"Tedesca"

Mainerio Giorgio 1535 -1382

 

Sull'origine della Parola

 Studio delle Lingue che possono ad essa ricondurre

 

L'origine della Parola è generalmente sconosciuta. Invano gli eruditi dei secoli passati hanno ricercato il modo di risalire ai principi nascosti di questo fenomeno eclatante che distingue l'uomo da tutti gli esseri che lo circondano; che ne riflette il pensiero, e lo arma della fiaccola del genio e ne sviluppa le facoltà morali; tutto quanto essi seppero fare, come frutto di lunghe ricerche, fu unicamente di individuare una serie di ipotesi più o meno ingegnose, più o meno probabili, e generalmente fondate sulla natura fisica dell'uomo che essi reputavano immutabile, e che assumevano come base delle loro esperienze. Non parlo qui dei teologi scolastici, i quali, per trarsi d'impaccio in questo punto difficile, insegnavano che l'uomo era stato creato possessore di una lingua completamente formata; né del vescovo Walton, il quale, avendo adottato questo comodo punto di vista, a suo avviso comprovato dai colloqui di Dio con il primo uomo e dai discorsi di Eva al serpente, sembra non tener conto del fatto che questo preteso serpente, il quale si intratteneva con Eva e al quale Dio stesso parlava, avrebbe attinto a sua volta alla fonte stessa della Parola e partecipato alla lingua della divinità.

Mi riferisco invece a quegli studiosi che, lontani dalla polvere e dai clamori della scuola, ricercavano in buona fede quella verità che la scuola aveva perduto. E d'altra parte, gli stessi teologi erano stati ormai da tempo abbandonati dai loro discepoli. Il padre Richard Simon, di cui possediamo una eccellente storia critica dell'Antico Testamento, non esitava, fondandosi sull'autorità di san Gregorio Nasanzieno, a rifiutare l'assunto teologico per adottare quello di Diodoro Siculo e persino quello di Lucrezio, che attribuiscono la formazione del linguaggio alla natura dell'uomo e alla spinta dei suoi bisogni.

Se contrappongo il punto di vista di Diodoro Siculo e di Lucrezio a quello dei teologi, non se ne deduca che lo reputi più valido dell'altro. Tutta l'eloquenza di J.-J. Rousseau non riuscirebbe a farmelo approvare. É un estremo che tocca un altro estremo, e per ciò stesso si discosta dal giusto mezzo in cui risiede la verità. Nei suo stile nervoso e appassionato, Rousseau, descrive la formazione della società piuttosto che quella del linguaggio: egli adorna le sue finzioni dei più vivi colori, e trasportato dall'immaginazione personale, crede reale ciò che è unicamente fantastico.

 

Questa opera fa certamente stato di un possibile punto di partenza di una civiltà, ma non certamente dell'origine verosimile della Parola. Rousseau ha un bel dire che le lingue meridionali sono figlie del piacere mentre quelle settentrionali della necessità: rimane sempre aperta la questione: come piacere e necessità possano infantare simultaneamente parole che ogni popolazione concorda nel comprendere, e soprattutto concorda nell'adottare. Non è sempre Rousseau che ha sostenuto, facendo appello a una ragione più fredda e severa, che il linguaggio sarebbe unicamente istituito dalla convenzione, convenzione inconcepibile all’infuori del linguaggio? e questo circolo vizioso nel quale un moderno Teosofo confina l'origine del linguaggio può essere eluso? coloro che pretendono di fondare le nostre lingue e tutta la scienza del nostro intendimento unicamente sulle risorse delle circostanze naturali, e facendo ricorso ai soli strumenti umani, sostiene un Teosofo , si espongono volontariamente a quella terribile obiezione che hanno in prima persona tuttavia sollevato; poiché chi si ostina a negare non riesce a distruggere, e non è detto che si debba ricusare un argomento solo in quanto lo si disapprova: se il linguaggio dell'uomo è convenzione, come questa convenzione si è potuta determinare in carenza di linguaggio?

Leggete attentamente Locke e il suo più laborioso discepolo Condillac, e volendolo, assisterete alla decomposizione di una macchina ingegnosa, e forse ammirerete l'abilità del decompositore; ma continuerete a ignorare, adesso come prima, l'origine di questa macchina e le finalità del suo autore e la sua natura, e il principio che ne fa muovere gli ingranaggi. Che voi riflettiate con la vostra testa o che un lungo studio vi abbia insegnato a riflettere con le idee di altri, ben presto vi renderete conto che l'abile analista finisce per ridursi a essere un ridicolo operatore, il quale, illudendosi di spiegarvi come e perché un certo attore danza in teatro, afferra uno scalpello e seziona le gambe di un cadavere. Allora vi verranno in mente Socrate e Catone e vi parrà di sentirli rimproverare i fisici e i metafisici del loro tempo; opponete i loro argomenti irresistibili alla vana iattanza di questi scrittori empirici e imparerete che non basta smontare un orologio per assimilarne il movimento.

Ma se l'opinione dei teologi sull'origine della parola suona come un insulto alla ragione, e quella degli storici e dei filosofi non resiste a un esame severo, ne consegue che non è dato all'uomo conoscerla. L'uomo che, nel significato dell'iscrizione del tempio di Delfi è incapace di conoscere se non nella misura in cui si conosce egli stesso (1), è allora condannato a ignorare ciò che lo pone al primo posto tra gli esseri sensibili e ciò per cui gli è dato lo scettro della Terra, ciò che lo costituisce veridicamente uomo: la Parola! Ma questo non può essere, poiché la Provvidenza è giusta. Un numero abbastanza considerevole di studiosi o di filosofi di tutte le nazioni ha penetrato questo mistero e se, malgrado i loro sforzi, questi uomini privilegiati non hanno potuto comunicare la loro scienza e non sono pervenuti a renderla universale, ciò significa unicamente che gli strumenti, i discepoli o le circostanze favorevoli a questo fine sono loro mancati.

In quanto la conoscenza della Parola, e la conoscenza degli elementi e dell'origine del linguaggio non appartengono al novero delle conoscenze che facilmente si trasmettono ad altri, e che sono dimostrabili al modo dei geometri. Per quanto lato ne sia il pensiero, per quanto profonde siano le radici che questa conoscenza abbia gettato in un'intelligenza, per quanto numerosi i frutti che vi abbia sviluppato, non si può mai comunicare, di questa conoscenza, che il principio. Talché, nella natura elementare, nulla si propaga immediatamente o contemporaneamente: l'albero più vigoroso, l'animale più perfetto, non producono simultaneamente il loro simile. Essi gettano, secondo la loro specie, un germe che intanto è differentissimo da loro stessi e che rimane non fertile finché una qualche componente esterna non concorra al suo sviluppo. Le scienze archeologiche e in generale tutte quelle che risalgono fino al principio delle cose, seguono lo stesso modo di procedere. Invano quanti ne posseggono la sapienza dispiegano sforzi generosi nell'intenzione di propagarla. I germi più fecondi che essi diffondono al di fuori, ricevuti da mentalità incolte o mal preparate, subiscono la sorte dei semi che, caduti in un terreno pietroso, o tra le spine, muoiono sterili o soffocati. Non sono mancati i soccorsi ai nostri dotti, ma piuttosto l'attitudine a riceverli. La maggior parte di coloro che si mettevano a scrivere di lingue non sapevano neppure cosa fosse la lingua; poiché non basta per ciò avere compilato qualche grammatica o aver sudato acqua e sangue per aver trovato qualche differenza tra un supino e un gerundivo; occorre aver esplorato molti idiomi, averli comparati reciprocamente con sicura assiduità e privi di pregiudizio, onde penetrare, attraverso i punti di contatto propri al genio particolare delle varie lingue, fino al genio universale che presiede alla loro formazione e che tende a farne una medesima lingua.

Tra gli antichi idiomi dell'Asia ne esistono tre che occorre assolutamente conoscere se si vuole procedere con sicurezza nel campo dell'etimologia ed elevarsi per gradi fino alle radici del linguaggio. Questi idiomi, che posso a giusto titolo definire lingue nel senso ristretto che si dà a questo termine, sono il cinese, il sanscrito e l'ebraico. Chi tra i lettori conosce i lavori degli studiosi di Calcutta, e particolarmente quelli di William Jones, potrà stupire che io parli dell'ebraico in luogo dell'arabo, da cui quello stimabile scrittore fa derivare l'idioma ebraico, e che cita come una delle lingue-madri dell'Asia. Espliciterò il mio pensiero al riguardo e dirò intanto perché non cito il persiano o il tataro oighuri che forse qualcuno sospetta che dimentichi.

Quando W. Jones, gettando sul vasto continente asiatico e sulle isole numerose che ne dipendono, un occhio osservatore, individuò cinque nazioni dominatrici tra quelle che a suo avviso se ne spartivano l'eredità, edificò un quadro geografico felicemente concepito e decisamente interessante, che lo storico avrà una certa utilità a considerare; ma, nello stabilire questa divisione, ebbe maggiore preoccupazione per la potenza e la diffusione dei popoli che nominava, piuttosto che per i reciproci autentici titoli di anteriorità; poiché questo autore non teme di sostenere che i Persiani, che colloca all'interno delle cinque nazioni dominatrici, provengano dagli Hindù e dagli Arabi e sostiene che i Cinesi sono praticamente una colonia indiana non riconoscendo che tre fonti primordiali: la Tatara, la Hindù, la Araba.

Benché non possa interamente concordare con tale conclusione, devo tuttavia tornare a precisare che questo scrittore, definendo le cinque principali nazioni dell'Asia, aveva maggiore considerazione per la loro potenza che non per i loro autentici diritti di anteriorità. É quanto meno evidente che se non avesse ceduto alla gloria di cui il nome arabo si è circonfuso nei nostri tempi moderni, e per l'apparizione di Maometto, e la propagazione del culto e dell'impero islamita, W. Jones non avrebbe preferito il popolo arabo al popolo ebraico per farne una delle matrici primordiali dell'Asia.

Questo scrittore aveva fatto uno studio tropo approfondito delle lingue asiatiche per non sapere che i nomi che noi diamo agli Ebrei e agli Arabi, i quali appaiono molto diversi, per il nostro modo di scriverli, non rappresentano in fondo che lo stesso epiteto modificato nei due diversi dialetti. Tutti sanno che i due popoli fanno risalire le proprie origini al patriarca Heber: ora, il nome di questo preteso patriarca, altro non significa se non ciò che è posto dietro o oltre, ciò che è allontanato, nascosto, dissimulato, privato del giorno, ciò che passa, ciò che termina (fa da termine), ciò che è occidentale, ecc. Gli Ebrei, il cui dialetto, chiaramente anteriore al dialetto degli Arabi, ne hanno derivato hebri, mentre gli Arabi habri, con una trasposizione di lettere che è molto comune in questo caso. Ma sia che venga pronunciato hebri, o habri, il termine esprime sempre come il popolo che ne è portatore si trova situato oltre o all'estremità o al limite occidentale di un certo luogo geografico. Ecco, qual era , fino dai tempi più antichi, la situazione degli Ebrei e degli Arabi, relativamente all'Asia, il cui nome, esaminato nella sua radice primitiva, significa il Continente Unico, la Terra propriamente detta, la Terra di Dio.

Se, al di fuori di ogni pregiudizio sistematico, si considera attentamente l'idioma arabo, vi si scorgono i segni certi di un dialetto che, sopravvissuto a tutti i dialetti provenienti da una stessa fonte, si è successivamente arricchito dei loro residui, ha subito le vicissitudini del tempo e, seguendo le sorti espansionistiche di un popolo di conquistatori, si è appropriato di un gran numero di parole estranee alle sue radici primitive; si è ripulito, modellato sugli idiomi dei popoli vinti e via via si è vagamente differenziato da ciò che era all'origine, mentre, per contro, l'idioma ebraico (e con questo idioma io intendo quello di Mosè, spento ormai da tempo remotissimo nella sua stessa patria, e perduto per il popolo che lo parlava), si è concentrato in un libro unico che nessuna o quasi delle vicissitudini che hanno alterato l'arabo sono riuscite a colpire. É questo fatto che soprattutto lo distingue, ed è quello che me lo ha fatto preferire.

Questa considerazione non è sfuggita a W.Jones. Egli avverte che l'idioma arabo, verso cui peraltro nutriva molta inclinazione, non aveva prodotto prima del Corano nessuna opera degna di autentica considerazione; il quale Corano non è altro che uno sviluppo del Sepher di Mosè, mentre il Sepher, sacro rifugio dell'idioma ebraico, indipendentemente dalla ispirazione divina, contiene - rileva sempre secondo Jones - molto più squisita bellezza, pura moralità, storia essenziale, momenti di poesia e di eloquenza, che non tutti i libri, in qualunque lingua scritti, e in qualunque secolo apparsi.

Per quanto sia già dire molto, e per quanto si possa, e senza fare minimamente torto al Sepher, paragonargli e persino preferirgli altre opere ugualmente famose tra le nazioni, sono pronto ad ammettere che esso racchiuda - per coloro che sanno leggerlo - cose di alta concezione e di profonda sapienza; mentre non è certamente nello stato in cui si mostra ai lettori volgari che esso merita tali elogi, a meno che non ci si voglia parare gli occhi con la doppia benda della superstizione e del pregiudizio. Certamente, W. Jones lo intendeva nella sua purezza; o per lo meno mi piace crederlo.

Del resto, non è che attraverso opere di tale natura che una lingua acquisisce diritti alla venerazione. I libri dei principi universali, denominati King dai Cinesi, e i libri della scienza divina chiamati Veda o Beda dagli Hindù, il Sepher di Mosè, ecco ciò che rende illustre per l'eternità il cinese, il sanscrito, e l'ebraico. Benché il tataro oighuri costituisca una delle lingue primitive dell'Asia, non ho ritenuto di annoverarla tra quelle il cui studio è necessario per chi intenda risalire al principio della Parola, poiché niente saprebbe ricondurre a quel principio, in un idioma del tutto privo di letteratura sacra. E come avrebbero fatto i tatari a disporre di una letteratura sacra o profana, essi che neppure conoscevano i caratteri della scrittura? il celebre Genghis-Kan, il cui impero abbracciava, una zona immensa; non trovò, nell'ambito dei suoi migliori autori, uno solo dei suoi Moghol, in grado di scriverne i dispacci. Timur-Lenk, a sua volta dominatore di una parte dell'Asia, non sapeva né leggere né scrivere. Tale difetto di carattere e di letteratura, mentre lasciava gli idiomi tatari in una fluttuazione continua, abbastanza simile a quella che vivono ai nostri giorni gli informi dialetti delle popolazioni, selvagge dell'America, rende il loro studio inutile all'etimologia, e tale da gettare nelle menti dei lumi incerti, e quasi sempre falsi.

L'origine della Parola deve unicamente essere ricercata in monumenti autentici, dove la Parola stessa abbia lasciato la sua impronta ineffabile.

Se il Tempo e la falce delle rivoluzioni avessero meglio rispettato, i libri di Zoroastro, volentieri avrei eguagliato all'ebraico l'antica lingua dei Parsi, la lingua Zend, in cui sono scritti i frammenti che ci rimangono; ma dopo un esame lungo e imparziale, non ho potuto che constatare, e malgrado tutta la riconoscenza per i lavori incredibili di Anquetil-du-Perron che li ha ripristinati, come il libro che oggi viene chiamato Zend-Avesta dai Parsi, si riduce a una sorta di breviario, a una compilazione di preghiere e di litanie, dove sono talora mescolati alcuni frammenti dei libri sacri di Zeredosht, l'antico Zoroastro, tradotti in lingua viva, in quanto il termine Zend significa precisamente lingua viva. L'Avesta primitivo era diviso in ventun parti dette Nosk, in cui veniva esaminata in dettaglio la natura,così come fanno i Veda e i Purana degli Hindù coi quali Zoroastro aveva forse maggiore affinità di quanto non si pensi.

 

Per il Zend-Avesta consultare la sezione dedicata

Zend-Avesta

 

Il Bun-Dehesh che Anquetil-du-Perron ha tradotto dal Pehlvi, sorta di dialetto ancora più moderno dello Zend, sembra essere unicamente un estratto di quella parte dell'Avesta che trattava particolarmente dell'origine degli Esseri e della nascita dell'Universo.

W. Jones, il quale insieme a me ritiene che i libri originali di Zoroastro siano perduti, pensa che lo Zend, in cui sono scritti i frammenti da noi posseduti, sia un dialetto del sanscrito, e che il Pehlvi, derivato dal caldaico e dal tataro cimmeriano, ha contaminato di molte sue espressioni. Opinione abbastanza conforme a quella del dotto d'Herbelot, il quale riconduce lo Zend e il Pehlvi al caldaico nabateo 18 , la più antica lingua dell'Assiria, in quanto è molto probabile che i caratteri del Pehlvi e dello Zend siano di origine caldaica.

Da parte mia sono convinto che le famose iscrizioni che si trovano nelle rovine dell'antica Isthakar, la Persepoli dei Greci, e di cui nessun erudito ha finora decifrato i caratteri, appartengano alla lingua nella quale erano originariamente scritti i libri sacri dei Parsi, prima di essere abbreviati e tradotti in Pehlvi e in Zend. Questa lingua, di cui persino il nome si è perduto era forse parlata alla corte di quei monarchi dell'Iran, di cui fa menzione Mohsen-al-Fany in un suo libro molto curioso intitolato Dabistan (2), che avrebbero preceduto la dinastia dei Pishdadi, ordinariamente riguardata come la prima.

Ma senza ulteriormente dilatare questa digressione, credo di avere provato a sufficienza come lo studio dello Zend non possa vantare lo stesso interesse, né produrre gli stessi frutti dello studio del cinese, del sanscrito e dell'ebraico, essendo un dialetto del sanscrito, che offre solo scarni frammenti di letteratura sacra tradotti da una lingua sconosciuta, e comunque anteriore. É sufficiente inserirlo alla stregua di una sorta di supplemento nella ricerca dell'origine della Parola, e ritenerlo il legame che salda il sanscrito all'ebraico.

Lo stesso vale per l'idioma scandinavo, e per le poesie runiche conservate nell'Edda. Questi venerabili residui della letteratura sacra dei Celti, nostri progenitori, debbono essere riguardati come uno strumento di saldatura tra le lingue dell'antica Asia e quelle dell'Europa moderna. E quindi, non sono da disdegnare come studio ausiliare, tanto più che rappresentano tutto ciò che ci rimane di autentico relativamente al culto degli antichi Druidi; e gli altri dialetti celtici, quali il Basco, il Bretone armoricano, il Bretone wallico o cumraig, che non posseggono nessun monumento scritto non possono meritare alcun affidamento per ciò che attiene all'argomento fondamentale che trattiamo.

Ma ritorniamo alle tre lingue di cui raccomando lo studio: il cinese, il sanscrito e l'ebraico; osserviamole, sia pur brevemente, e senza preoccuparci per il momento delle forme grammaticali, unicamente preoccupati di penetrarne il genio, e vediamo in che cosa esse profondamente differiscono.

 

La Lingua cinese è di tutte le lingue, attualmente viventi sulla terra, la più antica; quella che presenta gli elementi più semplici e più omogenei. Nata all'interno di un ristretto gruppo di uomini rozzi, separati dagli altri uomini per effetto di una catastrofe fisica accaduta al globo, essa si è inizialmente rinchiusa nei suoi limiti più ristretti, germinando unicamente radici scarse e materiali, e non elevandosi al di sopra delle più semplici percezioni dei sensi. Tutta fisica, quanto all'origine, non richiama alla memoria che oggetti fisici: duecento parole circa ne componevano tutto il lessico, e ancora ridotte al significato più ristretto; tutte si appigliavano a definire idee locali e particolari. La Natura, isolando così il cinese da tutte le lingue, lo difese per un tempo molto lungo dalla contaminazione; e quando gli uomini che lo parlavano, essendosi moltiplicati, poterono espandersi via via e avvicinare altri uomini, l'arte gli venne in soccorso, ricoprendolo di una difesa impenetrabile. Intendo, con questa difesa, i caratteri simbolici, di cui una tradizione sacra attribuisce l'origine a Fo-hi. Questo santo uomo, dice questa tradizione, dopo aver esaminato il cielo e la terra, e ricercato la natura delle cose mediane rispetto a queste, tracciò gli otto Kua, le cui diverse combinazioni apparvero sufficienti per esprimere tutte le idee fino allora sviluppate nell'intelligenza del popolo. Quest'invenzione fece cessare l'uso delle corde che si era mantenuta nell'uso fino ad allora (3).

E tuttavia, nella misura in cui il popolo cinese si estendeva, nella misura in cui la sua intelligenza progrediva, la sua lingua seguì questi diversi sviluppi. Il numero delle sue parole, fissate dai Kua simbolici, non poteva essere aumentato: fu l'accento a modificarle. Da particolari che erano, divennero generiche, dal rango di nomi, si elevarono a quello di verbi; la sostanza venne distinta dallo spirito. Allora si sentì la necessità di inventare nuovi caratteri simbolici, che riunissero facilmente gli uni e gli altri significati, che potessero seguire lo slancio del pensiero e sapessero prestarsi a tutti i movimenti dell'immaginazione. Dopo questo passo, più nulla fermò il cammino di questo idioma indigeno che, pur senza mai variare i suoi elementi, pur senza ammettere alcunché di straniero nella sua forma, è bastato, per una successione incalcolabile di secoli, ai bisogni di una nazione immensa, e la ha dotata di libri sacri che mai nessuna rivoluzione ha potuto distruggere, fino ad arricchirsi di tutto ciò che il Genio metafisico e morale può generare di più profondo, di più eminente e di più puro.

Tale è questa lingua che, difesa dalle sue forme simboliche, inaccessibile a tutti gli idiomi vicini, li ha visti morire intorno a sé, come un albero vigoroso vede seccare ai suoi piedi una folla di piante fragili che la sua ombra deruba del calore fecondante del giorno.

 

Il sanscrito non è affatto originario dell'India. Se mi è consentito di esprimere il mio pensiero, senza dovermi assoggettare a provarlo, in quanto non sarebbe questo il tempo e il luogo, ritengo che un popolo di molto anteriore agli Hindù, abitante un'altra parte della terra, venne in tempi remotissimi a stanziarsi nel Bharat-Wersh, oggi chiamato Industan, del quale si incontrano considerevoli vestigia a Singala, capitale dell'isola di Ceylon, nei regni del Sima, del Pegu, e in tutto quello che viene detto l'impero dei Burmani. Ovunque questa lingua è considerata come sacra. W. Jones; che condivide il mio avviso, relativamente all'origine esotica del sanscrito, pur senza attribuirgli la lingua bali come origine primitiva, dimostra che il puro hindi, originario della Tataria, dialetto informe all'epoca di quella colonizzazione, ha ricevuto da una qualche lingua straniera le sue forme grammaticali, e trovandosi in una situazione sfavorevole per essere, se così si può dire, innestato a quello, ha sviluppato una forza espressiva, un'armonia, un'abbondanza di cui tutti gli Europei che hanno avuto ventura di comprenderlo, parlano con ammirazione.

Infatti, quale altra lingua ha mai posseduto una più estesa letteratura sacra? prima che gli Europei, liberatisi dai pregiudizi, esauriscano la feconda miniera rappresentata dal sanscrito, quanti anni dovranno ancora passare!

Al dire di tutti gli scrittori inglesi che lo hanno studiato, il sanscrito è la lingua più perfetta che mai gli uomini abbiano parlato. Essa supera il greco e il latino in regolarità e in ricchezza, e il persiano e l'arabo nelle concezioni poetiche. Conserva con le nostre lingue europee una sorprendente analogia che soprattutto attiene alla forma dei caratteri scritti da sinistra a destra i quali, secondo W.Jones, sono serviti da tipo e prototipo a tutti quelli che sono stati e ancora sono in uso in Asia, Africa e in Europa.

 

E adesso, passiamo alla Lingua ebraica. Si sono fatte tali e tante congetture, su questa Lingua, e il pregiudizio sistematico o storico che ha guidato la penna dei suoi storici ne ha talmente oscurato l'origine, che io oso appena dire ciò che essa è, tanto ciò che devo dire è semplice. Semplicità forse non priva di merito: poiché, se non la esalto fino a dire con i rabbini della sinagoga o i dottori della Chiesa che essa ha presieduto la nascita del mondo, che angeli e uomini l'hanno appresa dalla viva bocca di Dio, e che questa lingua celeste, ricuperata la sua origine, diverrà quella che i beati parleranno in cielo; non dirò, neppure, insieme ai filosofi moderni, che è il dialetto miserabile di un'orda di uomini maliziosi, testardi, diffidenti, avari, turbolenti; ma dirò, senza alcuna parzialità, che l'ebraico contenuto nel Sepher è il puro idioma degli antichi Egizi.

Questa verità non piacerà alle persone appassionate pro e contro, lo so bene, ma non è colpa mia se la verità accarezza così raramente le passioni.

No, la Lingua ebraica non è la prima né l'ultima delle lingue: né è la sola lingua madre come ha ritenuto male a proposito un Teosofo moderno che pure gode di tutta la mia stima; è la lingua di un popolo potente, illuminato, religioso; di un popolo contemplativo, profondamente istruito nelle scienze morali, amico dei misteri; di un popolo la cui sapienza e le cui leggi sono state a giusto titolo ammirate. Questa lingua, che pure non è la sola ad aver generato le meraviglie divine, separata dal suo ceppo originale, allontanata dalla sua culla per effetto di una emigrazione provvidenziale, di cui è inutile rendere conto in questo momento, divenne l'idioma particolare del popolo ebreo; e simile al ramo fecondo che un abile agricoltore avesse trapiantato in un terreno preparato come si conviene, per fruttificarvi molto tempo dopo che il tronco disseccato che lo ha prodotto è scomparso, ha conservato e portato fino a noi il deposito prezioso delle conoscenze egizie.

Ma questo deposito non è stato affidato ai capricci del caso. La Provvidenza, che ne voleva assicurata la conservazione, ha bene saputo metterlo ai ripari degli uragani. Il libro che lo contiene, coperto da un triplice velo, ha attraversato indenne il torrente dei secoli, rispettato dai suoi possessori, sfidando lo sguardo dei profani, e unicamente compreso, nel corso dei tempi, da quelli che non potevano divulgarne i segreti.

Ciò detto, ritorniamo sui nostri passi. Ho detto che il cinese, isolato dalla nascita, partendo dalle più semplici percezioni dei sensi, era pervenuto, di sviluppo in sviluppo, alle più alte concezioni dell'intelligenza; tutto il contrario vale per l'ebraico: questo idioma separato, interamente formato su una lingua pervenuta alla più alta perfezione, interamente composta di espressioni universali, intellegibili, astratte, e data in questo stato a un popolo robusto ma ignorante, è caduta, tra le sue mani, di degenerescenza in degenerescenza, e di restrizione in restrizione, fino ad esprimere gli elementi più materiali; tutto quanto era spirito vi è divenuto sostanza; tutto quanto era intellegibile è divenuto sensibile; e tutto quanto era universale è divenuto particolare.

 

Il sanscrito, che mantiene una sorta di medio tra le due, in quanto risultato di una lingua organizzata, e innestata su un idioma informe, si è sviluppato nella prima fase con ammirabile prontezza; ma dopo avere, come il cinese e l'ebraico, gettato i suoi frutti divini, non ha saputo reprimere il lusso delle sue produzioni: la sua stupefacente facilità è divenuta origine di un eccesso che ha finito per comportarne la caduta. Gli scrittori hindu, abusando della facilità che era loro data nella composizione delle parole, hanno composto termini di eccessiva lunghezza: non solo ne hanno avuto di dieci, di quindici, di venti sillabe, ma hanno spinto la stravaganza fino a racchiudere in semplici iscrizioni termini che estendono fino a cento e centocinquanta sillabe La loro immaginazione vagabonda ha seguito l'intemperanza dell'elocuzione: la loro lingua è scomparsa.

Ma questa lingua dispiega nei Veda una ricchezza che è economia. É attraverso questo mezzo che si può esaminare la sua flessibilità nativa e compararla alla rigidezza dell'ebraico che, al di fuori dell'amalgama della Radice e del Segno, non patisce veruna composizione; oppure alla facilità che attribuisce il cinese alle sue parole, tutte monosillabiche, di riunirsi insieme senza mai confondersi. Le principali bellezze di quest'ultimo idioma risiedono nei suoi caratteri, la cui combinazione simbolica offre come un quadro più o meno perfetto, secondo il talento dello scrivente 29. Si può dire, fuor di metafora, che essi dipingono il discorso.

Solo per loro mezzo le parole divengono oratorie. La lingua scritta differisce essenzialmente dalla lingua parlata. Quest'ultima produce un effetto molto mediocre e per così dire nullo, mentre la prima trasporta il lettore, offrendogli una serie di immagini sublimi. I caratteri sanscriti non dicono nulla all'immaginazione, e l'occhio che li percorre non vi fa la menoma attenzione: è alla felice composizione delle sue parole, alla loro armonia, alla scelta e al concatenamento delle idee, che questo idioma deve la sua eloquenza. Se il più grande effetto del cinese risiede negli occhi, quello del sanscrito risiede nelle orecchie. L'ebraico riunisce i due vantaggi, malgrado che in proporzione minore. Originario dell'Egitto, dove si impiegavano insieme i caratteri geroglifici e letterali 31, esso offre un'immagine simbolica in ciascuna parola, benché la sua frase conservi nell'insieme tutta l'eloquenza della lingua parlata. Ecco la duplice facoltà che ha valso all'ebraico tanti elogi da parte di coloro che lo comprendevano e tanti sarcasmi da parte di coloro che non lo comprendevano.

I caratteri cinesi si scrivono dall'alto in basso, uno sotto l'altro, e le colonne si pongono da destra a sinistra: i caratteri sanscriti si situano secondo una linea orizzontale, da sinistra a destra, mentre i caratteri ebraici, per contro, procedono da destra a sinistra. Sembra che, nel modo di scrivere i caratteri simbolici, il genio della lingua cinese ne richiami l'origine, e li faccia ancora discendere dal cielo, come si dice che fece il loro primo inventore. Il sanscrito e l'ebraico, tracciando le linee in maniera opposta, fanno a loro volta allusione al modo in cui furono inventati i l'oro caratteri letterali, poiché, come riteneva a giusto titolo Leibnitz, tutto ha la sua ragion sufficiente; ma come questa consuetudine attiene soprattutto alla storia dei popoli, non è qui la sede per entrare nella discussione che il suo esame comporterebbe. Mi limito ad osservare come il metodo adottato dall'ebraico era quello degli antichi Egizi, come riferisce Erodoto. I Greci, che ricevettero le loro lettere dai Fenici, scrissero a loro volta per qualche tempo da destra a sinistra: ma la loro origine, molto diversa, impose ben presto di modificare tale consuetudine. Inizialmente, tracciavano le linee a forma di solchi, da destra a sinistra e alternativamente da sinistra a destra: quindi, si fissarono sul solo metodo che noi conosciamo oggi, e che è poi quello del sanscrito, col quale le lingue europee hanno - come ho già detto - molta analogia.. Queste tre maniere di scrivere meritano di essere considerate con attenzione, sia nelle tre lingue tipiche, sia nelle lingue derivate che ne dipendono, direttamente o indirettamente. E limito a questa osservazione il parallelismo: spingerlo più lontano sarebbe inutile, tanto più che non potendo esporre assieme le forme grammaticali del cinese, del sanscrito e dell'ebraico, correrei il rischio di non essere capito. É necessario fare una scelta.

Se potessi sperare di avere il tempo e i soccorsi necessari, non avrei esitato a prendere intanto il cinese come base del mio lavoro, riservandomi di passare, in seguito, al sanscrito e all'ebraico, fondando il mio metodo su una traduzione originale del King, dei Veda e del Sepher: ma nella quasi certezza del contrario, e spinto da ragioni importanti, mi sono determinato a partire dall'ebraico, in quanto portatore di un interesse più diretto, più generale, più alla portata dei miei Lettori, e tale da consentire, d'altra parte, alcuni risultati di una utilità meno remota. Sono convinto che, se le circostanze non mi consentissero di realizzare il mio proposito relativamente al sanscrito e al cinese, si troverebbero degli uomini abbastanza coraggiosi, abbastanza docili all'impulso che la Provvidenza fornisce per il perfezionamento delle scienze e il bene dell'umanità, capaci di intraprendere questo lavoro faticoso e porre termine a quello da me iniziato.

 

 

 

1. La famosa iscrizione "conosci te stesso" è riferita da Plinio al Chilone, celebre filosofo greco vivente verso il 560 a.c. Della città di Lacedemone, si racconta che morisse di gioia abbracciando il figlio, vincitore ai giochi olimpici.

2. Non si conosce questa opera che tratta dei costumi in uso in Persia se non per un solo estratto, inserito in New Asiat. Miscellany, pubblicato a Calcutta da Gladwin, nel I789.

3. Traduzione tratta dalla grande storia Tse-chi-Kien-Kang-Mu che l'imperatore Kang-hi fece tradurre in tataro e decorò di una prefazione.

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