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Giorgio Israel

 

La Qabalah può essere definita come l’insieme delle manifestazioni del misticismo religioso ebraico. Una simile definizione rimanda a quella di misticismo, che è stata oggetto di interminabili discussioni e controversie. Senza addentrarci in questa problematica complessa, ci limiteremo ad adottare una caratterizzazione semplice: diremo cioè che il misticismo è quel tipo di religiosità che pone al centro l’intuizione immediata del rapporto fra uomo e Dio e cerca la dimostrazione della presenza divina attraverso delle manifestazioni dirette che si esprimono nella coscienza. Una simile caratterizzazione può indurre a considerare il misticismo come la controparte di una visione razionale del fenomeno religioso. Ciò può essere vero, ma soltanto in parte e in determinate circostanze. Difatti, il mistico, nel ricercare un rapporto con Dio, segue molte vie: fra di esse vi sono certamente delle forme di elevazione estatica, ma anche l’esercizio della ragione e persino della logica pura può avere un ruolo importante nell’approccio del mistico. Va osservato che il misticismo risponde, in generale, a un’esigenza popolare dell’anima religiosa, ovvero alla necessità di ristabilire un rapporto diretto fra Dio e uomo che proprio la religione ha avuto storicamente il ruolo di recidere. Difatti, come ha acutamente osservato Gershom Scholem [1], «la suprema funzione della religione è di distruggere l’armonia immaginaria dell’Uomo, dell’Universo e di Dio» che esisteva nelle visioni pagane e mitologiche, di creare «un vasto abisso, concepito come assoluto, fra Dio, Essere infinito e trascendente, e l’Uomo, creatura finita». In certo senso, la fase del misticismo rappresenta un movimento in senso opposto, che tende a riempire il baratro apertosi fra Dio e uomo ricercando delle esperienze dirette di percezione della presenza divina. L’esperienza mistica rappresenta quindi un ritorno a forme mitiche combattute dalla religione, anche se cerca costantemente di conciliarle con il principio della rivelazione divina.


Non vi è dubbio che l’Ebraismo abbia espresso una delle concezioni più radicali della separazione fra Dio e uomo. Il suo ruolo, nella storia delle religioni, è correttamente identificato nello sforzo di affermare in modo intransigente il monoteismo e nella tendenza a combattere una lotta senza quartiere contro il mito. E, per l’appunto, uno degli aspetti fondamentali di tale lotta è stata la tendenza a separare rigidamente le sfere dell’uomo, della natura e di Dio. Gran parte del pensiero rabbinico medievale è ispirato da questi intenti, e le concezioni teologiche e filosofiche di Mosè Maimonide ne sono l’espressione più chiara ed elevata. Maimonide, aderendo all’aristotelismo e opponendosi a ogni forma di neoplatonismo, mira a estirpare le ultime radici mitologiche dal pensiero ebraico. Questo tentativo non riuscirà mai completamente e troverà anzi nell’emergere del pensiero cabalistico, verso la fine del dodicesimo secolo, una reazione energica e audace. Difatti, la tendenza a proteggere il monoteismo da ogni contaminazione mitica rendeva l’idea di Dio inaccessibile alla religiosità popolare. Essa proponeva l’immagine di un Dio di cui non si poteva dire quasi nulla e che, guadagnando in purezza, perdeva ogni vitalità. Quando il movimento cabalista iniziò a prendere forma in Provenza e in Spagna, la reazione contro il razionalismo rabbinico – concentrato soprattutto su un’analisi delle Sacre Scritture, mirante a ricavarne i precetti che debbono guidare la vita ebraica (Halakhah) – si espresse talora in modo violento, e accadde che i libri di Maimonide fossero bruciati sulle piazze. Ciò non deve tuttavia indurre a una visione troppo schematica di questa contrapposizione, perché il pensiero di Maimonide ebbe un influsso considerevole su non pochi cabalisti, e interazioni significative con il misticismo, come è stato messo in rilievo in diversi studi [2].
 

Tuttavia, la nascita del pensiero cabalistico rappresenta soltanto l’esplosione di un’antica tensione che percorreva già la storia del pensiero ebraico fin dalle sue origini. La presenza di correnti mistiche ebraiche è evidente e documentata fin dai primi secoli dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Essa si manifestò in particolare in due correnti che miravano ad esplorare il senso profondo delle manifestazioni di Dio e che sono dette della Ma’aseh Bereshit («Fatti dell’Inizio») e della Ma’aseh Merkavà («Fatti del Carro»).
 

La corrente della Ma’aseh Bereshit si concentrava, per l’appunto, sui «fatti dell'’Inizio», ovvero sul processo della Creazione quale è descritto fin dalle prime righe della Torah. Per quanto rivolta a un’interpretazione esoterica di tale testo, questa corrente concepisce la Creazione come una manifestazione storica dell’esistenza di un Dio rigidamente distinto dal cosmo e dall’uomo e di cui possono enunciarsi soltanto gli attributi e di cui nessuna rappresentazione in termini di «potenze» è ammissibile. Pertanto, questa corrente concepisce la Torah come distinta da qualsiasi manifestazione storica o cosmica, e tenta così di porre argine contro il ritorno di visioni mitologiche.
 

Invece, la corrente della Ma'aseh Merkavà assumeva come riferimento il mistero dell’apparizione del Carro Divino al profeta Ezechiele. Attraverso l’analisi dettagliata delle manifestazioni concrete descritte in questa visione, essa ricercava una rappresentazione della vita divina attingibile dall’esperienza umana. Una manifestazione estrema di queste correnti mistiche è data persino dalla descrizione delle forme «corporee» della divinità, di cui si cercano di determinare addirittura le misure fisiche. In generale, l’obbiettivo di queste correnti mistiche è quello di attingere al senso della vita divina attraverso l’esplorazione del significato mistico delle sue manifestazioni materiali. In tal modo, non si voleva affatto negare l’idea dell’unità ed unicità di Dio, ma si mirava a concepirla in forma dinamica, soffermandosi sulle forme e le manifestazioni dell’attività divina più che sull’individuazione dei suoi «attributi». La vita divina veniva vista come un flusso dinamico che investe l’uomo e il cosmo. Per comprenderne il senso occorreva ricercarlo nel significato profondo dei simboli con cui essa si manifesta nelle Sacre Scritture, la Torah. Pertanto, la Torah non è vista soltanto come Legge o come Racconto, come un insieme di testi che si riducono al loro significato letterale. La Torah è la manifestazione della vita divina, essa è un corpo mistico, vivente in cui è racchiuso al contempo il senso profondo della vita divina, del cosmo e anche del destino storico del popolo ebraico.
 

Questi aspetti, presenti ancora in forma embrionale nelle correnti antiche del misticismo ebraico, prendono forma in modo radicale ed organico nelle speculazioni della Qabalah medioevale. Nasce di qui una corrente di pensiero e di esperienze religiose di varia natura – razionale ed estatica – che si diramano fino ai tempi nostri, e le cui manifestazioni più importanti sono l’Hasidismo dell’Europa orientale, la Qabalah della scuola di Safed e numerose altre correnti che si svilupparono anche in Italia.
Non è certamente possibile qui dare conto di sviluppi tanto vasti quanto ramificati e di enorme complessità. Esiste ormai su questi temi una vasta letteratura (1). Poiché ci limiteremo a dire qualcosa circa i rapporti fra Qabalah e numerologia, trascureremo completamente le concezioni cabalistiche relative al modo in cui si realizza il rapporto fra Dio, Cosmo e Uomo. Ricorderemo soltanto che esso è descritto mediante una visione organicistica ed unitaria che descrive la vita divina come un organismo articolato in una sorta di flusso: esso è rap presentato dal celebre albero delle Sephiroth, in cui si esprime il processo dell’emanazione a partire da Dio, che è visto come il «nulla assoluto», En Sof.
 

Qabalah vuol dire «tradizione» e anche «ricezione». Ciò configura un duplice significato: la Qabalah è ricezione del flusso divino, della saggezza che discende dall’alto, e il cabalista è colui che utilizza tutti i mezzi – dall’elevazione estatica all’analisi esegetica dei testi – per stabilire questo flusso interattivo con la divinità; ed è, al contempo, trasmissione dei significati più profondi ed autentici della tradizione, per cui il cabalista è il custode più fedele dei principi della religiosità ebraica. In effetti, il cabalista non è, in linea di principio, un eterodosso. Al contrario, egli assume in pieno la difesa della tradizione e dei testi sacri che la esprimono. Tuttavia, le conseguenze del suo approccio assumono talvolta un carattere eterodosso e persino eversivo. Difatti, nell’esegesi del testo biblico, il cabalista tenta di dissolvere la superficie del significato «evidente» del racconto, per scoprire una molteplicità di significati nascosti e profondi. Con estrema audacia, nello Zohar (il «libro dello Splendore», il massimo testo cabalistico medioevale) si afferma:

«Guai a colui che considera la Torah come un libro di semplici racconti e faccende quotidiane. Poiché se essa fosse questo, ancora oggi potremmo comporre un’altra Torah che trattasse di queste cose e fosse migliore ancora».


Pertanto, il senso letterale della Torah è oscurità, mentre il senso mistico è Zohar, splendore. Nella svalutazione dell'interpretazione testuale, il cabalista Mosè Cordovero di Safed si spinge fino al punto di dire che la Torah materiale contiene divieti «angosciosi» e «miserabili» che sarebbero incomprensibili senza la caduta dovuta al peccato
Secondo Gershom Scholem – il massimo studioso della Qabalah nel Novecento –, i principi che svolgono una funzione fondamentale nelle idee cabalistiche circa la natura della Torah sono tre: il principio del nome di Dio; il principio della Torah come organismo; il principio della infinita ricchezza di significato della parola divina.


Il primo principio può essere espresso dicendo che la Torah non è soltanto racconto ma nasconde una serie di nomi di Dio. Secondo il cabalista spagnolo del Duecento, Moshé ben Nachman, «noi possediamo una tradizione autentica secondo cui la Torah intera consiste di nomi di Dio, e questo in modo che le parole che leggiamo possono anche essere suddivise in una maniera completamente diversa, e precisamente in nomi […]». Secondo il cabalista spagnolo della fine del XIII secolo, Joseph Gikatilla, «l’intera Torah è come una spiegazione o un commento del tetragramma JHWH» ed è come un «tessuto» vivo formato dai fili del tetragramma. Secondo il punto di vista di Menachem Recanati (vissuto attorno al 1300), prima che fosse creato il mondo esistevano soltanto Dio e il suo nome e anzi Dio stesso è la Torah «poiché la Torah non è qualcosa al di fuori di Lui, ed Egli non è qualcosa al di fuori della Torah». E Recanati spiega questa identificazione radicale fra Dio e parola, asserendo che le lettere sono il corpo mistico di Dio e perciò Dio sta alla Torah come l’anima sta al corpo. Per Abraham Abulafia (maestro di Gikatilla), la Torah fu scritta mediante permutazioni di consonanti secondo principi nascosti che occorre riscoprire. In conclusione, la Torah è da un lato comunicazione all’uomo e dall’altro è manifestazione cosmica della vita divina. Si può quindi capire che le tecniche di manipolazione, di combinazione e di lettura dei nomi divini dovevano essere un metodo per entrare nel flusso reale della vita divina. Ad esempio, lo schema linguistico rappresentato nella Fig. 3 dava conto del modo con cui il processo creativo risultava da permutazioni delle lettere del Tetragramma, ovvero del nome di Dio.
Si noti che gli schemi linguistici suggerivano spesso delle vere e proprie tecniche con cui il cabalista – ripetendo lettere e combinazioni di lettere – entrava in uno stato di elevazione estatica che gli permetteva di avvicinarsi alla contemplazione dei segreti della vita divina. Osservando la forma delle lettere e permutandole, il mistico poteva immergersi nella struttura segreta del mondo. Un mezzo che veniva frequentemente usato era la ruota delle lettere, ovvero un disegno circolare (o ruota materiale) su cui erano tracciate le 22 lettere dell’alfabeto ebraico. Muovendo la ruota in avanti o all’indietro era possibile imitare l’infinita espansione dinamica linguistica che ha dato origine al cosmo.
 

La Torah è quindi un insieme di nomi ma è anche un organismo vivente, è espressione della vita divina che si manifesta come un organismo. Le membra di questo organismo sono talora viste come le membra della presenza divina o Šekinah. Legge cosmica e legge terrena non sono separate ma sono soltanto due facce della Torah. Questa visione è strettamente legata alla dottrina delle Sephiroth o «canali» dell’influsso di Dio del cosmo, cui abbiamo accennato sopra.


Veniamo ora al terzo aspetto, quello della infinita ricchezza di significato della parola divina, un aspetto per cui la Qabalah ha esercitato un’importante influsso sul pensiero rinascimentale, in particolare attraverso Pico della Mirandola (2).
Scrive Mosé de Leon nel suo Midrash ha-Ne’elam:
«Le parole della Torah sono paragonate a una noce. Che cosa significa questo? Esattamente come la noce ha un guscio esterno e un nucleo interno, così anche ogni parola della Torah contiene ma’aseh, midrash, haggadah e sod,e in ogni momento rappresenta un senso più profondo di quello precedente».
 

Ma’aseh (che significa insieme racconto atto, evento) è il significato letterale; Midrash è il risultato del metodo ermeneutico con cui i talmudisti trovavano le loro disposizioni nel testo biblico; Haggadah è il prodotto della forma allegorica o metaforica dell’interpretazione; Sod è il mistero, ovvero il senso nascosto più profondo. Mosé de Léon così interpreta l’antica storia talmudica dei quattro rabbini, Akibà, Ben Zoma, Ben Azzai e Aher: essi entrarono al paradiso e «l’uno vide e morì, il secondo vide e perse il senno, il terzo isterilì le giovani piantagioni. Solo rabbi Akiba entrò sano e uscì sano.» Per Mosé de Léon le quattro consonanti PRDS della parola paradiso, PARDÈS, sono il simbolo dei quattro strati di senso della parola. L'equivalenza è la seguente: P = Peshat = senso letterale = Rabbi Asher che vide e morì; R = Remetz = senso allegorico = Rabbi Ben Zoma che vide e perse il senno; D = Derasha = interpretazione talmudica = Rabbi Ben Azzai che isterilì le giovani piantagioni (cioè traviò i giovani); S = Sod = mistero o significato mistico = Rabbi Akibà che entrò sano e uscì sano spingendosi fino al nucleo.
 

Questa visione affascinò Pico della Mirandola il quale osservò:
«Proprio come noi, anche gli ebrei conoscevano quattro metodi per spiegare la Bibbia, quello letterale, quello mistico o allegorico, il metodo tropico e quello anagogico. Chiamano il senso letterale peshat, quello allegorico midrash, il senso tropico sekhel, e il senso anagogico – che è quello più sublime e divino – Qabalah».
 

Una delle tecniche privilegiate per penetrare i significati reconditi e profondi delle Sacre Scritture era quella numerologica. Essa ha come fondamento il fatto che, nell’alfabeto ebraico, ogni lettera ha un valore numerico determinato e qualsiasi numero viene rappresentato mediante una combinazione di lettere. Viceversa, ad ogni parola può essere associato un valore numerico. Il modo più semplice di farlo è di associare alla parola la somma dei valori numerici delle lettere di cui è formata, anche se, come vedremo, ne esistono altri. La visione numerologica ha radici antiche, di cui troviamo traccia nel primo e più celebre testo della mistica ebraica, il Sepher Yeẓirah («Libro della Formazione») redatto nel VI secolo. Vi troviamo una rappresentazione (Fig. 6) che sintetizza in modo sorprendente la visione delle lettere come elementi costitutivi dell’universo con il pitagorismo. Come ha osservato Giulio Busi,«già nel Sefer Yetsirah le consonanti dell’alfabeto ebraico erano considerate i semi di tutte le cose e rappresentavano le forze primigenie della realtà. I cabalisti potevano pertanto appoggiarsi su una lunga tradizione interpretativa, basata sulla convinzione che la lingua ebraica contenesse in sé la chiave del creato. Essi ritenevano che il passaggio dalle frasi bibliche ai più minuti dettagli del mondo materiale fosse avvenuto grazie a una serie di permutazioni, che avevano trasformato le parole pronunziate da Dio nei nomi concreti di tutte le cose […]. Le parole ebraiche, e ancor più le lettere che le formano, sono l’anima segreta, la forza nascosta che sostiene le apparenze: studiare le combinazioni tra le lettere significa allora comprendere la vera essenza del creato» [16].
La determinazione dell’equivalenza di concetti mediante il calcolo del valore numerico delle parole con cui essi si esprimono si basa sulle tecniche della cosiddetta ghimatriah. Esistono numerose modalità della ghimatriah. La forma di base è data dalla «ghimatriah semplice» cui abbiamo già accennato e che consiste nel sommare i valori numerici delle lettere di cui è composta.

 
Nella tradizione qabbalistica sono state usate molte altre forme di ghimatriah. Ne citiamo alcune. La «piccola» ghimatriah consiste nel procedere come in quella semplice, con la clausola che di ogni numero si considera una sola cifra, la prima: ad esempio 10 è ridotto a 1, 200 a 2, ecc. La ghimatriah «semplice dispiegata» consiste nel considerare la scrittura esplicita di ogni lettera – come se, nel nostro alfabeto, sostituissimo «f » con «effe» – e nel calcolare il valore della lettera «dispiegata», per poi eseguire la somma di tutti i numeri ottenuti. La ghimatriah «dinamica cumulativa» tiene conto del processo di formazione di una parola: così yeled è dato dalla sequenza «y», «yl», «yld» – si noti che, in ebraico, si scrivono soltanto le consonanti – e si somma il valore di ogni termine della sequenza. La ghimatriah «differenziale» considera invece il valore della differenza tra i valori di due lettere. Esistono poi diverse tecniche di ghimatriah combinatoria: si stabilisce una regola di permutazione fra le lettere e si riscrive il testo secondo questa regola, studiando poi quel che si è ricavato (3).
Una delle più celebri ghimatriah semplici, che ha avuto una notevole influenza filosofica, è dovuta al cabalista spagnolo Abraham Abulafià. La sua storia è stata accuratamente ricostruita dal massimo esperto vivente della Qabalah, Moshe Idel.
La ghimatriah consiste nel constatare l’identità numerica della parola Elohím (Dio) e della parola ha-Teva (Natura). Entrambe hanno il valore numerico 86. Nel rilevare questa identità numerica, Abulafià osservò che anche la parola ha-Kissé (Trono) ha il valore numerico 86. E lo stesso valore ha anche la parola Ma’aseh che significa racconto, opera, atto, evento, ma anche «tavole». Le «tavole» dice Abulafià, «sono dette ma’aseh perché sono naturali, e simili alle altre azioni divine». Per comprendere il senso di quest’ultima affermazione e perché questa molteplice identità sia fondamentale per Abulafià, occorre tener conto del fatto che egli aderisce al principio caratteristico del pensiero di Maimonide secondo cui la natura rappresenta sia il livello materiale (corporeo) che il livello spirituale della realtà. Le «tavole» sono l’espressione più chiara di tale duplice senso del concetto di natura, in quanto sono al contempo un oggetto di pietra (un «corpo»), e l’espressione della «legge», ovvero degli aspetti spirituali e dei principi etici che governano l’uomo e che hanno origine divina. Scrisse, al riguardo, Abulafià:
«Le tavole [della legge] sono un omonimo delle cose naturali interiori, perché tavole è equivalente a Kissé (trono) che è Teva (Natura) ed esse sono [omonimo delle cose esterne che sono le tavole di pietra».

E di qui il senso che ha il nome di Dio Elohim, che rappresenta l’oggetto dell’atto della creazione più che il suo agente:
«Il nome Elohim comporta molti significati: è un appellativo della totalità delle forze naturali; fa parte dei nomi della Causa prima; e si riferisce anche a uno dei Suoi attributi, per i quali, sia gloria a Lui, è separato dalle altre entità».


Osserva, al riguardo, Idel circa il senso dell’equazione Elohim = ha-Teva:
essa designa la natura interiore, spirituale, e l’apprensione esterna, ipostatica della natura e dell’ordine della natura, ovvero un dominio spirituale creato all’inizio e che regola i processi naturali, che sono, di conseguenza, considerati anche come divini.
Non seguiremo l’analisi con cui Idel mostra il diramarsi della ghimatriah Elohim = ha-Teva nella letteratura cabalistica, e i suoi influssi sulla speculazione filosofica fino alla enunciazione del principio Deus sive Natura da parte di Baruch Spinoza. In tale contesto ebbe un ruolo particolare un trattato del cabalista spagnolo Josef Gikatila, che, ristampato a Hanau nel 1615, era considerato un classico della Qabalah ampiamente circolante negli ambienti filosofici dell'epoca, e quindi certamente conosciuto da Spinoza.
 

Questo esempio mostra che l’uso delle tecniche di identificazione numerica (che è l’aspetto che ha dato luogo all’immagine tradizionale e comune della Qabalah) non è un procedimento di manipolazione con cui si ottengono delle identificazioni concettuali come conseguenza di un gioco di identità numeriche. È vero il contrario. L’uso delle identità numeriche è una sorta di procedimento dimostrativo della verità di concetti ottenuti attraverso l’esegesi mistica e quindi della verità delle leggi fondamentali che regolano la vita di Dio e del cosmo.

Pur nell’evidente ingenuità di queste procedure, ci troviamo di fronte a una prima forma di uso di una sorta di calcolo simbolico-aritmetico allo scopo di determinare le leggi dell’Universo. Certo, queste leggi non sono cercate nello studio della Natura, ma nello studio della Torah:ma la Torah è la Natura.
 

Non soltanto la dottrina del quadruplice strato del senso ma, come ha osservato Idel, anche l’idea che «il libro divino è la chiave che permette di comprendere il libro della natura […] finisce per introdursi nel pensiero del Rinascimento per l’intermediario di Pico della Mirandola». E vi si introduce assieme a una visione neo-pitagorica secondo cui le leggi del libro della Natura sono dato mediante regole numeriche. È evidente l'assonanza con l’idea di Galileo secondo cui il libro della Natura è stato scritto da Dio in linguaggio matematico ed è compito dell'uomo scoprire questo linguaggio, le sue leggi. Certo, in Galileo quest’idea è ormai congiunta a una visione oggettivistica che esclude la ricerca di queste leggi nell’esegesi delle Sacre Scritture, perché esse non si identificano più con Dio: vale l’identità Dio = Natura, ma non più l’identità Dio = Sacre Scritture. E, per quanto la transizione sia graduale e complessa – e sarebbe una forzatura grossolana attribuire a Galileo una visione apertamente sperimentalista –, è innegabile che stiamo assistendo alla nascita dell’oggettivismo, all’emergere di una nuova divisione – quella fra uomo e Natura – che finirà progressivamente con l’abolire o mettere in secondo piano l’identità Dio = Natura che pure ha un ruolo concettuale fondamentale nella nascita del pensiero scientifico moderno. Questo punto di partenza continua tuttavia a giocare un ruolo fortissimo nell’idea che il mondo è scritto nel linguaggio dei numeri, in simboli, infine in formule matematiche.
Concludiamo questa rassegna di idee molto generiche con un riferimento a un artista che, verso la fine della sua vita, subì il fascino e l’influsso del cabalismo e delle tecniche numerologiche. È un riferimento particolarmente appropriato a Venezia: difatti, alludiamo al celebre musicista veneziano Luigi Nono, che ho avuto la fortuna di conoscere parecchi anni fa.
In un recente articolo, Laurent Feynerou [18] ha ricordato come Nono, agli inizi degli anni ottanta, si interessò molto al pensiero cabalistico.

Dal 1982 al 1985, egli acquistò in Spagna molte opere sull’ebraismo e in particolare testi di Qabalah e sulla Qabalah. In un articolo del 1988, così scriveva:
«In Spagna ho trovato un testo anonimo, del XIV secolo: il Sefer Yetsirah;conteneva la descrizione delle 10 sefirot divine. Leggere quel libro, considerarlo una componente del pensiero di Schönberg, mi ha aiutato a conoscere Schönberg. E, attraverso Schönberg, a pensare ad idee musicali che non siano solo tecniche, ma formazioni di apporti multiculturali» [19]
E così proseguiva:
«Le ventidue lettere sono scolpite nella voce, incise nell'aria, collocate durante la pronuncia in cinque luoghi: nella gola, nel palato, nella lingua, nei denti e nelle labbra, così insegna il Sefer Yetsirah».


Luigi Nono intendeva leggere l’opera vocale di Schönberg alla luce della cosmogonia come pure dei fonemi ebraici, e in particolare l’incidenza delle consonanti (sia gutturali che palatali, che linguali, che dentali, che labiali) sull’inspirazione e l’espirazione nel trattamento corale e nello Sprachgesang schönberghiano nonché sui microintervalli e sui microtoni. Così egli arrivava alla conclusione che il fondamento del pensiero schönberghiano «riposava sulla Cultura, sul grande conflitto, […] legato direttamente al pensiero cabbalistico ed alchemico del Rinascimento, superando l’opposizione fra scuola pitagorica e platonica» [20].
Chiudiamo con questa testimonianza – significativa, in quanto così recente – che rende conto del fascino e della vitalità di una forma di speculazione per tanto tempo avvolta in una nube di mistero ed anche di mistificazioni e di equivoci.

 

1. Neppure ci sarà possibile dare conto in modo esaustivo di questa letteratura secondaria. Ci limiteremo a indicare alcuni testi introduttivi fondamentali e soprattutto relativi all’opera di Gershom Scholem e Moshe Idel. Di Scholem, oltre al classico [1], si vedano [3], [4], [5], [6]. Di Idel, oltre a [2], si vedano [7], [8], [9] e l’introduzione a [10]. Si veda inoltre la splendida antologia [11]. Un’introduzione alla Qabalah semplice ma estremamente efficace è data da [12]. Dei rapporti fra Qabalah e pensiero scientifico ci siamo occupati in [13] e [14].

2. Si veda, in merito, l’opera fondamentale [15]

3. Per maggiori dettagli si veda [17].



[1.] G. Scholem (1946) Major Trends in Jewish Mysticism,Schocken Books,New York
[2.] M. Idel (1991) Maïmonide et la mystique juive,Editions du Cerf,Paris
[3] G. Scholem (1974) Qabalah, Jerusalem, Keter; trad. it. La Cabala, Roma, Ed. Mediterranee, 1992
[4] G. Scholem (1987) Origins of the Qabalah, Princeton, Princeton University Press
[5] G. Scholem (1973) Sabbatai Sevi, The mystical Messiah, Princeton, Princeton University Press
[6] G. Scholem (1980) La Qabalah e il suo simbolismo,Torino,Einaudi
[7] M. Idel (1988) Qabalah. New Perspectives, New Haven, Yale University Press
[8] M. Idel (1987) L’expérience mystique d’Abraham Aboulafia,Editions du Cerf,Paris
[9] M. Idel (1990) Golem. Jewish Magical and Mystical Traditions of the Artificial Anthropoid,Albany, State University of New York Press
[10] Natan ben Sa’adyah Har’ar (2001) Le porte della giustizia (a cura di M. Idel), Milano, Adelphi
[11] G. Busi, E. Loewenthal (a cura di) (1995) Mistica ebraica,Torino,Einaudi
[12] A. Steinsaltz (1989) La rose aux treize petales, Introduction à la Cabbale et au judaïsme,Albin Michel Paris
[13] G. Israel (1993) L’ebraismo e il pensiero scientifico: il caso della Qabalah, in: Le Religioni di Abramo e la scienza, Prometheus, 15, pp. 7-39. trad. francese: Le judaïsme et la pensée scientifique: le cas de la Kabbale, in: Les religions d'Abraham et la science, Paris, Maisonneuve & Larose, 1996, pp. 9-44
[14] G. Israel (1995) Le zéro et le néant: la Qabalah à l’aube de la science moderne, Alliage, n. 24-25, 1995, pp. 88-98 trad. italiana: E infine arrivò lo zero, Sapere, anno 62, n. 3 (984), 1996, pp. 21-28
[15] C. Wirszubski (1989) Pico della Mirandola’s Encounter with Jewish Mysticism,Cambridge, Harvard University Press
[16.] G. Busi (2001) Mantova e la Qabalah,Milano,Skira
[17] M.-A. Ouaknin (2000) Mystères de la Kabbale,Paris, Assouline
[18.] L. Feneyrou (2002) Mosé e il ghetto di Varsavia. Arnold Schönberg secondo Luigi Nono, Avidi Lumi,V, n. 15
[19.] L. Nono (1988) Altre possibilità di ascolto, in: L’Europa musicale, Firenze, Vallecchi
[20.] L. Nono (1993) Ecrits,Paris,Bourgois