"L'arboscello"

Mainerio Giorgio 1535 -1382

 

Seguito delle rivoluzioni del Sepher

Origine delle principali versioni che ne sono state fatte.

 

 

Basiamoci su questa importante verità; la Lingua ebraica, già corrotta da un popolo grossolano, e da intellettuale che era all'origine scaduta ai suoi elementi più materiali, fu del tutto perduta durante la schiavitù di Babilonia. É un fatto storico di cui è impossibile dubitare, qualunque sia il tipo di scetticismo professato. La Bibbia lo dimostra

il Talmud lo afferma; è la netta convinzione dei più famosi rabbini; Walton non può negarlo; il miglior critico che ha scritto su questa materia, Richard Simon, non fa che ribadirlo. Così, circa sei secoli a.C., gli Hébreux, divenuti Juifs, non parlavano né comprendevano più la loro lingua originale. Si servivano di un dialetto siriaco, chiamato Aramaico, formato dalla riunione di diversi idiomi dell'Assiria e della Fenicia, e abbastanza diverso dal nabateo che, secondo d'Herbelot, era il caldaico puro.

A partire da quest'epoca, il Sepher di Mosè fu sempre parafrasato nelle sinagoghe. Si sa che dopo la lettura di ogni versicolo, un interprete era incaricato di spiegarlo al popolo i lingua volgare. Da questa pratica vengono i Targum. É abbastanza difficile dire oggi se queste versioni furono in un primo tempo scritte dai dottori oppure lasciate alla sagacia degli interpreti. Comunque, appare del tutto certo che il senso dei termini ebraici diveniva sempre più incerto, il che comportò violente dispute sulle diverse interpretazioni da dare al Sepher. Alcuni, che pretendevano di possedere la Legge orale impartita in segreto da Mosè, volevano introdurla in queste esplicitazioni, altri, che negavano l'esistenza di questa legge, rifiutavano ogni sorta di tradizione, e pretendevano di attenersi alle spiegazioni più letterali e materiali. Da queste dispute nacquero due sette rivali. La prima, quella dei Farisei, fu la più numerosa e la più considerata: essa ammetteva il senso spirituale del Sepher, faceva allegoria di ciò che le risultava oscuro, credeva alla Provvidenza divina e all'immortalità dell'anima. La seconda, quella dei Sadducei, teneva alla stregua di favole tutte le tradizioni dei Farisei, si faceva gioco delle loro allegorie, e non trovando nel senso materiale del Sepher nulla che provasse o che solo enunciasse l'immortalità dell'anima, la negava; vedendo in ciò che i loro antagonisti chiamavano anima semplicemente un prolungamento dell'organizzazione del corpo, una facoltà passeggera che doveva spegnersi con il corpo. Tra le due sette contendenti, se ne formò una terza, meno numerosa delle prime due, ma infinitamente più colta: quella degli Esseni. La quale, ritenendo che a forza di volere tutto ricondurre all'allegoria, i Farisei cadevano spesso in visioni ridicole e per contro i Sadducei, a causa della secchezza dell'interpretazione, snaturavano i dogmi di Mosè, si mantenne su una linea intermedia. Conservò la lettera e il senso materiale all'esterno, salvaguardò la tradizione e la legge orale per il segreto del santuario. Gli Esseni istituirono lontano dalle città delle società chiuse, e poco gelosi delle cariche sacerdotali, ricoperte dai Farisei, nonché degli onori civili rivendicati dai Sadducei, si dedicarono soprattutto alla morale

E allo studio della natura. Tutti coloro che hanno scritto sulla regola e lo spiro di questa setta ne hanno fatto i più grandi elogi. Esistevano gli Esseni ovunque vi fossero dei Giudei, ma soprattutto in Egitto. Il loro principale ritiro era situato presso Alessandria, verso il lago e il monte Moria.

 

Prego il lettore curioso di segreti antichi di fare attenzione a questo nome (1): perché se è vero, come tutto sembra confermarlo, che Mosè ha lasciato una legge orale, è presso gli Esseni che essa si è conservata. I Farisei, che si illudevano così orgogliosamente di possederla, non ne vantavano che le apparenze, come Gesù rimprovera di continuo. É da questi Farisei che discendono gli Ebrei moderni, ad eccezione di alcuni veri eruditi, la cui tradizione segreta risale a quella degli Esseni. I Sadducei hanno prodotto i Karaiti attuali, altrimenti detti Scrittuari.

Ma anche prima che i Giudei avessero posseduto i loro Targum caldaici, i Samaritani avevano avuto una versione del Sepher, fatta in lingua volgare; poiché erano anche meno idonei dei Giudei dall'intendere il testo originale. Questa versione, che possediamo per intero, era la prima di tutte quelle che sono state fatte, e merita quindi più affidabilità che non i Targum i quali, essendosi succeduti e distrutti a vicenda, non sembrano vantare una grande antichità: e (d'altra parte) il dialetto nel quale è scritta la versione samaritana è più vicina all'ebraico che non all'aramaico o al caldaico dei Targum. Si attribuisce generalmente a un rabbino, di nome Ankelos, il Targum del Sepher propriamente detto, e a un altro rabbino, Jonathan, quello degli altri libri della Bibbia, mentre non si può datare l'epoca della loro compilazione. Si può solo dedurre che sono più antichi del Talmud, in quanto il dialetto è più corretto e meno sfigurato. Il Talmud di Gerusalemme soprattutto è scritto in uno stile barbaro, mescolato a una quantità di termini assunti dalle lingue vicine principalmente dal greco, dal latino e dal persiano.. Era l'idioma volgare dei Giudei al tempo di Cristo.

Tuttavia i Giudei, protetti dai monarchi persiani, avevano goduto di qualche momento di tranquillità; avevano riedificato i loro templi; avevano ricostruito le mura delle loro città. Ma, improvvisamente, la situazione muta: l'impero di Ciro è abbattuto; Babilonia cade in potere dei Greci: tutto cede sotto la legge di Alessandro. Ma il torrente che improvviso deborda e sull'Africa e sull'Asia, non tarda a dividere le sue onde e le rinserra in diversi letti. Morto Alessandro, i suoi capitani si spartiscono la sua eredità. Gli Ebrei cadono nelle mani dei Selleucidi. Il greco, diffuso ovunque dai conquistatori, modifica ulteriormente l'idioma di Gerusalemme. Il Sepher di Mosè, già sfigurato dalle parafrasi caldaiche, finiva per scomparire definitivamente nella versione dei Greci.

Grazie alle discussioni che gli eruditi dei secoli scorsi hanno suscitato intorno alla famosa versione degli Ebrei ellenisti, volgarmente chiamata dei Settanta, nulla è divenuto più oscuro della sua origine.

Essi si sono chiesti quando, come è perché e stata fatta; se era la prima in senso assoluto o se non esisteva una versione anteriore in greco, da cui Pitagora, Platone, Aristotele avevano attinto la loro sapienza; chi furono i settanta interpreti; se lavoravano all'opera in celle separate o no: inoltre, se questi interpreti erano dei profeti o dei semplici traduttori.

Dopo aver esaminato abbastanza a lungo le opinioni divergenti che sono state espresse intorno a questo argomento, ecco quanto personalmente ritengo più probabile. É certamente possibile ricominciare questo lavoro spinoso, il quale in fin dei conti produrrà sempre gli stessi risultati, a patto che il ricercatore abbia cura di portarvi la mia stessa imparzialità.

É indubbio che Tolomeo, figlio di Lagus, malgrado alcune violenze, che segnarono l'inizio del suo regno e alle quali fu più o meno costretto dalla congiura dei suoi fratelli, sia stato un grande principe. L'Egitto non ha conosciuto epoca più brillante. Vi fiorì a un tempo la pace, il commercio e le arti, vi furono coltivate le scienze, senza le quali non può esistere vera grandezza in un Impero. Fu per volontà di Tolomeo che venne fondata in Alessandria quella superba biblioteca che Demetrio di Falera, che ne fu il direttore, arricchì di tutto ciò che la letteratura dei popoli offriva allora di più prezioso. da molto tempo gli Ebrei erano stanziati in Egitto. Non riesco a capire lo spirito di contraddizione di cui fanno prova gli studiosi moderni, i quali negano assolutamente che in un concorso di circostanze quali sono venuto presentando, Tolomeo non avesse concepito l'interesse che gli viene attribuito di fare tradurre il Sepher per metterlo nella sua biblioteca. Niente di più semplice, ai miei occhi. Lo storico Giuseppe è indubbiamente credibile su questo punto, così come l'autore del libro di Aristeo; malgrado alcuni abbellimenti di cui egli carica questo fatto storico.

 

Ma l'esecuzione di un tale disegno poteva offrire alcune difficoltà; poiché è noto che gli Ebrei comunicano difficilmente i loro libri, e conservano sui loro misteri un segreto inviolabile. Al punto che gli Ebrei pensano che Dio punisca severamente coloro che osino farne delle traduzioni in lingua volgare. Il Talmud riferisce che Gionata, dopo la pubblicazione della parafrase caldaica, sia stato vivamente rimproverato da una voce celeste per aver osato rivelare agli uomini i segreti di Dio. Tolomeo fu obbligato a ricorrere all'intercessione del pontefice sovrano Eleazaro, e a fare breccia nella sua pietà, grazie all'affrancamento di alcuni schiavi ebrei. Questo pontefice sovrano, forse mosso dalla bontà del re, o forse non osando resistere alla sua volontà, gli inviò un esemplare del Sepher di Mosè, autorizzandolo a farne una traduzione in greco. Rimaneva un solo problema: la scelta dei traduttori. Dal momento che gli Esseni del monte Moria godevano di una meritata reputazione di sapienza e di santità, tutto mi porta a credere che Demetrio di Falera abbia pensato a loro e abbia trasmesso agli Esseni gli ordini del re. Gli Esseni vivevano da anacoreti, in celle separate, e si occupavano, come ho già detto, dello studio della natura. Per loro, il Sepher era composto di spirito e di corpo: con il corpo, intendevano il senso materiale della Lingua ebraica con lo spirito, il senso spirituale perduto dal popolo. Tra l'incudine della fede religiosa che vietava loro la comunicazione dei misteri divini, É l'autorità del principe che ordinava loro di tradurre il Sepher, essi seppero sottrarsi a una decisione così azzardata; in quanto, dando il corpo del libro, ubbidirono all'autorità civile, e trattenendone lo spirito, alla loro coscienza. Ne fecero una versione verbale quanto possibile esatta nell'espressione restrittiva e corporale; e per mettersi ancora di più al riparo dalle accuse di profanazione, 'si servirono del testo e della versione samaritana in molti passi, e tutte le volte che il testo ebraico non offriva sufficiente oscurità.

É molto dubbio che fossero stati in numero di settanta, per portare a compimento il lavoro. Il nome di versione dei Settanta viene da un'altra circostanza che intendo riferire.

Intanto, il Talmud precisa che gli interpreti furono cinque, cosa abbastanza probabile, in quanto si sa che Tolomeo fece tradurre solo i cinque libri di Mosè contenuti nel Sepher, senza addentrarsi nelle aggiunte di Ezra.

Lo stesso Bossuet è di questo avviso, quando scrive che il resto dei libri sacri fu in seguito tradotto in greco per l'uso degli Ebrei sparsi in Egitto e in Grecia, dove non solo avevano dimenticato la loro antica lingua che era l'ebraico, ma anche il caldaico che avevano appreso durante la schiavitù. Questo scrittore osserva inoltre, cosa su cui invito il Lettore a riflettere, che gli Ebrei si costruirono un greco pieno di ebraismi, in altre parole la lingua ellenistica, e che i Settanta e tutto il Nuovo Testamento è scritto in questa lingua.

É certo che gli Ebrei sparsi in Egitto e in Grecia, avendo completamente dimenticato il dialetto aramaico in cui erano scritti i loro Targum, si trovavano a dover far ricorso a una parafrasi in lingua volgare, e quindi ad accettare la versione del Sepher, che già esisteva nella biblioteca di Alessandria: ed è ciò che avvenne. Al Sepher gli ellenisti Esseni aggiunsero la traduzione delle addizioni di Ezra e inviarono il tutto a, Gerusalemme per farla approvare come parafrasi. Il sanhedrin accolse la loro domanda, e dal momento che questo tribunale era composto da settanta giudici, conformemente alla legge, questa versione ricevette il nome di Versione dei Settanta, in altre parole: approvata dai Settanta.

Questa l'origine della Bibbia. Che è una copia in lingua greca delle Scritture ebraiche, in cui le forme materiali del Sepher di Mosè sono abbastanza ben conservate perché quanti non vedono niente oltre non possano supporne le forme spirituali. Nello stato di ignoranza in cui versavano gli Ebrei, questo libro così travestito doveva loro convenire. E lo fu a tal punto che in molte sinagoghe greche, esso veniva letto non solo come parafrasi, ma in luogo, e di preferenza, al testo originale. E a che sarebbe servito leggere il testo ebraico? Ormai il popolo ebreo non lo comprendeva più neppure nell'accezione più restrittiva (2) e, tra i rabbini - eccezion fatta per alcuni Esseni iniziati ai segreti della legge orale - i più dotti si piccavano appena di risalire dal greco e dal latino o dal gergo barbaro di Gerusalemme ai Targum caldaici, divenuti per loro quasi altrettanto difficili del testo (3).

É in questo stato di ignoranza, e quando la Bibbia greca usurpava ovunque il posto del Sepher ebraico, che la Provvidenza, nell'intenzione di mutare la faccia del Mondo, e di operare uno di quei movimenti necessari, di cui ritengo inutile spiegare la ragione profonda, suscitò Gesù. Nacque un nuovo culto. Il cristianesimo, dapprima oscuro, considerato alla stregua di una setta ebraica, si allargò a macchia d'olio, ricoprì l'Asia e l'Africa. L'impero romano ne fu avviluppato. Gesù e i suoi discepoli avevano sempre citato la Bibbia greca, i Padri della Chiesa nutrirono per questo libro un rispetto religioso, lo credettero ispirato, scritto da profeti, e disprezzarono il testo ebraico e, come ci dice espressamente sant'Agostino, giunsero fino a ignorarne l'esistenza. Ma gli Ebrei, temendo questo movimento che erano incapaci di valutare, maledirono il libro che ne era la causa. I rabbini, sia per politica, sia temendo che la legge orale trasparisse, ebbero in aperto dispregio questa versione illusoria, che non esitarono a definire come un falso e che fecero considerare agli Ebrei funesta per Israele, almeno quanto il vitello d'oro. Scrissero che la Terra, a causa di questa profanazione del Libro santo, era stata coperta di tenebre per tre giorni e come si può vedere nel Talmud, ordinarono un digiuno annuale di tre giorni in memoria di questo avvenimento.

Ma queste precauzioni erano tardive; il deposito mal conservato doveva cambiare di mano. Israele, cassaforte grossolana, chiusa da triplice serratura, ma usurata dal tempo, non offriva più un asilo abbastanza sicuro. Una rivoluzione terribile era alle porte: Gerusalemme sarebbe caduta, e l'impero romano, cadavere politico, era promesso agli avvoltoi del Nord. Già le tenebre dell'ignoranza oscuravano l'orizzonte, già le grida dei Barbari furoreggiavano in lontananza. Occorreva opporre a questi tremendi nemici un ostacolo invalicabile. Quest'ostacolo era il libro che doveva sottometterli, e che essi non dovevano comprendere.

Né gli Ebrei né i Cristiani potevano entrare nei profondi recessi di questo disegno. Si accusavano reciprocamente di ignoranza e di malafede. Gli Ebrei, possessori di un testo originale di cui non intendevano più la lingua, colpirono di anatema una versione che non ne restituiva che le forme esteriori e grossolane. É pur vero che di quando in quando si elevarono tra di loro uomini che, approfittando di un residuo di chiarezza in quei giorni tenebrosi, osavano stabilire i fondamenti della loro fede, e giudicandola, in fondo, ciò che appariva nelle sue forme, se ne distaccavano bruscamente e con disdegno. Furono Valentino, Basilide, Marcione, Apelle, Bardesane, Manes, il più terribile avversario che mai abbia incontrato la Bibbia. Tutti considerarono empio l'autore di un libro in cui l'Essere buono per eccellenza viene rappresentato come l'autore del male, in cui questo Essere crea senza un disegno, decide arbitrariamente, si pente, si ritira, punisce su una posterità innocente il peccato di uno solo. di cui ha preparato la caduta Mani, giudicando Mosè sul libro che i Cristiani attribuivano come suo, riguardava questo profeta come ispirato dal Genio del male. Marcione, un po' meno severo, vedeva in lui l'organo del Creatore del mondo elementare, ben diverso dall'Essere Supremo. Gli uni e gli altri causarono uragani più o meno violenti, secondo la forza del loro genio. Non riuscirono nel loro intento, malgrado avessero su questo punto la verità dalla loro parte, perché il loro attacco era imprudente, intempestivo, e senza saperlo portavano a sproposito la fiaccola su un'impalcatura rozza ma predisposta e in grado di sostenere un edificio più imponente e più autentico.

I Padri della Chiesa, i cui occhi non erano del tutto affascinati, cercavano in sordina il modo di eludere le maggiori difficoltà. Alcuni accusavano gli Ebrei di aver inserito nei libi di Mosè cose false e ingiuriose alla Divinità, altri ricorrevano alle allegorie. Sant'Agostino conveniva a sua volta sulla impossibilità di conservare il senso letterale dei primi tre capitoli del Genesi senza che ne fosse ferita la pietà, e senza attribuire a Dio cose indegne di lui. Origene riconosceva che se la storia della creazione veniva assunta in senso letterale, sarebbe risultata assurda e contraddittoria. Compiangeva gli ignoranti, i quali, sedotti dalla lettera della Bibbia, attribuivano a Dio dei sentimenti e delle azioni che non avrebbero attribuito al più ingiusto e al più barbaro degli uomini. Il dotto Beausobre, nella sua Histoire du Manicheisme e Pétau, nei suoi Dogmes théologiques citano tutta una serie di esempi dello stesso tipo.

L'ultimo Padre che vide l'orribile guasto della versione degli ellenisti e che cercò di rimediarvi fu san Gerolamo. Rendo interamente giustizia alle sue intenzioni. Questo Padre, carattere ardente, spirito esploratore, avrebbe riparato al male se il male fosse stato di natura da cedere ai suoi sforzi. Troppo prudente per causare uno scandalo simile a quello di Marcione o di Mani, troppo giudizioso per isolarsi in vane sottigliezze come Origene e sant'Agostino, avvertiva che il solo mezzo per giungere alla verità era quello di risalire al testo originale. Ma questo testo era totalmente sconosciuto. Il testo Greco era tutto. E fu sul testo greco, cosa straordinaria e decisamente bizzarra! che erano state fatte, nella misura via via della necessità, non solo la versione latina, ma anche la copta, l'etiopica, la araba, persino la siriaca, la persiana, e tutte le altre.

Ma per riportarsi al testo originale si sarebbe dovuto conoscere l'ebraico. E come comprendere una lingua perduta da più di mille anni? gli Ebrei stessi, eccezion fatta di un piccolissimo numero di saggi ai quali i più terribili tormenti non sarebbero riusciti a strapparne i segreti, non conoscevano l'ebraico meglio di san Gerolamo, il quale prese un maestro tra i rabbini della scuola di Tiberiade. A questa notizia, tutta la Chiesa cristiana getta un grido di indignazione. Anche Sant'Agostino biasima vivamente san Gerolamo. Il quale San Gerolamo, nell'occhio dell'uragano, si pente di avere detto che la versione dei Settanta era mancante, tergiversa; una volta sostiene, per sedurre il popolo, che il testo ebraico è corrotto; un'altra esalta questo testo, conscio del fatto che gli Ebrei non hanno potuto corromperne una sola riga. Quando qualcuno gli rimprovera le sue contraddizioni, risponde che i suoi contraddittori ignorano le leggi della dialettica, e che nelle dispute si parla a volte in un modo e a volte in un altro e che si fa il contrario di ciò che si è detto. Chiama in causa san Paolo, cita Origene; Ruffino lo definisce empio, gli risponde che Origene non è mai arrivato fino a tradurre l'ebraico, cosa che possono fare solo gli Ebrei e gli apostati. Sant'Agostino, un po'meno esaltato, non accusa gli Ebrei di aver corrotto il testo sacro e non definisce san Gerolamo empio e apostata; riconosce a sua volta che la versione dei Settanta è spesso incomprensibile; ma fa ricorso alla Provvidenza divina che ha permesso che questi interpreti avessero tradotto la Scrittura nel modo che giudicavano più consono alle nazioni che più tardi avrebbero abbracciato il cristianesimo.

Nel cuore di queste innumerevoli contraddizioni, san Gerolamo ha il coraggio di portare avanti il suo disegno; ma altre contraddizioni, altri ostacoli più terribili lo attendono. Si rende conto che l'ebraico che vuole possedere gli sfugge a ogni passo; che gli Ebrei che consulta vagano nella più grande incertezza, che non concordano sul significato delle parole, che non hanno nessun principio fisso, nessuna grammatica; e infine, che il solo lessico di cui può servirsi è proprio quella Versione degli Ellenisti che si era proposto di emendare. Quale, allora, il risultato del suo lavoro? una nuova traduzione della Bibbia greca, fatta in un latino un po' meno barbaro delle traduzioni precedenti, e confrontato con il testo ebraico, quanto alle forme letterali. San Gerolamo non poteva fare di più. Anche se avesse penetrato i più intimi principi dell'ebraico; anche se il genio di questa lingua gli si fosse svelato davanti agli occhi, sarebbe stato costretto, per la forza delle cose, o a tacere o a trincerarsi nella versione degli Ellenisti. Questa versione, giudicata come il frutto di ispirazione divina, dominava talmente gli spiriti, che bisognava perdersi come Marcione o seguirla nella sua necessaria oscurità.

Ecco la storia della traduzione che viene detta la Vulgata.

Il Concilio di Trento ha dichiarato questa traduzione autentica, senza definirla infallibile; ma l'Inquisizione l'ha sostenuta con tutta la forza dei suoi argomenti e i teologi con tutto il peso della loro intolleranza e della loro parzialità (4).

Non mi addentrerò nel dettaglio noioso delle controversie innumerevoli che la versione degli Ellenisti e quella di san Gerolamo hanno suscitato in tempi più moderni. Passerò sotto silenzio le traduzioni che sono state fatte in tutte le lingue d'Europa, prima e dopo la Riforma di Lutero, in quanto sono tutte copie che si discostano più o meno dal greco o dal latino.

Martin Lutero o Agostino d'Egubio hanno un bel dire che gli Ellenisti sono degli ignoranti, essi non ne trascendono il lessico dal momento che questi traduttori si limitano a copiare san Gerolamo. Che Santes-Pagnin e Arias Montanus cerchino di discreditare la Vulgata e Luigi Capella passi trentasei anni della sua vita a rilevarne gli errori; o il dottor James o il padre, Henry de Bukentop o Luc de Bruges contino minuziosamente gli errori di quest'opera, duemila secondo alcuni o quattromila secondo altri; che il cardinal Cajetano o il cardinal Bellarmino ne abbiano sentore o li dichiarino, essi non avanzano di uno iota nell'intelligenza del testo. Le declamazioni di Calvino, le ricerche di Olivetano, di Corneille Bertram, di Ostervald, nonché di un'infinità di altri eruditi, non sortono miglior effetto. Che valore hanno i pesanti commenti di Calmet, le diffuse dissertazioni di Hottinger? quali nuove chiarificazioni producono le opere di Bochard, di Huët, di Leclerc, di Leong, di Michaelis? Forse contribuiscono a fare meglio conoscere l'ebraico? Questa lingua, perduta da venticinque secoli, cede forse alle ricerche del padre Houbigant, o a quelle dell'infaticabile Kennicott? a che serve che l'uno e l'altro, o tutte e due insieme, frughino le biblioteche di tutta Europa, compulsando, compilando, confrontando tutti i vecchi manoscritti? davvero a nulla. Varia qualche lettera o qualche punto-vocale, ma la stessa oscurità continua a ricoprire il significato del Sepher. In qualunque lingua lo si riversi, è sempre la versione degli Ellenisti che si traduce, poiché è quella che serve da lessico a tutti i traduttori dall'ebraico.

Impossibile, quindi, uscire da questo circolo vizioso senza l'acquisizione di una vera e perfetta conoscenza della Lingua ebraica. Ma come acquisire questa conoscenza? come? ristabilendo questa Lingua perduta nei suoi principi originali: scuotendo il giogo degli Ellenisti; ricostituendone il lessico; penetrando nei santuari degli Esseni: diffidando della dottrina esteriore degli Ebrei: aprendo – infine - questa arca santa che da più di tremila anni, chiusa a tutti i profani, ha portato fino a noi, per un decreto della divina Provvidenza, i tesori ammassati dalla sapienza e dalla conoscenza degli Egizi.

Ecco il fine di una parte del mio lavoro. Procedendo verso l'origine della Parola, ho ritrovato sui miei passi il cinese, il sanscrito, e l'ebraico. Ho esaminato i loro titoli. Li ho esposti ai miei Lettori. Forzato a fare una scelta tra questi tre idiomi primordiali, ho scelto l'ebraico. Ho detto come era avvenuto che l'ebraico, composto all'origine di espressioni intellettuali, metaforiche, universali, era insensibilmente ricaduto negli elementi più grossolani, restringendosi in espressioni materiali, proprie, e particolari. Ho mostrato in quale epoca e come l'ebraico si era totalmente perduto. Ho seguito le rivoluzioni del Sepher di Mosè, unico libro che lo racchiuda. Ho esaminato le vicende e il modo in cui vennero fatte le sue principali versioni. Ho ridotto queste versioni a quattro: le parafrasi caldaiche o Targum, la versione samaritana, la versione degli Ellenisti detta la Versione dei Settanta, e, infine quella di san Gerolamo o la Vulgata. Ho sufficientemente indicato come esse debbano essere assunte.

Adesso affido alla mia Grammatica il compito di ricordare i principi dimenticati della Lingua ebraica, di ristabilirli solidamente, di concatenarli ai loro risultati obbligati: alla mia traduzione della Cosmologia di Mosè e alle Note che la accompagnano, di mostrare la forza e la concordanza di questi risultati. Mi darò senza tema a questo lavoro difficile, certo del suo successo e della sua utilità, sempre che i miei Lettori non disdegnino di seguirmi con l'attenzione e la fiducia che esso esige.

 

 

 

1. Non ho bisogno, penso, di dire che il monte Moria è divenuto uno dei Simboli della Massoneria Adonhiramita. Questo termine significa propriamente la luce riflessa, lo splendore.

2. Filone, il più colto tra gli Ebrei del suo tempo, non sapeva una parola di ebraico, pur avendo scritto una storia di Mosè. Egli tesse grandi lodi della versione greca degli ellenisti, che era incapace di verificare sull'originale. Anche Giuseppe che ha scritto una storia della sua nazione, e che avrebbe dovuto fare uno studio particolare del Sepher, prova ad ogni istante che non comprende il testo ebraico, e che si serve più spesso del greco. All'inizio dell'opera fa tanta fatica per scoprire perché Mosè, per esprimere il primo giorno della creazione, si è servito del termine uno e non di primo , senza fare la semplicissima riflessione che in ebraico significa uno e primo. Si può spesso osservare che è meno attento al modo in cui i nomi propri erano scritti e invece più attento alla loro pronuncia, corrente nel suo tempo,talché li legge non con la lettera ebraica ma con la lettera greca. Questo storico, che promette di tradurre e di restituire il senso di Mosè senza nulla aggiungere o togliere, se ne è allontanato ad ogni passo. Nel primo capitolo del suo libro, dice che Dio tolse la parola al serpente, che gli rese la lingua velenosa; che lo condannò a non avere zampe, che comandò ad Adamo di camminare sulla testa del serpente, ecc. Ora, se Filone e Giuseppe dimostrano di ignorare a tal punto il testo sacro, cosa dovevano essere gli altri Ebrei? eccezion fatta, naturalmente, per gli Esseni.

3. É riportato in San Luca che Gesù Cristo lesse al popolo un passo di Isaia nella parafrasi caldaica e che lo spiegò (c. 4, vers. I8). Devo questa osservazione a Walton, Prolpgomena, Diseert.,XII.

4. Il cardinal Ximenes che aveva fatto pubblicare nel I5I5 una Poliglotta composta di ebraico, greco e latino, situò la Vulgata tra il testo ebraico e la versione dei Settanta; e paragonando questa Bibbia composta su tre colonne a Gesù Cristo tra i due ladroni; il testo ebraico, nella sua intenzione, rappresentava il cattivo ladrone, la versione ellenista il buon ladrone, e la traduzione latina Gesù Cristo! L'Editore della Poliglotta di Parigi dichiara nella prefazione che la Vulgata deve essere riguardata come la fonte originale, cui tutte le altre versioni e il testo stesso devono fare riferimento. Quando si hanno simili idee, si offre scarso accesso alla verità.

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