l documento che segue è estratto dal testo "Il Nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio" Ed.

Adelphi anno 1998, ed è uno scritto poco noto di Gershom Scholem ed è collocato in appendice ad uno

studio ben più vasto nel quale l'autore sostiene che l'essenza del linguaggio coincide con l'essenza stessa

del mondo.

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© Gershom Scholem

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Il Nome di Dio

 

 

 

 

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Lo studio filologico di una disciplina mistica come la Qabalah ha in sé un aspetto ironico. Il suo oggetto è una coltre di nebbia – la storia della tradizione mistica – che avvolge il corpus, lo spazio della cosa stessa: ma quella nebbia promana dalla cosa stessa.
Ora, sotto tale coltre rimane ancora qualche residuo della legge della cosa stessa, che il filologo possa cogliere, oppure in questa prospettiva storica scompare proprio l'essenziale? Rispondere a questa domanda è difficile per la natura stessa della ricerca filologica: e così la speranza di cui la filologia si nutre conserva un che di ironico da cui non può affrancarsi. O forse l'ironia risiede già nell'oggetto stesso della Qabalah, prima ancora che nella sua storia?
Il cabalista ritiene che la verità abbia una tradizione, che la verità possa essere tramandata. Affermazione ironica, poiché la verità di cui si parla qui è tutt'altro che tramandatile. La verità può essere conosciuta ma non trasmessa, e proprio ciò che di essa è tramandabile non la contiene più. La tradizione autentica resta celata: solo decadendo la tradizione scade a oggetto, solo nella rovina essa appare in tutta la sua grandezza.

2

Per i capolavori dell'antica letteratura cabalistica, venire divulgati è la miglior tutela del loro segreto. Noi, infatti, non siamo più in grado di vedere. E quando mai, d'altronde, ci viene chiesto di farlo? Nessuna opera cabalistica è stata tanto criticata per il suo carattere divulgativo, per il presunto tradimento dei segreti della Torah da essa perpetrato, quanto lo Emeq ha-Melek di Ya'agov Elhanan Bacharach di Francoforte sul Meno, uscito nel 1648. Ma se apriamo oggi questo volume in folio, risulta evidente che la nostra percezione di questo tradimento deve essere svanita. Non vi è infatti libro più incomprensibile di questa Valle del Re. Abbiamo dunque di nuovo a che fare con quella politica mistico-anarchica che custodisce i propri segreti dicendoli piuttosto che tacendoli? E quale, fra tutti i mondi di cui si è data espressione, è più sprofondato nella sua enigmatica dicibilità del mondo della Qabalah Luriana?
 

3
Carattere della conoscenza nella Qabalah: la Torah è il medium in cui ogni essere conosce. Il simbolismo dello «specchio luminoso», applicato alla Torah dai cabalisti, è in tal senso emblematico. La Torah è il medium nel quale si specchia la conoscenza: uno specchio opaco, come comporta la natura stessa della tradizione, e tuttavia splendente nella purezza della dottrina «scritta», quella che non può essere applicata. Essa infatti può essere applicata solo se diventa «orale», cioè tramandabile. La conoscenza è il raggio lungo il quale la creatura cerca, partendo dal suo medium, di risalire alla propria scaturigine – e tuttavia restando inevitabilmente nel medium perché Dio stesso è Torah, e la conoscenza non può uscirne. C'è un senso di infinito sconforto in quelle prime pagine dello Zohar nelle quali si enuncia il carattere non oggettuale della conoscenza suprema. La natura di medium posseduta dalla conoscenza si manifesta nella forma classica della domanda: la conoscenza è una domanda che ha il suo fondamento in Dio, ma una domanda che non ha risposta. Il «chi» è l'ultima parola di ogni teoria, ed è abbastanza sorprendente che essa possa andare tanto oltre, procedendo dal «che cosa» cui resta legato il suo inizio.

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Il linguaggio materialistico della Qabalah Luriana, specialmente nella sua deduzione dello Tzim-zum (l'autocontrazione di Dio), induce a domandarsi se il simbolismo che si avvale di queste immagini e discorsi non coincida per caso con la cosa stessa. Questo aspetto materialistico della Qabalah risale in fondo a quel momento in cui nella teosofia cabalistica venne introdotto come suo principio la legge dell'organismo vivente. Ora, fa poca differenza affermare che a questa legge noi siamo soggetti perché è la legge stessa della vita divina, o «trasporla» solo «per così dire» nella sfera divina. La sfera d'azione della legge, comunque la si consideri, comprende tutto indifferentemente. Si può argomentare che le speculazioni dei cabalisti sullo Tzim-zum sono coerenti e sensate solo se riguardano un sostrato materiale, sia questo lo stesso En-sof oppure la sua «luce». L'accusa rivolta ai teologi eretici della Qabalah sabbatiana, quella cioè di aver frainteso in senso materialistico i misteri spirituali, mostra dove possa condurre il tentativo di pensare secondo la logica interna delle immagini. In questo materialismo che caratterizza la dottrina dello Tzim-zum e della rottura dei vasi è presente fin dall'inizio un momento dialettico. L'idea propria della Qabalah sabbatiana di Natan di Gaza, secondo la quale nello stesso En-sof si oppongono, e insieme si riverberano l'una nell'altra, una luce «piena di pensiero» e una luce che ne è «priva», è solo il modo più radicale per introdurre in Dio stesso questo processo materialistico-dialettico. Definire i cabalisti dei materialisti mistici con tendenze dialettiche sarebbe certo completamente astorico, ma tutt'altro che assurdo.

 

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Nel modo in cui la Qabalah antica pensa il rapporto tra l'En-sof e il nulla ha in fondo trovato espressione quella stessa sensibilità per la dialettica presente nel concetto di creazione che si ritrova poi nell'idea dello Tzim-zum. Che cosa vuol dire infatti, sostanzialmente, la separazione tra l'En-sof e la prima Sephirâ? Vuol dire proprio questo, che la pienezza d'essere del Dio nascosto, trascendente rispetto ad ogni conoscenza (anche intuitiva), nell'atto originario dell'emanazione, nel puro volgersi alla creazione, diventa nulla. Si tratta di quel nulla divino che, nella prospettiva dell'itinerario mistico, doveva necessariamente apparire come l'ultimo grado dell' «estasi» . E tuttavia ai cabalisti resta qui la consapevolezza di un ultimo abisso, l'abisso della volontà che si presenta come il nulla. In questo atto, nell'abisso di questo volere, tutto in realtà è già dato. Infatti, il volgersi di Dio alla creazione è già la creazione stessa, anche se poi essa ci si manifesta in una serie infinita di articolazioni e processi. In Dio, invece, tutto ciò è un atto unitario. In questo senso, la distinzione originaria tra l'En-sof e la prima Sephirâ si ricollega alla problematica del panteismo, il cui spazio in tale distinzione viene a ridursi in modo drastico: soprattutto in Mosè Cordovero è ben chiara la consapevolezza che il movimento dall'En-sof alla prima Sephirâ, l'atto primordiale, rappresenta un passo senza paragone più importante di tutti quelli successivi. In questa prospettiva si può comprendere anche il deciso rifiuto, da parte di tutti i cabalisti dopo il 1530, di identificare l'En-sof con il nulla (Ayin). Essi sembrano avvertire qui il pericolo che corre la tesi dell'identificazione dei due concetti: le manca il momento dialettico insito nel concetto di creazione. È questa mancanza di dialettica a rendere quella tesi vulnerabile nei confronti del panteismo. Senza trascendenza, il nulla viene qui a ricadere nel qualcosa. Si potrebbe dire che i primi cabalisti, che volevano stabilire tra En-sof e Ayin una differenza di nome ma non di natura, hanno di fatto cancellato dal dramma dell'universo il primo atto, l'atto che contiene l'esposizione dialettica del Tutto. La teoria dell'identità fra i due termini veniva così a subire una svolta panteistica: la creazione dal nulla è soltanto una cifra dell'unità essenziale fra tutte le cose e Dio. L' «esperienza vissuta» non ha mai potuto spingersi fino al nulla, e dal fondamento di questa esperienza reale può anche derivare abbastanza di frequente, nei primi cabalisti, l'identificazione panteistica tra l'En-sof e il nulla. Il mistico che elabora le proprie esperienze in modo dialettico non può non giungere al panteismo.

 

6
I cabalisti si sono proposti di divulgare dottrine dal profondo contenuto mistico. Il conto da pagare per questa impresa temeraria non si è fatto attendere. Essi miravano a una trasfigurazione mistica del popolo ebraico e della vita ebraica. La risposta del popolo fu il folklore cabalistico, e questa risposta – come si deve constatare non senza un brivido d'orrore – è pure adeguata. Che una risposta vi sia stata è comunque notevole. Come la natura, nell'ottica dei cabalisti, non è che l'ombra del Nome divino, così si può parlare anche dell'ombra della Legge, un'ombra che si fa sempre più lunga sulla vita dell'ebreo. Ma nella Qabalah il muro di pietra della Legge diviene a poco a poco trasparente: vi penetra un bagliore di quella realtà che la Legge circoscrive e indica. Tale alchimia della Legge, il suo trasmutarsi in qualcosa di diafano, è uno dei paradossi più profondi della Qabalah. Che cosa infatti potrebbe esservi di più impenetrabile di questo bagliore, di questa aura del simbolico ora visibile? Ma quanto più la Legge si fa trasparente, e nello stesso tempo più indefinita, tanto più si dissolvono anche le ombre che essa getta sulla vita degli ebrei. Questo processo, perciò, non poteva non avere come logica conclusione la «riforma» ebraica: l'affermazione del carattere puramente e astrattamente umano della Legge, senza ombre e senza enigmi, ma anche non più irrazionale, quale residuo della sua dissoluzione mistica.


7
Come accade per molte forme incompiute di mistica, la dottrina dell'emanazione può forse essere considerata una vera sciagura per la Qabalah. Le idee dei cabalisti riguardavano le strutture dell'ente. Ora, non vi è nulla di più funesto che confondere il complesso di queste strutture con la dottrina dell'emanazione. Si tratta di una confusione che inquina gli assunti più fecondi della Qabalah, a favore della più comoda di tutte le teorie, quella che meno affatica il pensiero. Cordovero sarebbe riuscito meglio come fenomenologo che come scolaro di Plotino. Il tentativo di ricostruire (e alla fine di pensare) le teorie cabalistiche senza ricorrere alla dottrina dell'emanazione salderebbe quel debito di cui un vero scolaro di Cordovero, se mai ce ne fosse uno, dovrebbe farsi carico. Nella forma in cui la letteratura presenta le dottrine cabalistiche – come una topografia teosofica – il loro contenuto reale rimane inaccessibile. Il contrasto, che troviamo negli scritti cabalistici, fra la mistica dei Nomi e il simbolismo della luce, ha origine da questa tensione irrisolta fra i loro intenti più significativi e l'incapacità di portarli a un'espressione pura.
 

8
C'è nella Qabalah una sorta di sguardo trasfigurante, uno sguardo che non sappiamo se definire magico o piuttosto utopico. Esso svela tutti i mondi, e anche il mistero dell'En-sof, nel luogo stesso in cui io mi trovo. Non c'è bisogno di disquisire sull'«alto» e il «basso», basta solo (solo!) penetrare con lo sguardo il punto in cui uno si trova. Come ha detto uno dei grandi cabalisti, tutti i mondi, per questo sguardo trasfigurante, non sono altro che i «Nomi tracciati sulla carta della natura divina».
 

9
L'intero può essere tramandato solo in maniera occulta. Il Nome di Dio può essere richiamato, ma non pronunciato. Poiché solo ciò che vi è in essa di frammentario fa sì che la lingua possa essere parlata. Non si può parlare la «vera» lingua, così come non si può compiere un atto assolutamente concreto.


10
Cent'anni prima di Kafka, a Praga, Jonas Wehle scriveva – ricorrendo al genero Lòw von Hónigsberg – lettere e scritti che non furono mai pubblicati, ma che vennero poi raccolti con prudenza dai suoi discepoli frankisti. Wehle scriveva per gli ultimi adepti di una Qabalah voltasi in eresia, un messianismo nichilistico che cercava di parlare la lingua dell'Illuminismo. Egli è il primo a chiedersi (e la sua risposta è affermativa) se il paradiso non abbia subito, con la cacciata dell'uomo, una perdita più grave di quella subita dall'uomo stesso. Questo aspetto della questione è stato finora decisamente trascurato. Fu dunque una pura simpatia fra anime quella che portò Kafka, un secolo dopo, a formulare pensieri così profondamente affini? Forse, è il non sapere che cosa è stato del paradiso a suscitare quelle sue riflessioni sulla natura «in certo senso disperata» del bene. Riflessioni che, a dire il vero, sembrano uscite da una Qabalah eretica. Kafka ha infatti portato a espressione in modo insuperabile il confine tra religione e nichilismo. Ecco perché i suoi scritti, versione secolarizzata di un sentimento cosmico che è proprio della Qabalah (a lui comunque ignota), possiedono, per alcuni lettori odierni, il nitido splendore dei testi canonici: lo splendore della perfezione infranta.