Nel capitolo "Premesse per l'analisi storica del racconto evangelico" abbiamo parlato delle persecuzioni e abbiamo affermato che il modo in cui esse vengono comunemente rappresentate è scorretto. Le persecuzioni anticristiane, specialmente le più antiche, erano intese dai romani come una misura preventiva o repressiva nei confronti, non di una nuova religiosità, ma dell'ostilità antiromana tipica dei messianisti ebrei, ovverosia dell'ideologia di riscatto etnico e religioso che voleva restaurare la dinastia davidica sul trono di Israele e liberare la nazione dal dominio romano. È la forma assunta nel primo secolo d.C. dal fondamentalismo religioso di stampo Maccabeo che, duecento anni prima, aveva funestato la Palestina con sanguinose ribellioni contro il dominio seleucida.

È qualcosa che i romani consideravano estremamente pericoloso; innanzitutto perché i messianisti ebrei erano caparbi e tenaci; in secondo luogo perché un eventuale significativo successo dell'opposizione ebraica all'autorità imperiale avrebbe costituito un pericoloso esempio da imitare per gli altri popoli sottomessi al potere romano.

Ora, se osserviamo quanto avveniva allorché i cristiani erano arrestati nel corso di una azione repressiva da parte delle forze imperiali romane, dobbiamo constatare che essi non venivano condannati e giustiziati in quanto tali, o perché seguaci di una fede monoteista e di una teologia della resurrezione, ecc... La condanna e l'esecuzione non procedevano prima che fosse stata verificata ufficialmente la loro disponibilità a riconoscere l'autorità imperiale, ovverosia a dichiarare pubblicamente che l'imperatore era il loro sovrano e padrone. In termini esatti l'accusato doveva pronunciare questa frase: Kaisar Despotes (=Cesare è il mio padrone).

Attraverso questa impostazione inquisitoria era realizzata una precisa distinzione fra le convinzioni puramente spirituali della persona sottoposta a indagine e le sue convinzioni nei confronti dell'autorità imperiale; ovverosia veniva scorporato dal suo atteggiamento religioso quella che era la componente politica.

La logica romana era questa: "tu credi a tutti gli dei che vuoi, a tutti i miracoli, le resurrezioni e i prodigi che ti pare... se ammetti la sovranità dell'imperatore e ti assoggetti all'autorità romana sei libero... se ti opponi sei un ribelle e, come tale, sarai condannato e giustiziato". Ed è logico che fosse così altrimenti, se i romani fossero stati ostili alle convinzioni spirituali diverse dalla loro, non avrebbero mai potuto regnare su un impero che comprendeva numerosi popoli diversi o avrebbero dovuto giustiziare tutti quei sudditi che non avessero rinnegato la loro religione per seguire quella di Roma.

Altre volte, nella storia di Roma, sono stati presi di mira i fedeli di altre confessioni. Per esempio, verso il 186 a.C., il senato decise l'eliminazione dei culti dionisiaci e a Roma morirono i martiri di Dioniso; verso il 139 a.C. ci fu una espulsione degli astrologi dalla città; nel 58 a.C. venne effettuato l'abbattimento dei templi di Iside, a causa delle attività politiche dei fedeli; fu anche messo al bando il culto gallico dei Druidi. In tutti questi casi l'elemento scatenante non è stato il fatto che i perseguitati avessero una loro propria religione diversa da quella romana, bensì che si stimasse l'esistenza di un elemento turbativo per l'ordine pubblico o per l'autorità politica.

Ora, se i cristiani, fin dal primo istante, fossero stati coerenti con l'immagine trasmessa dal Nuovo Testamento, ovverosia pacifici, dediti alla solidarietà e all'amore per il prossimo, favorevoli a rendere il tributo a Cesare, disinteressati alla politica e alle ricchezze materiali, per quale motivo i romani avrebbero dovuto: prima catturare il loro leader con un agguato teso da una intera coorte (600 soldati); poi giustiziarlo come un ribelle; poi dare una caccia spietata ai seguaci; infine bandire questa religione dallo stato e sterminarne i fedeli? Perché gli scrittori romani avrebbero definito questi presunti pacifisti come propagatori di una ideologia "funesta", "malefica", di un "male", persino di "atrocità", e avrebbero detto che essi "odiavano il mondo intero"?

La risposta è semplice: perché i romani, specialmente prima e subito dopo la grande guerra giudaica degli anni 66-70, non conoscevano il neo-cristianesimo extragiudaico sviluppatosi in ambiente gentile come reazione agli ideali messianici tradizionali. Invece i romani conoscevano bene il messianismo ebraico e il suo incrollabile impegno militante contro l'autorità imperiale, mosso da un fanatismo religioso che può essere paragonato, oggi, a quello degli esaltati guerriglieri dell'islam nei confronti di Israele o degli Stati Uniti.

È per questo che, nel 49, l'imperatore Claudio "...cacciò da Roma gli ebrei che fomentavano disordini su istigazione di Cristo" (Svetonio, Claudius XXV, 4). È per questo che, nel 64, i cristiani, già riconosciuti responsabili di azioni sovversive contro l'autorità imperiale, furono accusati come autori del terribile incendio che devastò Roma. Ed è improbabile che sia stato Nerone a nascondere la sua colpa (all'epoca Nerone si trovava ad Anzio) ritorcendola sui cristiani, ma è forse vero il contrario, ovverosia che in seguito siano stati i cristiani a ritorcere la colpa su Nerone e a trasmettere i fatti storici in una forma volutamente falsa.

Naturalmente non voglio affermare che la responsabilità dell'incendio fosse sicuramente dei cristiani, poiché è anche molto verosimile che l'incendio sia partito da un fatto semplicemente accidentale, in una città fatta di innumerevoli baracche di legno e di stracci, piena di sudiciume e di materiale infiammabile, dove la gente accendeva fuochi in condizioni tutt'altro che sicure. Ma trovo molto poco verosimile l'accusa rivolta all'imperatore mentre, al contrario, assai comprensibile che i messianisti ebrei e i loro amici si siano trovati al centro di una accusa, seppur sbagliata. Ora, Nerone non ha perseguitato i cristiani a causa delle loro convinzioni spirituali, e le motivazioni di carattere religioso non ebbero alcun peso durante la celebrazione del processo.

Purtroppo, nel corso di tre secoli, si sono verificati svariati episodi di condanne eseguite nei confronti dei cristiani e in essi si è evidenziata una situazione straordinaria quanto tragica: pur di non riconoscere la sovranità di Cesare e di non dichiarare pubblicamente la sottomissione all'autorità imperiale, molti inquisiti hanno sopportato la morte ed anche le più orribili torture. Si sono verificati casi di donne, ed anche di adolescenti, che hanno affrontato il martirio senza cedere nella loro risoluta posizione. Ma questo, se vogliamo essere storicamente onesti, non è affatto un eroismo di invenzione cristiana, bensì l'atteggiamento fondamentalista degli ebrei esseno-zeloti, più volte testimoniato in letteratura, che andavano incontro alla morte pur di non accettare l'imperatore come loro sovrano. Lo abbiamo visto durante la sconfitta di Gamala, quella di Masada, e in tanti altri episodi.

Anche se in termini quantitativi il fenomeno delle persecuzioni contro i cristiani è assai meno rilevante di quanto non appaia nella consuetudine che ce lo rappresenta; la quale vorrebbe farlo sembrare una specie di olocausto che avrebbe tormentato il mondo cristiano nei tre secoli che precedono la riforma costantiniana, costringendo i cristiani a vivere come cospiratori di un complotto segreto. Non è stato affatto così, gli episodi persecutori significativi sono stati isolati e di rilevanza numerica tale da non poter scomodare il concetto di sterminio.

Si osservi a questo proposito cosa scrisse l'imperatore Adriano, in risposta al governatore d'Asia Minicio Fundano:

"Esigo che degli innocenti non siano incolpati, e bisogna impedire che i calunniatori possano esercitare impunemente la loro odiosa azione brigantesca. Se i sudditi della provincia vogliono accusare del tutto apertamente i cristiani di una qualche azione criminosa davanti ad un tribunale ordinario, io non voglio impedir loro di farlo; ma non posso ammettere in nessun caso che vengano presentate petizioni e vengano organizzate sollevazioni rumorose. Corrisponde piuttosto al diritto che colui che avanza un'accusa, indichi esattamente le incolpazioni. Se si dimostra che l'accusato ha agito contro la legge, dev'essere punito in proporzione alla gravità della colpa..." (da Giustino Martire, Apol. 1, 68).

 

Da ciò possiamo dedurre che l'eventuale motivo giuridico per la messa sotto accusa del cristiano non poteva essere il fatto stesso che costui fosse considerato tale, ma il fatto che avesse commesso dei precisi reati contro la legge romana.

La realtà è che le molte e diverse chiese neocristiane (cioè quelle che avevano preso chiare distanze dal messianismo tradizionale e dallo stesso ebraismo) hanno potuto espandersi nel bacino mediterraneo, con comunità di fedeli, diaconi, presbiteri, episcopi; mentre uomini come Ireneo, Clemente, Tertulliano, Eusebio, scrivevano i loro trattati di teologia e di storia cristiana. Assai più simile ad un genocidio fu, nei secoli successivi, la caccia alle eresie e alle streghe, nonché la persecuzione antisemita effettuata nell'Europa cristiana; persecuzioni le cui vittime si contano in decine di milioni. Ma questo non è l'argomento del presente articolo.

In conclusione, soprattutto se facciamo riferimento alle azioni persecutorie anticristiane avvenute nel primo secolo, dobbiamo convenire che i romani non erano capaci di distinguere fra il cristianesimo come religione extragiudaica e il messianismo ebraico, perché il cristianesimo non aveva ancora maturato una sua identità teologica indipendente dall'ebraismo. Questa sarà, successivamente, il risultato conseguente alle gravi sconfitte dell'ideologia messianica, ovverosia agli esiti disastrosi della prima guerra giudaica nel 70 e della seconda rivolta nel 135. Allora, e solo allora, il cristianesimo maturò la sua identità teologica come religione indipendente, a partire dalle idee antimessianiste che furono propagate da Paolo di Tarso verso la metà del primo secolo. In pratica le azioni persecutorie di Claudio, nel 49, di Nerone, nel 64, e poi di Domiziano (81-96) e di Traiano (98-117), erano ben lungi dall'essere azioni dirette contro la fede cristiana, nel senso inteso comunemente oggi. Ne abbiamo una prova evidente da questo scritto di Eusebio:

 

"...Della famiglia del Signore [Gesù Cristo] rimanevano ancora i nipoti di Giuda, detto fratello suo secondo la carne, i quali furono denunciati come appartenenti alla stirpe di Davide. L'evocatus li condusse davanti a Domiziano Cesare, poiché anch'egli, come Erode, temeva la venuta del messia..." (Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl. III, 20).

 

Qui è fin troppo evidente che questi presunti discendenti di Cristo erano stati perseguitati in relazione ad una ambizione messianica finalizzata a restaurare la dinastia davidica sul trono di Israele, ovverosia ad un possibile atteggiamento sovversivo nei confronti dell'autorità imperiale. A Domiziano delle resurrezioni, delle nascite verginali, dei riti battesimali e di quelli eucaristici non glie ne poteva interessare di meno.

Adesso noi vogliamo mettere in evidenza l'affinità che lega il martirio cristiano con quello messianico, rivelando così una stretta parentela ideologica. Se attingiamo alle fonti storiche sugli esseni e sugli zeloti troviamo brani come questo, di Giuseppe Flavio, in cui si parla degli esseni:

 

"...furono sottoposti a ogni genere di prove dalla guerra contro i romani, nella quale furono stirati e contorti, bruciati e fratturati, fatti passare sotto ogni strumento di tortura, affinché bestemmiassero il legislatore oppure mangiassero alcunché d'illecito, ma rifiutarono ambedue le cose: neppure adularono mai i loro tormentatori né mai piansero. Sorridendo, anzi, tra gli spasimi e trattando ironicamente coloro che eseguivano le torture, rendevano serenamente lo spirito come persone che stiano per riceverlo nuovamente. Infatti è ben salda fra loro l'opinione che i corpi sono corruttibili e instabile la loro materia, mentre le anime permangono per sempre..." (G. Flavio, Guerra Giudaica II, 152,155)

 

I tratti di somiglianza col martirio cristiano sono due: uno è relativo alla determinazione eroica con cui viene affrontata la morte piuttosto che sottoporsi all'autorità romana, e l'altro è la motivazione teologica da cui scaturisce tale fermezza, ovverosia la fede nella distinzione fra anima eterna e incorruttibile e corpo temporaneo e deperibile.

Per quanto riguarda gli zeloti noi possiamo ricordare due clamorosi episodi che rivelano un atteggiamento ideologico e comportamentale della stessa natura. Uno riguarda il sacrificio degli assediati di Gamala, e l'altro degli assediati di Masada.

Il primo caso, di cui abbiamo già parlato nell'articolo "Il problema del titolo Nazareno" si riferisce alla fine tragica della città Golanita, che dette i natali al famoso Giuda, detto il galileo. Nel 67 d.C. la città era stata assediata da Vespasiano, nel corso delle operazioni della grande guerra fra ebrei e romani. Quando i legionari riuscirono, dopo lunghi mesi, ad aprire una breccia e a penetrare attraverso le mura della città, gli zeloti che la difendevano si videro perduti e presero una risoluzione in piena corrispondenza con la natura ideologica della loro fede: affrontare un sacrificio volontario piuttosto che darsi, vinti, al nemico:

 

"...Allora i più dei giudei, stretti da ogni parte e disperando di salvarsi, si gettarono con le mogli e i figli nel precipizio che era stato scavato fino a grandissima profondità sotto la rocca. Accadde così che la furia dei romani apparve più blanda della ferocia che i vinti usarono verso sé stessi; quelli infatti ne uccisero quattromila, mentre più di cinquemila furono coloro che si precipitarono dall'alto..." (G. Flavio, Guerra Giudaica IV, 79-80)

 

Anche qui il tratto fondamentale e caratteristico è l'ideologia messianica, originatasi dalla convinzione che l'unico sovrano legittimo di Israele sia il suo stesso Dio: Yahweh. L'ebreo non può pertanto sottoporsi ad altra autorità, senza con questo commettere un atto sacrilego che concede ad uno straniero infedele una dignità che spetta solo a Dio. È la stessa motivazione che, in altri momenti, ha spinto i seguaci della setta di Giuda a rifiutare il pagamento del tributo a Cesare e a considerare infedeli tutti gli ebrei che non erano disposti a ribellarsi contro questa imposizione. Fu con questa causa che ebbe inizio la celebre rivolta del censimento del 7 d.C., in cui perse la vita lo stesso Giuda, e durante la quale l'evangelista Luca pone la nascita di Gesù.

Il secondo caso si riferisce alla caduta della fortezza di Masada, nei pressi della riva occidentale del Mar Morto, una cinquantina di km a sud di Qumràn, in cui gli esseno-zeloti si erano asserragliati dopo la fine della guerra (70 d.C.), nel tentativo di continuare una resistenza a oltranza. Qui essi furono comandati da un certo Lazzaro, figlio di Giairo, legato alla famiglia di Giuda da vincoli di parentela. I romani dovettero affrontare un assedio lunghissimo, in un ambiente molto più inospitale di quello golanita. Dopo ben tre anni di assedio, superando i 50 gradi di temperatura delle giornate estive in questo torrido deserto, i romani edificarono un colossale terrapieno che consentì loro di arrampicarsi fino alla sommità del monte e di raggiungere la fortezza. Consapevoli dell'imminente inevitabile sconfitta gli assediati furono presi dallo sgomento.

Allora fu proprio Lazzaro che riuscì a ricompattare lo spirito dei suoi uomini, pronunciando un discorso che sembra un trattato di teologia esoterica orientale sull'anima e sul suo stato di prigionia nei vincoli della carne, nonché sulla liberazione che consegue alla morte. In pratica, ancora una volta gli esseno-zeloti presero la risoluzione di non concedersi al nemico e di non subordinarsi alla sua autorità. In un certo qual modo essi hanno conseguito la loro vittoria, rimanendo indomiti nella sudditanza all'unico vero sovrano che essi erano disposti ad accettare. Furono circa novecentosessanta che si dettero reciprocamente la morte, col filo della spada, e quando finalmente i romani varcarono il ciglio ed entrarono nella fortezza, non vi trovarono che una distesa di cadaveri. Tutte le vettovaglie e tutto il resto era stato lasciato intonso, affinché i romani sapessero che gli ebrei non erano morti per l'esaurimento delle loro scorte, ma solo per una lucida decisione. Quella di non essere sconfitti e di avere avuto un solo padrone per tutta la vita: Yahweh. Cesare non sarebbe mai stato il loro signore.

Fu l'eco di questa irremovibilità zelotica che spinse i romani, nei decenni successivi, ad adottare il test di subordinazione all'imperatore: costringere l'inquisito a rilasciare la dichiarazione pubblica "Cesare è il mio padrone", da cui sarebbe derivata, poi, l'assoluzione o la condanna.

E se noi vogliamo continuare a credere che i cristiani siano stati perseguitati, non ostante la presunta totale apoliticità di loro stessi e del loro leader, semplicemente perché amavano nascondersi nelle catacombe a pregare e a celebrare il rito eucaristico, in quanto questo avrebbe dato un enorme fastidio alla civiltà di Roma, possiamo farlo ma il nostro senso storico sarà simile a quello di chi vede nelle piramidi egiziane gli hangar degli extraterrestri.