Dobbiamo confessare che per lungo tempo, alcune parole pronunziate dal Primo Sorvegliante in sede di apertura dei Lavori ci erano sembrate assai enigmatiche, se non addirittura contrarie a certe nozioni apprese per altra via. Vogliamo alludere al passo in cui è asserito che i Massoni si riuniscono in Loggia "per scavare oscure e profonde prigioni al vizio"...

Il carissimo Fratello Emilio Servadio, passato all'Oriente Eterno nell'Anno di Vera Luce 5995, in questo suo intervento in Loggia datato 1971 e in seguito pubblicato su Rivista Massonica n. 4 aprile 1972, esamina con dovizia di riferimenti un passaggio del nostro rituale.

Emilio Servadio, fu Fratello iscritto a piè di lista della Montesion fino al 1980, né fu uno dei promotori, ma entrò nella Loggia soltanto a Colonne Innalzate nel 1970.

Il documento è opera d'ingegno del Fratello ed il suo contenuto non riflette di necessità la posizione della Loggia o del G.O.I. Ogni diritto è riconosciuto. 

© Emilio Servadio

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Abbiamo più volte indicato, verbalmente o per iscritto, che a nostro avviso i simboli e i Rituali muratori offrono spunti inesauribili di meditazione, e costituiscono fonti perenni d'insegnamento. Non di rado, perciò, ci siamo meravigliati nel vedere che per taluni Fratelli, certe parole e frasi del Rituale erano considerate quasi materia di routine, da recitare o da ascoltare senza badarci troppo, e in attesa di "passare ad altro" laddove per la maggioranza dei Massoni - ne siamo sicuri - le suddette parole e frasi, anche ascoltate mille volte non mancano di destare importanti e sottili risonanze sub specie interioritatis.

Dobbiamo confessare che per lungo tempo, alcune parole pronunziate dal Primo Sorvegliante in sede di apertura dei Lavori ci erano sembrate assai enigmatiche, se non addirittura contrarie a certe nozioni apprese per altra via. Vogliamo alludere al passo in cui è asserito che i Massoni si riuniscono in Loggia "per scavare oscure e profonde prigioni al vizio".

Le nostre riflessioni erano state, a un dipresso, le seguenti.

Per "vizio" si possono intendere diverse cose. Vizio può essere un'abitudine discutibile, ma tutto sommato tollerabile (per esempio, il "vizio del fumo"). Vi sono comportamenti, o sindromi comportamentali, che un tempo erano universalmente chiamati "vizi", mentre prevale oggi il criterio secondo cui si tratta in certi casi di deviazioni dalla norma - talora ammissibili, talora deprecabili, ma non propriamente condannabili (per esempio, il "vizio del giuoco"). Vi sono, infine, manifestazioni del comportamento che per secoli sono state considerate esecrandi "vizi", e che oggi fanno piuttosto parte della patologia (come ad esempio l'omosessualità, o le tossicomanie). Questo, sul piano di una valutazione psicologica, etica e nosografica al livello profano.

In tutti i casi anzidetti, e qualora l'uomo di scienza e di coscienza pensi che un intervento sia necessario, tutto si fa, in genere, fuorché scavare metaforiche "prigioni". Il fumatore accanito, il giocatore inveterato, il tossicomane, ecc., possono, casomai, essere oggetto di cure - di solito, medico-psicologiche. Il principio "dell'imprigionamento" di una manifestazione patologica (ossia, il volerla in qualche modo sopprimere e soffocare) sarebbe contrario a tutto quello che insegnano la moderna psicologia dinamica e la psicoanalisi. "Condannare", e cercare di ricacciare nel buio dell'inconscio, sopprimendone la manifestazione esteriore, un fenomeno, p. esempio, come l'esibizionismo compulsavo (che un tempo era chiamato "vizio", e che oggi viene considerato come una delle tante deviazioni sessuali) sarebbe agire in opposizione ai più elementari criteri psicologici e psicoterapici. L'esibizionismo compulsivo - se di questo si tratta - non va certo metaforicamente affossato in "oscure prigioni": le sue cause profonde, anzi, debbono essere tratte fuori dalle tenebre dell'inconscio, portate grado grado alla coscienza, e chiarite il più possibile. Solo così, infatti, si può sperare di vincere e neutralizzare l'anzidetta abnorme tendenza, che molti ancora si ostinano a chiamare "vizio".

Giunti a questo punto delle nostre considerazioni, ci è apparso evidente che se l'espressione del Rituale aveva un senso, esso andava cercato in direzioni tutt'affatto diverse da quelle fin qui indicate, tipiche di un sapere "profano". In primo luogo, si trattava di ben capire quale connotazione fosse implicitamente data, nel Rituale, al termine "vizio".

Ci sembra anzitutto che il "vizio" di cui è detto nel Rituale (al pari dell'altro termine, "virtù", che gli si contrappone nello stesso paragrafo) indichi non già una qualità morale, o comportamentale, bensì una "categoria" nel senso Kantiano del termine, per cui entrambi i vocaboli potrebbero benissimo essere scritti con l'iniziale maiuscola. Non diversamente, pensiamo, appaiono con le iniziali maiuscole, in altri testi, i termini Bene e Male.

In secondo luogo, non si può non ricordare (e sembra quasi incredibile doverlo fare) che il piano su cui il Rituale spazia, e a cui fa riferimento, è un piano iniziatico - sul quale cioè i termini e le definizioni assumono necessariamente un valore diverso (e spesso, come si sa, "con segno contrario") avendo riguardo ai loro significati profondi. Ergo, il "vizio" menzionato nel Rituale deve essere per definizione vizio metafisico, in contrapposto al vizio, o ai vizi, del mondo fisico e terreno.

La distinzione non è facile per chi abbia perduto, come è di regola nell'epoca attuale, il senso delle proporzioni e delle gerarchie: ma non dovrebbe essere difficile per un Massone.

La differenza tra "vizio" nel senso comune del termine, e ciò che il Rituale indica come "vizio", è stata indicata, in modi diversi da materialisti, filosofi o psicologi.

Pensiamo a Melville, a Henry James, al Dostoiewski dei Dèmoni, o a certi scrittori a noi più vicini, come Lovecraft o Machen, dotati di particolare sensibilità esoterica (o addirittura, come nel caso di Machen, iniziati). Vediamo, per l'appunto, ciò che scrive Artur Machen (1863-1947), che fu membro della Golden Dawn e profondo conoscitore di mistica, occultismo, simbolismo, ecc. Si tratta della introduzione a una lunga novella intitolata The White People (1899).

"Gli esseri supremamente perversi" - dice Ambrose, uno dei personaggi del racconto - "fanno anch'essi parte del mondo spirituale. L'uomo comune, carnale e sensuale, non sarà mai un gran santo, né un grande peccatore".

"Certo" egli prosegue - "c'è un rapporto tra il Peccato maiuscolo e gli atti che si considerano colpevoli: assassinio, furto, adulterio, ecc. Esattamente lo stesso rapporto che c'è fra l'alfabeto e la più geniale poesia ... Noi sopravalutiamo il peccato, oppure lo sottovalutiamo. Da un lato, chiamiamo peccati le infrazioni alle regole della società, ai tabù sociali. È un'esagerazione assurda. D'altro lato, attribuiamo un'importanza così enorme al "peccato" che consiste nella manomissione dei nostri beni, o delle nostre donne, che abbiamo del tutto perduto di vista ciò che vi è di orribile nei veri peccati".

"Che cos'è, allora, il peccato?" - chiede l'interlocutore di Ambrose, Cotgrave. E l'altro risponde:

"Che cosa provereste se il vostro gatto o il vostro cane si mettesse a parlare con voce umana? Se le rose del vostro giardino si mettessero a cantare? ... Ebbene questi esempi possono darvi una vaga idea di ciò che è realmente il peccato".

"Allora" - riprende Cotgrave - "l'essenza del peccato sarebbe..."

"Voler prendere d'assalto il cielo" - replica Ambrose. "Il peccato consiste a mio avviso nella volontà di penetrare in modo proibito in un'altra e più alta sfera ... Il peccato è il tentativo di ottenere un'estasi e un sapere che non sono e non sono stati mai dati all'uomo...".

E più oltre: "Il vero peccato si eleva ad un grado tale, che non possiamo assolutamente supporne l'esistenza. È come la nota più bassa dell'organo: tanto profonda che nessuno la sente ... In nessun caso dovete confonderlo con gli atti asociali ... Come si può dare tutto ai poveri e mancare di carità, così si possono evitare tutti i peccati, eppure essere una creatura del male ...".

Il discorso di Ambrose ha indubbi aspetti esoterici. Questi si possono individuare di là dal suo orientamento di fondo, che è ovviamente religioso, e pertanto diverso dal nostro.

Comunque, se si sostituisce alla parola "peccato" (che noi non adoperiamo perché moralistica e devozionale) la parola "vizio", menzionata nel Rituale, cominciamo ad avere una nozione un po' più precisa di ciò che essa vuol designare, e perché i saggi estensori del Rituale stesso abbiano voluto inserirvela.

Ma qualche altro riferimento gioverà a chiarire ancora meglio il concetto. Scrive Elémire Zolla nella sua recente opera, Che cos'è la Tradizione (Milano, 1971): «Invero si è giunti in un momento storico in cui l'involucro di piombo delle teorie materialistiche, nel quale l'uomo si era rinserrato sì da non ricevere più influssi celesti, ma neanche emanazioni dagli inferi, comincia ad aprirsi dal basso, e gli spiriti del male salgono ad impadronirsi dell'uomo inerme, dimentico dei più semplici scongiuri. La profezia e l'immagine sono di Guénon". E più oltre, in perfetto parallelo con quanto scrive Machen:

"Lo stregone non è il violatore di norme, il comune malvagio. È colui che con un'ascesi simmetrica a quella della santificazione, perfeziona il proprio male ... È in gioco qualcosa di molto più sottile che una ribellione alla società, all'animo collettivo. E comunque, parlando della società come qualcosa di superiore agli associati, non si è molto distanti dalla configurazione di un ente animato invisibile". E ancora: "Soltanto mercé la conoscenza tradizionale si può intendere la demonicità: la forza che sentiamo operare con intelligenza e volontà a impedirci il passo, allorquando procuriamo di purificare il sentire e la mente per accedere appunto a quella conoscenza. Chi non abbia mosso un passo in quella direzione, nemmeno può avere notizie sperimentali di quella presenza avversa. Egli ha conosciuto soltanto calamità, grandi, strazianti, ma non di questo genere, non ha sentito una malizia dietro il male, quale si avverte allorquando si incomincia a cacciare da se stessi le immagini e i pensieri che non portino alla conoscenza soprannaturale. A questo punto si intende perché appaiono così sbiaditi e malcerti i ragguagli del comune etnologo o i racconti del comune letterato, quando parlano dell'avversario ...".

Anche Zolla, è chiaro, si muove in una dimensione misticoreligiosa, come è stato indicato dall'accostamento fra il suo pensiero e quello di Machen. Basterebbe l'accenno finale a un "avversario", nel quale sembra quasi scorgere, con gli spiriti infernali, il diavolo delle rappresentazioni medioevali, completo di corna e di coda. Ma si tratta pur sempre di un inquadramento, in fin dei conti, soprannaturale ed esoterico, di ciò che si può benissimo chiamare "male", purché non si dia a questo termine un significato deprecatorio in senso etico-religioso. Ci sembra pertanto assai bene applicabile al "vizio", nel senso qui esaminato, la definizione già citata, che lo qualifica come ciò che "si avverte quando si incomincia a cacciare da se stessi le immagini e i pensieri che non portino alla conoscenza soprannaturale".

Chiunque abbia fatto anche solo qualche passo sulla via iniziatica (e i Liberi Muratori dovrebbero evidentemente essere fra quelli) ben sanno a che cosa qui è fatto esplicito riferimento.

Il discorso tenuto sin qui dovrebbe ormai permettere di capire quanto sarebbe ingenuo e ozioso meravigliarsi, e reagire in base ai criteri psicologici e psicodinamici enunciati in principio, all'insegnamento del Rituale, in base al quale i Fratelli hanno tra i loro còmpiti, quando si riuniscono, quello di "scavare oscure e profonde prigioni al vizio". In quale altro modo infatti, sarebbe possibile affrontare un "vizio" siffatto, di cui sono state messe chiaramente in evidenza le caratteristiche metafisiche, per cui esso non è da confondersi con i "vizi" del mondo profano? Tale "vizio" è, puramente e semplicemente, una forza avversa da sconfiggere. E dato che non lo si può estirpare (esso costituisce, infatti, l'inevitabile "alterità" rispetto alla "virtù" iniziatica), non vi è, per l'appunto, altro rimedio se non chiuderlo, "ermeticamente", in "oscure e profonde prigioni".

In non poche religioni codificate e "ufficiali" (e in modo preminente, ci sembra, nella religione cattolica), il rappresentante, o il veicolo per eccellenza, del "vizio" così come lo abbiamo inteso (o del male o dei peccato come preferiscono chiamarlo gli scrittori religiosamente orientati), è stato individuato, come ben si sa, nella figura dell'angelo caduto e negativo, del demonio, di Satana altrimenti detto "il Maligno". Nei limiti - e sono limiti piuttosto vasti - in cui anche certi insegnamenti e rituali della Chiesa Cattolica hanno aspetti esoterici (anche se molti membri della Chiesa militante non sembrano averne la minima nozione), la "difesa radicale" contro l'anti-spirito è del tutto consimile a quella che consiste nel confinarlo entro "oscure e profonde prigioni", insegnata dal Rituale Massonico. Basti in proposito riferire le ultime parole dell'"ordinario" della Messa, l'invocazione a San Michele: "San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia, vieni in nostro aiuto contro la milizia e le insidie del diavolo. Che Dio eserciti su di lui il suo imperio, te ne preghiamo supplichevoli; e tu, o Principe delle milizie celesti, col tuo divino potere, incatena nell'inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che per perdere le anime scorrazzano pel mondo". Il parallelo ci sembra abbastanza eloquente, e tale da dispensarci da ogni ulteriore commento.

Sulla via iniziatica - come è stato già menzionato – "l’incontro" con le oscurità e gli aspetti terrorizzanti del "vizio" si presenta come una tappa necessaria e condizionante. Il viaggio simbolico di Dante non è soltanto una discesa nelle proprie profondità secondo il dettame ermetico-alchemico ("Visita Interiora Terrae"), ma anche una angosciante presa di contatto con quella che vorrei chiamare la "metafisica del vizio", sin nelle sue più profonde propaggini, quale condizione necessaria per la successiva "risalita". Il "nero" della prima fase dell'Opera ha, come si può notare, più di una connotazione!

Ciò ben compreso e chiarito, risulta tanto più fulgida l'altra branca della dicotomia, ossia ciò che nel Rituale viene indicato con l'espressione "elevare templi alla virtù". Ma di ciò diremo, eventualmente, un'altra volta, ricordando - si parva licet - la "progressione" dantesca dal buio alla luce, dall'Inferno al Paradiso.

 
 
 

 

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