento interno che possa essere eccitato, diretto, aumentato o diminuito; il che è possibile nei composti, nei quali si hanno dei cambiamenti fra le parti. Le monadi non hanno finestre, per le quali possa entrare oppure uscire qualche cosa” (ivi, 7).
Tornando alla tematica dell’universo che ha il proprio centro in ogni suo punto, si può notare che tale discorso appare strettamente ricollegabile a quella fenomenologia dello “spazio sacro”, che Mircea Eliade illustra con esempi ricavati dalle tradizioni religiose fiorenti in ogni epoca sotto ogni latitudine (Trattato di storia delle religioni, c. X; Il sacro e il profano, c. I).
Ricorre ovunque il principio, dice Eliade, che, nel costruire una città, o un tempio con la sua ara dei sacrifici, o una casa col suo focolare, giovi collocare idealmente la costruzione al centro della realtà universa. La creazione del mondo ha inizio da un centro, e perciò è bene che qualsiasi costruzione umana abbia un centro, dove possa attingere, dal centro stesso dell’essere, ogni energia creativa di cui abbia necessità per vivere e prosperare al meglio. È per questo, dice Eliade, che nelle tradizioni più diverse noi “vediamo la creazione partire da un ‘centro’, perché ivi sta la fonte di ogni realtà, e quindi dell’energia della vita” (Trattato, c. X, § 143).
Nota ancora Eliade che ogni creazione umana non solo muove da un centro identificato col centro dell’essere, ma “parte da una cima, cioè da un punto insieme centrale e trascendente” (ivi), così come trascendente è la divinità stessa, che nondimeno inabita nel cuore delle cose ed è perciò immanente nel centro di ogni realtà.
Eliade rileva, inoltre, che, per inaugurare ogni sua creazione ed opera nella maniera più felice e sotto gli auspici migliori, l’uomo non solo la colloca al “centro” dell’essere e non solo la collega con l’“alto”, con la trascendenza, ma sempre idealmente la situa in un “prima” che è il momento della creazione originaria di tutte le cose, dell’universo intero. Intorno a quest’ultimo concetto lo studioso romeno svolge la sua fenomenologia del “tempo sacro” (Trattato, XI; Il sacro e il profano, II).
In questo suo farsi centro dell’essere, e in questo suo ricollegarsi all’atto eterno della divina creazione, ogni punto dello spazio e del tempo convergono fino a coincidere. E nel coincidere di tutti in uno, ogni punto dello spazio e del tempo coincide con qualsiasi altro. È un’ulteriore convalida della natura olografica dell’intero continuum spazio-temporale che ci giunge dalla fenomenologia religiosa, oltre che dall’intuitività e sensibilità spirituale degli uomini di ogni tradizione.
La dimensione assoluta è olografica, il Tutto è un ologramma. Tale conclusione, che le risultanze della nuova fisica suggeriscono con forza, riceve la migliore conferma da un esame approfondito dei fenomeni paranormali.
Fisica e parapsicologia ben si incontrano in quella che si potrebbe definire l’anticamera di Dio. Entrare nella sua camera nuziale è possibile solo mediante una diretta esperienza di Lui. Tale esperienza è largamente attestata dalla fenomenologia religiosa.
Entrare nella camera nuziale di Dio per consumarvi quello che i mistici chiamano il “matrimonio spirituale” è cosa che si ottiene per grazia divina, ma ancora collaborandovi con un preciso impegno di ricerca spirituale, di preghiera, di abbandono fiducioso e di ascesi.
Fisica e parapsicologia possono aiutarci a porre importanti premesse. Dal canto suo, la fenomenologia religiosa di tutti i paesi e tempi, e ad ogni livello, ci conforta nelle nostre convinzioni. Ma all’unione con Dio si perviene attraverso un cammino spirituale estremamente impegnativo da compiere, col divino aiuto, in prima persona.
È chiaro, infine, che dalla visione olografica dell’universo si possono ricavare le basi teoriche per la costruzione, sul piano pratico, di una morale, che confermi e svolga le etiche religiose tradizionali in genere e, in modo particolarissimo, quella cristiana.
Dal principio che tutto è uno e che noi tutti umani, tutti noi creature altro non siamo che un solo immenso essere in Dio, le implicazioni che si possono trarre per il nostro quotidiano comportamento e per la stessa azione politica sono, senza dubbio, della portata più vasta e rivoluzionaria.

 



 

F. Albèrgamo, Mito e magia, Guida, Napoli 1970.

G. Arcidiacono, Oltre la quarta dimensione, Il Fuoco, Roma 1980, e Relatività ed esistenza, 2ª ed., ibidem 1981. In appendice a questa seconda opera si trova un importante saggio di Luigi Fantappiè, “Relatività e concetto di esistenza”.

S. Blackmore (Beyond the body, Heinemann, London 1982),

D. Bohm, Wholeness and the implicate order, Routledge and Kegan Paul, London 1980.

M. Born, La sintesi einsteiniana, tr. it., Boringhieri, Torino 1969.

E. Bozzano, Dei fenomeni di “bilocazione”, Tipografia Dante, Città della Pieve 1934.
       – Dei fenomeni di telestesia, Europa, Verona 1942.
       – Popoli primitivi e manifestazioni supernormali, 5ª ed., Bocca, Milano-Roma 1953.
       – Luci nel futuro – I fenomeni premonitori, 2 voll., Europa, Verona 1947.
       – Guerre e profezie, Europa, Verona 1948.

F. Capra, Il Tao della fisica, 4ª ed., gli Adelphi, Milano 1990.

H. Carrington, Guida ai vostri poteri paranormali, tr. it., Mondadori, Milano 1984.

P. Cassoli e G. Iannuzzo, Ricerca sulla pranoterapia e sui guaritori – La pratica e i risultati valutati dalla scienza, Red, Como 1983.

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