La Teogonia (in greco Θεογονία) è un poema mitologico di Esiodo, in cui si raccontano la storia e la genealogia degli dei greci. Si ritiene che sia stato scritto intorno all'anno 700 a.C., ed è una fonte fondamentale per la mitografia.

L'opera è composta da 1022 esametri e ripercorre gli avvenimenti mitologici dal Caos primordiale fino al momento in cui Zeus diviene re degli dei. L'ordine introdotto dal poeta non è ben riconoscibile, tanto da far discutere i critici su trasposizione e interpolazioni. Il disegno generale è comunque quello del pensiero esiodeo, quale risulta anche ne «
Le Opere e i Giorni».

Sicuramente antecedente alle Opere, quest'opera non va probabilmente considerata teologica ma mitologica in senso stretto. La sua funzione non è quella di spiegare razionalmente (o giustificare) la natura del mondo divino, ma solo di descrivere tale mondo e la sua struttura. Esiodo propone quindi una dettagliata genealogia divina, simile a quella degli eroi, che però nell'epica si limita a scarne indicazioni, soprattutto formulari, che servono a integrare la visione complessiva dell'eroe con la sua discendenza. Per Esiodo, la genealogia divina non è un'integrazione, è il soggetto stesso dell'opera, un elemento cioè costitutivo.

 

 

Scritto teologico? Scritto mitologico? e se Esiodo volesse raccontare, invece, tutta una altra storia come sostiene Zacharia Sitchin nel suo bestseller edito da Piemme «Guerre atomiche al tempo degli dei»?

 

Scrive il Sitchin:

«A differenza di Erodoto, il quale visitò l’Egitto nel V° secolo, convinto che era proprio dagli Egizi che i Greci avevano tratto le loro nozioni e credenze sugli dèi; Esiodo preferì attribuire la composizione della sua Teogonia alle Muse, dee della musica, della letteratura e dell'arte, le quali lo avrebbero esortato a «celebrare in versi», dall'inizio, le storie «della venerata stirpe degli dèi ... e a cantare poi quelle della stirpe degli uomini e dei forti giganti, allietando così il cuore di Zeus nell'Olimpo». Tutto ciò accadeva mentre egli, un giorno, stava «pascendo il suo gregge» nei pressi del Monte Santo.
Nonostante questa introduzione «pastorale», i racconti sugli dèi che Esiodo ci presenta sono decisamente all'insegna di passioni, ribellioni, astuzie e violenze fisiche, su scala sia individuale sia collettiva. Malgrado tutta l'opera sia una sorta di glorificazione di Zeus, non si nota alcun tentativo di coprire la catena di violenza sanguinaria che avrebbe condotto alla sua supremazia. Esiodo, dunque, scrisse tutto ciò che le Muse cantarono; e «queste cose cantarono le Muse, le nove figlie generate da Zeus»:


In verità, in principio ci fu Caos,
e poi venne Gea col suo ampio petto ...
quindi Tartaro, nelle profonde viscere della Terra,
ed Eros, il più bello degli dèi immortali ...
da Caos vennero generati Erebo e la nera Nyx;
e da Nyx nacquero Etere ed Emera.


Il primo gruppo di del celesti si completò quando Gea («Terra») generò Urano («Cielo Stellato») e quindi sposò il suo primogenito affinché anch'egli potesse entrare a far parte della prima dinastia divina. Oltre Urano, e poco dopo la sua nascita, Gea diede alla luce anche la sua graziosa sorella Urea e «Ponto, sterile Profondità con la sua marea montante». Cominciò quindi la seconda generazione di dèi, quella originata dall'unione di Gea con Urano:
Poi essa si unì con Urano e concepì il turbinoso Oceano;

 

Coeo e Crio e Iperione e Giapeto;

Teia e Rea, Temi e Mnemosine;
E Febe dalla corona d'oro, e la bella Teti.
Dopo di loro nacque Crono, l'astuto,
il più giovane e il più terribile dei suoi figli.

 

Sebbene queste dodici creature fossero frutto dell'unione di un figlio con la sua stessa madre, i figli - sei maschi e sei femmine - potevano a buon diritto vantare la loro origine divina.
Ma poiché Urano andava facendosi sempre più lussurioso, i figli che egli generò in seguito, per quanto imponente fosse il loro aspetto, erano decisamente deformi. Tra questi «mostri» i primi furono i Ciclopi, Broute («Il Tonante»), Sterope («Il Creatore del Fulmine») e Arge («L'Artefice della Radiazione»). «Essi, in tutto identici agli dèi salvo per la particolarità di avere un solo occhio in mezzo alla fronte, si chiamarono Ciclopi "dall'occhio sferico" proprio per questa loro caratteristica».
 

«E di nuovo nacquero da Urano e Gea altri tre figli, oltremodo grandi e valorosi: Cotto, Briareo e Gia, giovani audaci».

Di enormi dimensioni, i tre erano chiamati Hekatoncheires («I Cento braccia»): «Dalle loro spalle si dipartivano cento braccia, affinché nessuno potesse avvicinarli, e ciascuno di loro aveva sulle spalle cinquanta teste».
«E Crono odiava il suo possente genitore», scrive Esiodo, mentre «Urano si compiaceva di fare del male».
Fu allora che Gea «costruì una grande accetta e propose ai suoi amati figli un piano» per punire «il padre malvagio per i suoi odiosi misfatti»: tagliare i genitali di Urano e porre fine così alle sue intemperanze sessuali. Ma «la paura colse tutti loro», e solo «il grande Crono, l'astuto, si dimostrò coraggioso».
Fu così che Gea diede a Crono l'accetta da lei stessa fabbricata, e lo nascose nella sua dimora, che si trovava nei pressi del Mar Mediterraneo.
 


E venne Urano durante la notte, ansioso d'amore;

e si distese accanto a Gea, coprendola con il suo corpo.

Allora il figlio uscì dal suo nascondiglio

e si lanciò in avanti con la sinistra per afferrare il padre;

e con la mano destra teneva

la lunga accetta dai denti affilati.

con grande abilità tagliò i genitali del padre

e li gettò via, ed essi caddero dietro di lui ...

dentro i flutti del mare.
 

La vendetta era compiuta, ma la castrazione di Urano non mise fine del tutto alla sua linea di discendenza. Mentre infatti il suo sangue sgorgava fuori dalla ferita, alcune gocce caddero su Gea e la fecondarono, ed essa concepì e partorì «le forti Erinni» (le Furie della vendetta), «i grandi Giganti dall'armatura scintillante e dalle lunghe lance, e le Ninfe che chiamano Meliadi [«le Ninfe del frassino»].

Dai genitali tagliati, che si lasciavano dietro una scia di schiuma mentre le onde del mare li trasportavano verso l'isola di Cipro, «nacque una dea terribile e bellissima ... dèi e uomini la chiamarono Afrodite [«Colei nata dalla schiuma»]».
Urano non sapeva darsi pace dell'accaduto e chiamò a raccolta tutti gli dèi-mostri per organizzare la vendetta. I suoi stessi figli, gridava, erano divenuti Titani, e benché da lui stesso originati, «compivano presuntuosamente azioni spaventose» contro di lui; ora gli altri dèi dovevano assicurarsi che di tutto questo fosse fatta vendetta. Crono, spaventato, imprigionò allora i Ciclopi e
gli altri mostruosi giganti in un luogo lontano, affinché nessuno rispondesse alla chiamata di Urano.
Nel frattempo, mentre Urano era impegnato a generare la propria progenie, anche gli altri dèi davano alla luce i loro figli, i cui nomi indicavano attributi benevoli. Ora, dopo l'azione malvagia (di Crono), la dea Nyx rispose alla sua chiamata mettendo al mondo le divinità del male: «Essa partorì le Parche, le Moire impietose e vendicatrici: Cloto [«La Filatrice»] e Lachesi [«Colei che dà in sorte»] e Atropo [«L'Inevitabile»] ... Poi partorì Strazio, Destino Avverso e Morte ... Ingiuria e Grido di Dolore ... Carestia e Lutto». Quindi mise al mondo anche «Inganno Conflitto ... e Lotta, Battaglie, Assassini, Liti, Menzogne, Dispute, Illegalità e Rovina». Infine nacque da Nyx anche Némesis («Castigo»). Il richiamo di Urano aveva dunque ricevuto ampia risposta: conflitti, guerre, battaglie avevano fatto il loro ingresso tra gli dèi.


E in questa cornice quanto mai pericolosa che i Titani misero al mondo la terza generazione di dèi. Per paura di un castigo, essi stavano sempre vicini l'uno all'altro, tanto che cinque dei sei fratelli avevano sposato cinque delle loro stesse sorelle. Tra queste divine coppie di fratello e sorella, la più importante era quella di Rea e Crono, poiché era quest'ultimo, l'autore dell'audace gesto contro Urano, ad aver assunto la leadership tra gli dèi. Da questa unione nacquero tre figli maschi e tre femmine: Estia, Demetra ed Era; Ade, Poseidone e Zeus.
Non appena i suoi figli venivano al mondo, «il grande Crono li inghiottiva ... perché nessun altro tra i fieri Figli del Cielo potesse acquisire l'ufficio regale sugli dèi immortali». L'eliminazione fisica della sua stessa progenie era motivata da una profezia di cui Crono aveva sentito parlare, secondo la quale «per quanto forte egli fosse, uno dei suoi figli lo avrebbe comunque detronizzato»: il Fato, cioè, avrebbe fatto in modo che accadesse a Crono quanto egli stesso aveva fatto a suo padre.
E al Fato non era possibile sfuggire. Venuta a sapere dei sotterfugi di Crono, Rea nascose il suo ultimo genito Zeus sull'isola di Creta e, al posto del bambino, diede a Crono «una grossa pietra avvolta in fasce». Senza accorgersi dell'inganno, Crono inghiottì la pietra, pensando che si trattasse del piccolo Zeus. Subito cominciò a vomitare, espellendo dalla bocca a uno a uno tutti i suoi figli che in precedenza aveva ingoiato.
«Con il passare del tempo, le membra gloriose del principe [Zeus] si svilupparono sempre di più». Degno nipote del lussurioso Urano, egli per un po' si dedicò a conquistare le femminee grazie delle dee, mettendosi spesso nei guai con i loro legittimi compagni. A un certo punto, però, Zeus cominciò a pensare agli affari di stato.
Da dieci anni infuriava una guerra tra i più vecchi Titani, «gli augusti Titani dell'alto Monte Othyres», la loro dimora, e i più giovani dèi, «che Rea dalla folta capigliatura aveva generato unendosi con Crono» e che abitavano di fronte, sul Monte Olimpo. «A quel tempo, da ormai dieci anni essi si combattevano senza sosta e con furia selvaggia, senza che il conflitto vedesse una conclusione, in quanto nessuna delle due parti riusciva ad avere la meglio sull'altra».
Ora, questa disputa era solo la naturale conseguenza del progressivo deterioramento dei rapporti tra colonie divine confinanti, o magari era l'effetto di una crescente rivalità tra coppie miste e infedeli di dèi e dee (dove vi erano madri che giacevano con i propri figlie zii che fecondavano le nipoti), o invece ancora, la prima manifestazione dell'eterna ribellione del giovane contro il vecchio regime?
La Teogonia non dà una risposta chiara, ma tanto le leggende quanto le opere teatrali greche del periodo successivo inducono a ritenere che tutte queste motivazioni fossero intrecciate e che, tutte insieme, avessero dato vita a una guerra lunga e ostinata tra vecchi e giovani dèi.
E fu proprio questa guerra a far intravedere a Zeus l'occasione per assumere un ruolo di comando fra gli dèi e detronizzare suo padre Crono, adempiendo così - più o meno consapevolmente - al volere del fato cui era predestinato.
Come primo passo, Zeus «liberò dalle loro mortali catene i fratelli di suo padre, figli di Urano, che suo padre, nella sua follia, aveva imprigionato»,
In segno di gratitudine, i tre Ciclopi gli diedero le armi divine che Gea aveva nascosto a Urano: «il tuono, il lampo e il fulmine che emana luce». Ad Ade diedero poi un elmo magico, che rendeva invisibile chi lo indossava, mentre Poseidone ricevette in dono un tridente magico, capace di squassare la terra e il cielo.
Per rinfrancare gli Hekatoncheires dopo la lunga prigionia e restituire loro l'antico vigore, Zeus diede loro «nettare e ambrosia, gli stessi di cui si cibavano gli dèi»; quindi si rivolse loro dicendo:


Ascoltatemi,
o fulgidi figli di Urano e Gea,
che io possa dire ciò che ho nel cuore.
Da lungo tempo ormai, noi,
figli di Crono, e gli dèi Titani
combattiamo l'uno contro l'altro ogni giorno,
per ottenere la vittoria e soggiogare l'avversario.
Che ne direste, ora, di mostrare tutta la vostra forza e potenza

e affrontare i Titani una volta per tutte?
 

E Cotto, uno degli esseri dalle centro braccia, così gli rispose: «O divino, parli di una cosa che ben conosciamo ... grazie a te siamo usciti dalla tenebra oscura e ci siamo liberati dalle terribili catene. E adesso, in cambio, ci impegneremo senza indugio ad aiutarti nella tua lotta ferale, combattendo al tuo fianco contro i Titani in una battaglia all'ultimo sangue». E così «tutti quelli che erano stati generati da Crono, insieme agli dèi dalla sovrumana potenza che Zeus aveva riportato alla luce ... tutti insieme, maschi e femmine, si lanciarono quel giorno nell'odiosa battaglia». A fronteggiare la schiera olimpica vi erano i vecchi Titani, i quali avevano anch'essi «serrato pericolosamente le fila».
La battaglia, una volta scoppiata, si estese rapidamente in tutta la Terra e nei cieli:


Risuonava terribilmente il mare sconfinato
e sulla Terra si udivano terribili boati;
Tutto il cielo era scosso e squassato
l'alto Olimpo tremava fin dalle fondamenta
sotto i colpi degli dèi immortali.
Il rumore sordo dei passi degli dèi
e lo spaventoso assalto dei loro missili
scuotevano la Terra intera e giungevano sino al lontano Tartaro.

 


La Teogonia, in un verso che riecheggia il testo dei Rotoli del Mar Morto, ripete le grida di guerra degli dèi:

 

Ed ecco, si lanciavano nel tremendo attacco uno contro l'altro;

alto si levava il grido di entrambe le schiere
e arrivava fino al cielo stellato
quando essi si affrontavano elevando forte il grido di battaglia.
 


Anche Zeus combatteva a fianco dei suoi, utilizzando tutte le sue armi divine. «Dai cieli, di fronte al Monte Olimpo, egli si lanciava in avanti, brandendo il suo dardo. Colpi rapidi e violenti cadevano dalla sua mano, tuono e fulmine insieme, turbinando come una spaventosa fiamma. La fertile terra si incendiava e il bosco era tutto un crepitare di fuoco. Tutta la terra fremeva, così come le acque dolci e il mare salato».
Poi Zeus lanciò una pietra-tuono (fig. 1) contro il Monte Othyres: ma si trattò, in realtà, di una vera e propria esplosione atomica:

 

 

Il vapore caldo avvolse i Titani,
nati da Gea;
una fiamma indicibile si alzò splendente fino ai cieli più alti.

La luce abbagliante della pietra-tuono,
il lampo, li accecò
tanto era forte il suo splendore.
Uno spaventoso calore circondò Caos ...
Fu come se la Terra e il vasto Cielo
si fossero uniti insieme;
uno scontro terrificante, come se la Terra fosse stata scagliata

contro la sua stessa rovina.
 


Il tremendo impatto si verificò mentre gli dèi erano immersi nella battaglia.
Oltre allo spaventoso boato, alla luce accecante e al soffocante calore, la pietra-tuono provocò anche un'impetuosa tempesta di vento:

 

Si radunarono i venti roboanti,

terremoto e tempesta di polvere, tuono e fulmine.

 

La pietra-tuono del grande Zeus provocò tutto questo.
E quando i due contendenti udirono e videro quanto era accaduto, «la battaglia ebbe una terribile impennata; si poté assistere a gesta possenti, ma l'esito del combattimento era ormai segnato». Gli dèi, infatti, avevano avuto la meglio sui Titani.
«Non ancora soddisfatti della guerra», i tre Ciclopi si lanciarono sui Titani, scagliando, con le loro mani, dei missili contro di loro. «Li costrinsero in catene» eli gettarono prigionieri nel remoto Tartaro. «Là, nell'umida tenebra, per decisione di Zeus che cavalca le nuvole, gli dèi Titani se ne stanno nascosti, in un luogo oscuro ai confini della Terra», dove anche i tre Ciclopi si sistemarono per sorvegliare i Titani prigionieri, in qualità di «fidati custodi di Zeus».
Ma proprio quando quest'ultimo stava per rivendicare «d'egida», cioè la supremazia su tutti gli dèi, un nuovo sfidante apparve improvvisamente sulla scena. Infatti, «dopo che Zeus ebbe cacciato i Titani dal cielo, la grande Gea partorì, con l'aiuto della bella Afrodite, il piccolo Tifeo, frutto dell'amore con Tartaro». Tifeo (o Tifone) era davvero un mostro: «Le sue mani possedevano una forza terribile che egli metteva in tutto quanto faceva e i suoi forti piedi erano instancabili. Dalle spalle si dipartivano cento teste di serpente e di drago con lingue guizzanti. Da sotto le ciglia degli occhi, nelle sue teste portentose, si intravedevano lampi di fuoco, che sgorgavano fuori a ogni sguardo. E da ognuna delle sue spaventose teste fuoriuscivano voci diverse, che pronunciavano suoni incredibili: quello di un uomo che parla, quello di un toro, di un leone o di un cucciolo». (Da Pindaro ed Eschilo sappiamo che Tifone, grazie alla sua gigantesca altezza, con la testa raggiungeva le stelle.)
«Quel giorno stava per accadere qualcosa di spaventoso», rivelarono le Muse a Esiodo; era pressoché inevitabile che Tifone «finisse per regnare su mortali e immortali». Ma Zeus fu rapido a percepire il pericolo e non perse tempo ad attaccare quel mostro.
Ne seguì una serie di battaglie non meno spaventose di quelle che avevano visto affrontarsi gli dèi e i Titani: il dio-serpente Tifone era infatti dotato di ali e poteva quindi volare proprio come Zeus (fig. 2).
«Zeus tuonava con impeto e forza e tutto intorno la terra rimbombava orribilmente, così il vasto cielo e il mare c i fiumi e persino gli Inferi». Ancora una volta vennero usate armi divine, da entrambi le parti:
 

A causa di quei due,
a causa del tuono e del fulmine,
il calore avvolse l'azzurro mare;
E a causa del fuoco che proveniva dal mostro,

dei venti bollenti e del lampo abbagliante,

tutta la Terra ribolliva, così il cielo e il mare.

Onde enormi infuriavano lungo le coste ...

E il terremoto sembrava non avere mai fine.
 

Negli Inferi, «Ade tremava nel suo regno»; tremavano anche i Titani imprigionati ai confini della Terra. Nella lotta che coinvolgeva Terra e Cielo insieme, Zeus, con il suo «tuono sinistro», riuscì a colpire per primo. Il colpo fece «bruciare tutte le portentose teste che circondavano il mostro», e Tifone si schiantò al suolo con tutto Il suo armamentario:


Quando Zeus ebbe ragione di lui
e lo annientò con il suo attacco,
Tifeo cadde al suolo come un relitto ferito.

In tutta la terra si udì un boato.
Quando egli fu colpito
una fiamma scaturì dal signore abbattuto

nell'oscura, aspra e isolata valle del Monte.

Gran parte della terra venne avvolta

da un denso vapore,

e si sciolse come fa il metallo quando col calore
viene fuso dall'abile mano di un artigiano ...
Nel fulgore di un fuoco abbagliante
la terra si sciolse.

 

Malgrado il tremendo impatto del veicolo dentro il quale si trovava Tifone, il dio non morì. Secondo la Teogonia, Zeus gettò anche lui «nel vasto Tartaro». Grazie a questa vittoria, il suo regno era ormai al sicuro ed egli poté rivolgere ogni suo sforzo all'importante gestione della discendenza: da quel momento cominciò infatti a generare figli con mogli e concubine, indifferentemente.
Se la Teogonia parla di un'unica battaglia tra Zeus e Tifone, secondo altri scritti greci questo non fu che lo scontro finale, preceduto da molti altri combattimenti in cui era stato Tifone ad avere la meglio.
Inizialmente Zeus combatté contro Tifone utilizzando lo speciale falcetto, donatogli da sua madre, per realizzare «il progetto malvagio» di castrare Tifone, ma questi lo fece cadere in una trappola, gli strappò il falcetto e con esso tagliò i nervi delle mani e dei piedi di Zeus, gettando quindi il dio, ormai privo di sensi, con i suoi nervi e le sue armi, in una grotta.
Ma gli dèi Egipan ed Ermes trovarono la grotta, riportarono in vita Zeus rimettendogli a posto i nervi e gli restituirono le armi. Zeus allora fuggì «a bordo di un carro alato» e tornò all'Olimpo, si rifornì di "munizioni" per il suo lancia-fulmini e riprese gli attacchi contro Tifone, spingendolo verso il Monte Nyssa, dove le Parche gli diedero da mangiare il cibo destinato ai mortali, che, invece di rifocillarlo, lo indebolì. Il duello continuò nei cieli sovrastanti il Monte Emo in Tracia, poi sull'Etna in Sicilia e si concluse sul Monte Casio, presso la costa asiatica del Mediterraneo orientale: qui Zeus, con il suo fulmine, scacciò Tifone dai cieli».
 

La genealogia degli dei greci raccontata da Esiodo, non è certo un modello di chiarezza; per tale motivo, reputando far cosa gradita abbiamo inserito una immagine che condensa in schema tutta la genealogia divina esposta da Esiodo ne «La Teogonia».

 

Il testo è a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it).

 
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