Teurgia e Spagiria
 

Il sistema di Cagliostro nella chiarificazione esistenziale

  Il tuo browser non supporta il tag embed per questo motivo non senti alcuna musica

di Mauro Cascio
Filosofo
 

Per approfondimenti su "Cagliostro" consultare in questa tessa ezione:

Cagliostro

Chi era Cagliostro? Un ciarlatano, un impostore. Tendo a fidarmi molto poco delle fonti cattoliche del processo, e tendo a rimanere perplesso davanti alla profondità di quel poco che c’è rimasto e di quel poco che conosciamo (1)

Davvero Giuseppe Balsamo ha potuto scrivere questo o elaborare i rituali che adesso ci racconteremo? Non ne ho idea, credo di no. Con voi non voglio rispondere, ma cercare di ricostruire il suo pensiero massonico, attraverso un’analisi veloce dei gradi della sua Massoneria egizia. È noto che Cagliostro ha fondato questo rito di perfezionamento che in un primo momento aveva suscitato un grandissimo interesse in tutta Europa fino ad essere quasi del tutto emarginato da tutte le anime massoniche. Dobbiamo a Charles Morison la scoperta del manoscritto dei rituali in un Museo scozzese assieme agli Statuti e Regolamenti della Rispettabile Loggia “La Saggezza trionfante”.

Che cosa ci dice Cagliostro? Innanzitutto che si è Apprendisti per sempre. Il suo sistema di perfezionamento si articola in tre gradi, “novizio”, “miste” ed “epopta”. Al primo grado si poteva accedere, così sembra, dalla maestria muratoria; in realtà leggendo il rituale sembra che altre esperienze fossero richieste, perché nel catechismo leggiamo che l’aspirante novizio aveva già fatto tante esperienze anche altograduali.

Una seconda considerazione preliminare la dobbiamo fare sul sigillo. Un serpente ritto sulla coda che nel tentativo di mordere una mela viene trafitto da una freccia scoccata dall’alto. Se il Serpente è (anche) simbolo della caduta nella “conoscenza duale” e quindi la perdita dell’innocenza originaria, quella che gli consentiva, secondo il catechismo, di «conoscere tutta l’estensione del potere di Dio», la freccia divina che lo colpisce prima che possa mangiare la mela non lo sta uccidendo, ma lo sta proteggendo e sta preservando la sua natura eterna e divina. Il simbolo, cioè, sintetizza tutto il contenuto del grado. Conosciamo l’interpretazione di Francesco Brunelli. Una, abbastanza avventurosa secondo me, richiamerebbe le lettere S ed I del martinismo, cioè Superiore Incognito. Ma in realtà siamo sul finire del Settecento, il martinismo di Papus non è ancora nato, il Filosofo Incognito non aveva molta stima di Cagliostro e si rifiutò persino di incontrarlo. Ma tant’è. Brunelli dixit.

C’è una seconda osservazione che secondo me è più ricca. Considerarle cioè come le iniziali di “Sigillum et Iter”. Ovvero: l’iniziazione è il sigillo che permette l’accesso alla via e contemporaneamente indica il sentiero. Per chi ha ricevuto nella sua anima il sigillo indelebile dell’iniziazione, se queste due lettere gli ricordano sempre che lo spirito dell’uomo è inchiodato alla materia, gli ricordano pure che per la liberazione dai legami della carne è in essa, per essa, attraverso essa che deve purificarsi. E ricorda ancora l’arcano XIII del Taro: come il serpente crocefisso di Mosè, l’iniziato deve sacrificarsi per la salute dei suoi simili.

Nella tavola del Gabinetto di Riflessione, prima del ricevimento al grado di “novizio”, viene introdotto il grande tema. Da una parte è raffigurato il Tempo, con le catene, con gli attributi (che possiamo lato sensu interpretare come “umani”, muratori o di conoscenza culturale), dall’altro l’ingresso di una caverna. Sappiamo poco, del resto siamo (di nuovo) in un luogo buio, pronti ad una palingenesi, una nuova nascita di cui poco ci è detto.

Vediamo però, nell’ingresso della caverna, una cornucopia, simbolo universale di abbondanza, ma soprattutto (ed è lì che porterà la grotta?) una grande piramide. Il simbolo per eccellenza di divinità ed eternità. Da una parte il divenire degli enti, soggetti alla corruzione e al tempo, dall’altra l’identità dove tutto è per sé, le stelle fisse. Nel quadro di loggia, circondato da sette luci, si andrà nel dettaglio. Ma il tema è lo stesso. Il candidato è ai piedi della porta di un Tempio con sette scalini. Al di là di quella porta l’eterno, l’ottavo, la regione delle stelle fisse (arcanum magnum, gemma secretorum (2)). Al di qua il mondo “profano”, della manifestazione, degli enti, del tempo, separato da “sette” gradini intermedi.

Lo scopo dei lavori viene immediatamente dichiarato dal Venerabile Epopta:

«Tutte le nostre operazioni, tutti i nostri misteri, tutte le nostre pratiche non hanno altro scopo se non glorificare Dio, e penetrare nel santuario della natura».

Poco dopo viene conferito il grado ermetico di novizio e l’Epopta nomina il candidato «guardiano delle conoscenze filosofiche» di cui lì a breve sarà fatto partecipe. Che però non si debba solo “custodirle” queste conoscenze ma che si debba anche “operare” credo sia chiaro già dalle premesse.

Il Grande Cofto, recita il catechismo, ha insegnato «la conoscenza di Dio e di me stesso», bisogna percorrere due strade, dice, quella della filosofia naturale e quella della filosofia sovrannaturale. Che vuol dire la filosofia naturale? Vuol dire «il matrimonio del Sole e della Luna e la conoscenza dei sette metalli». E dopo aver fatto conoscere i sette metalli si aggiunge: qui agnoscit mortem, agnoscit artem. Il candidato, che proprio a digiuno di queste cose non dovrebbe essere, ha già capito che se la questione è quella che da una parte c’è l’essere eterno (la piramide, la porta del tempio) e dall’altro l’ente perituro e diveniente (il vecchio davanti la caverna, il candidato davanti ai gradini del tempio), la domanda è: che rapporto c’è tra queste due condizioni? E, la vera grande sfida di cui per ora siamo “custodi”, come è possibile, se è possibile immaginare un percorso che mi porti a morire di uno stato per conoscere l’altro? Qui agnoscit mortem, agnoscit artem. Detta così è una promessa. Un qualche ruolo, ma il candidato lo sa già, deve avere proprio quel numero sette, per ora introdotto dall’Epopta parlando di metalli che occorre conoscere, introdotto dalle luci che illuminano il Quadro di Loggia, ma soprattutto da quei quattro gradini che il Novizio a questo punto avrà già visto. Dove indirizzare la ricerca? Nella meditazione. Il catechismo ci dà una indicazione che ci sembra doveroso sottolineare, sempre per via di quell’indirizzo operativo che abbiamo già voluto mettere in evidenza. Come bisogna impiegare il tempo in meditazione?

«A compenetrarsi della grandezza, della saggezza e di tutta la potenza della Divinità. Ad avvicinarsi ad essa col nostro fervore e a riunire così intimamente il nostro corpo alla nostra morale, in modo che si possa giungere al possesso di questa filosofia».

 

Non dobbiamo studiare, né adorare. Dobbiamo compenetrarci. Dobbiamo sentire qualcosa in noi. Il qualcosa può essere dettagliato meglio: la potenza della divinità, cioè quanto più volte la filosofia ha detto, penso al neoplatonismo o a Proclo, la divinità che si dispiega nella materia organizzandola, cascandoci dentro e come sigillandosi. In questo senso ogni ente partecipa dell’essere. In questo senso l’essere è (3). Ma noi non dobbiamo capirlo. Non dobbiamo comprenderlo. Lo dobbiamo vivere, vivere con fervore. Sta qui, in questo fervore, il nostro Maestro. Solo con questo entusiasmo (è un termine ancora più appropriato di “fervore”, per la sua origine greca, entheos, che ce lo fa tradurre “dentro Dio”). Ecco perché bisogna mettere da parte ogni autore, che sia vivente o morto. Non bisogna ascoltare il suono delle cose. Ma sentire come esse suonino in noi. I rituali e i gradi questo devono essere: parole che noi musichiamo, per incantarci. Lettera morta che aspetta di essere vivificata dal nostro spirito. Altrimenti tutto si ridurrebbe ad essere un vuoto collezionismo di gradi.

 

Il catechismo prosegue in maniera abbastanza chiara e didattica. E si arriva, di necessità, al tema della “materia prima”. Creata da Dio prima di creare l’uomo e che non ha creato l’uomo che per essere immortale. Questo dono che prima era concesso a tutti ora è riservato. Pauci sunt electi. Sulla materia prima ogni autore ha avuto la sua idea, ma abbiamo già visto che considerazione bisogna avere sulle considerazioni degli altri, per quanto spesso utili possano essere i loro insegnamenti. Anche le loro tecniche sono quasi sempre trascurabili, ma non perché “sbagliate”, semplicemente perché “loro”. Per fini di comprensione vale la pena ricordare almeno le due classi semantiche a cui rimanda la materia prima. Conoscere la materia prima vuol dire conoscere l’acacia.

Un universo di senso rinvia sicuramente all’eterno di cui si è detto, con i miti di morte-risurrezione ormai ben noti, a ciò che non diviene, che non è soggetto alla cronia, al tempo, che non si corrompe. Lo stato di coloro-che-sono. Quelli al di là della porta del Tempio. Non ci soffermiamo qui sul secondo campo di senso.

 

L’epopta sulle scale, nel Quadro di Loggia, minaccia con la spada un Mercurio stordito. Sopra il quale campeggia la scritta “Pietra grezza”. La nostra comprensione e la nostra coscienza (il nostro “stato”) va quindi evidentemente “colpito” e lavorato. Questa parte dovrebbe suonare abbastanza familiare al Novizio.

La materia prima serve a purificare la pietra grezza e a renderla cubica, e infine a punta. È l’apoteosi della ierofania: la “pietra filosofale”. E – ma a questo punto è ovvio – sono sette i passaggi per purificarla, «che sono l’allegoria dei sette gradini posti dinanzi al Tempio». Solo così, passando per i relativi colori, possiamo arrivare alla consumazione del matrimonio tra il Sole e la Luna (cioè il superamento della condizione duale) ed otterremo la pietra cubica a punta. Torniamo alla domanda che ci eravamo fatti. Ci sono due stati. Noi siamo interessati a quello che c’è in mezzo. Cioè ad una pietra, che va perfezionata tramite sette “operazioni”.

 

Ma la Massoneria ordinaria, quella simbolica, ce le dice queste cose? Certo che sì. Il catechismo si dilunga, ma il candidato saprà fare anche valutazioni ulteriori nel merito e nel metodo. Il segreto dell’eterno è già nei fondatori stessi della Massoneria, Enoch ed Elia. Entrambi non conobbero morte. «Enoch visse in tutto 365 anni, camminò con Dio, poi non fu più veduto, perché Iddio lo prese» dice il Genesi (5, 21-23). «Enoch piacque al Signore e fu rapito» racconta il Siracide (44,16). «Enoch fu trasportato via in modo da non vedere la morte», aggiunge il Nuovo Testamento (Ebrei 11,5). Il profeta Elia non è da meno, «rapito in cielo con un carro di fuoco e cavalli di fuoco» (2Re 2,11). Questo contenuto viene trasmesso.

Lo stesso Adon Hiram, nella sua abilità a forgiare i metalli, questo simbolizzerebbe: la possibilità di trasmutarli. Di cambiarne la natura. Adonhiram significherebbe persino, in lingua araba, «metallo aperto».

Si passa in rassegna, in maniera più o meno efficace, il simbolismo muratorio. Il nodo epocale è la stella fiammeggiante. Che i muratori hanno conosciuto a cinque punte. Con la misteriosa lettera G al suo centro. Si è letta la G come Geometria, soprattutto nel secondo grado. Poi, in piena maturità iniziatica, la si è intesa come Gnosi. Invece la stella di punte ne ha sette e la G sta per Geova. Il vero significato di tutto è di nuovo: i sette angeli che circondano il trono della divinità.

Niente paura: il catechismo ci ricorda subito che questi sette angeli non sono che quelli che si chiamano anche pianeti e che ogni angelo, cioè ogni pianeta, ha la sua particolare influenza sulle regioni necessarie per perfezionare la materia prima. Ma c’è un dato in più che prima era tra le righe: l’uomo è in grado di dominare questi esseri. Nella sua condizione primigenia Dio gli aveva concesso la conoscenza di questi “esseri intermediari”. La mortalità coincise con la perdita di questi poteri. Solo gli Eletti di Dio sono stati risparmiati. E lo scopo di ogni massone è questo: rigenerarsi e tornare ad essere un Eletto di Dio, tornare ad «esercitare la sublime e originale dominazione dell’uomo, di conoscere tutta l’estensione della potenza di Dio». Come? La risposta ci era stata già data: compenetrandoci nella potenza.

Avvicinandoci ad essa con il nostro fervore, con il nostro entusiasmo. Ovvero: penetrare nel santuario della natura. Ora il catechismo aggiunge:

 

«Bisogna iniziare a conoscere i caratteri spirituali, le invocazioni a Dio, il modo di vestirsi e il metodo con cui bisogna chiudere e preparare gli strumenti dell’arte, secondo le influenze planetarie».

 

Perché il gioco è ormai chiaro: è inutile continuare a parlare di angeli, qui li si intende come “influenze planetarie”, appunto. Invocando gli angeli, cioè “partecipando” dello spirito planetario solleveremo il nostro fisico e il nostro morale. Avvicinandoci esattamente a questi procedimenti giungeremo a spogliarci totalmente della parte fisica, saremo purificati secondo il metodo degli Eletti di Dio.

Un metodoanalogico pare di capire, che in una visione complessiva olistica riveste un’importanza fondamentale. Il metodo per penetrare nel santuario della verità è dunque di natura teurgica, finalizzata ad evocare determinati stati di coscienza, metodo probabilmente mutuato dagli “Arcana Arcanorum” che Cagliostro avrebbe ricevuto a Napoli da “La Perfetta Unione”, la Loggia di Raimondo Di Sangro, Principe di San Severo (4).

Saltiamo il secondo grado, quello di “miste”, perché come qualche volta avviene è un grado di passaggio. Arriviamo alla cosa davvero importante, e cioè il termine della iniziazione, il momento più solenne, chiamiamolo così. Quello che rendeva il miste, finalmente un “epopta”. Cioè a cui si mostrava finalmente il contenuto di Verità che era tra le righe anche nei gradi precedenti.

Il candidato viene condotto in un Tabernacolo, una specie di Gabinetto di Riflesssione, ma tutto bianco. Sappiamo tutti cosa fosse il Tabernacolo nella tradizione ebraica. Durante l’esodo degli Ebrei dall’Egitto alla terra promessa era la dimora trasportabile, nell’arca, della presenza divina, della Shekinah, quello che poi diventerà il Sancta Sanctorum, una volta costruito il Tempio di Re Salomone. Qui quella di Cagliostro diventa una grandissima provocazione. Quasi hegeliana. Il candidato abita la casa di Dio (5). Ed ecco in che senso si diventa eletti di Dio, ecco in che modo si diventa come Enoch o come Elia. Gli eletti di Dio hanno la possibilità di salire fino al cielo sulla scala degli angeli, come nel sogno di Giacobbe.

In raffigurazioni molto celebri del sogno di Giacobbe, vediamo l’iniziato, che dorme, perché deve essere svegliato dall’angelo di Dio: è Giacobbe. Yakoov vuol dire “il tortuoso”, colui che non riesce a camminare bene. Dopo la lotta con l’angelo di Dio, prende il nome di Israel, che vuol dire anche “dritto verso Dio”. Riflettiamo brevemente sul termine Sullam, che vuol dire Scala, la mediatrice tra la terra e il cielo. Per chi si diletta di ghematrie, Sullam ha valore numerico 130, lo stesso valore della parola Hatzalah, che significa “liberazione”, “redenzione” ma anche il valore numerico di “Sinai”, il Monte dove vengono dati a Mosè i comandamenti. In ebraico il segno che identifica una lettera è anche un numero. La ghematria fonda i propri suggerimenti simbolici sul presupposto che parole con lo stesso valore numerico rinviano ad un unico campo semantico (6).

Vale la pena osservare anche la forma delle lettere. Il cerchio diventa quadrato (e viceversa) nella Samekh che diventa Mem chiusa (e viceversa). Questo è possibile grazie ai Malakhei Elohim, gli Angeli di Dio. Espressione che vale 187, tanto quanto gli Ofanim, una delle principali categorie angeliche, più o meno assimilabili ai centri di consapevolezza orientali, i cakra, e ai metalli alchemici; 187 è anche il valore numerico di Qumriel, l’angelo che suona la tromba, l’angelo della Resurrezione (7).

È questo il senso della definitiva palingenesi dell’uomo e la teurgia ma anche il sistema spagirico di Cagliostro è funzionale a questa visione complessiva delle cose. Questo è il significato della Fenice, che troviamo nel quadro di Loggia del terzo grado della Loggia Magistrale egizia.

 «Dando spicco a ciò di cui si parla – dandogli un segno, una parola –, il linguaggio si impadronisce di ciò di cui esso parla e che esso fa diventare segno e parola. Impadronendosene, gli dà spicco» (8).

 

Un impostore. Un ciarlatano. Può darsi. Ma, fermandoci un po’ a riflettere su quanto abbiamo sinteticamente ricostruito in queste pagine, ne siamo davvero così sicuri?

 

 


1. Il processo al conte di Cagliostro. La vita di Giuseppe Balsamo raccontata da Giovanni Barberi (1790), Milano, Mimesis, 2013; Arturo Reghini, Cagliostro. Documents et études. Notes brèves sur le Cosmopolite, Milano, Arché, 1987; Alessandro Cagliostro, Mémoire pour le Comte de Cagliostro, Milano, Arché, 1973.

2. A cui si accede cioè tramite un “secreto”.

3. Ed è così che arriviamo alla Gloria che ci attende da sempre e a cui da sempre siamo destinati. «Se non lo si isolasse – se questo isolamento non apparisse – non potrebbe volerlo come segno e come designato, cioè come altro da ciò che esso è. L’isolamento è il fondamento dell’impadronirsi delle cose: ci si può impadronire solo di quello che è isolato. La volontà isolante in cui consiste il linguaggio si fonda sull’isolamento della terra, ne è un aspetto. È impossibile che l’isolamento riesca a separare l’inseparabile unità tra gli essenti – tra gli eterni – e a impadronirsi di essi: l’isolamento è la fede di avere la capacità di impadronirsene; ma questa fede è possibile solo in quanto si fonda sulla fede nella separatezza delle cose e dunque sulla fede originaria che separa la terra dal destino della verità»: Emanuele Severino, La Gloria, Milano, Adelphi, 2001, p. 465.

4. Il realtà molte tradizioni sono convinte della necessità di un “ritorno” in uno stato originario (che in un mio testo di qualche anno fa indicavo come reditus prendendo il termine in prestito da Tommaso d’Aquino). Gli enti che partecipano ad un essere che è testimoniano il destino della verità. E la descrizione, più o meno elaborata, di una cosmogonia è la premessa “speculativa” per una operatività che compia a ritroso, facendole vivere all’adepto, il processo. Così in Proclo. Così nello gnosticismo. Così nella Qabalah ebraica: nel Sepher Raziel viene raccontato della “caduta” di Adamo, ma anche dell’angelo Raziel inviato per far sì che l’uomo possa, dopo la caduta, avere gli strumenti “magici” per lavorare al ritorno all’Eden. Lo stesso Albero delle Sephirot, la più nota delle descrizioni delle ipostasi di Dio che cadono nella materia, sostanziandola, non sono che la premessa ad un ritorno, da Malkuth a Kether. Temi che nell’esoterismo occidentale degli ultimi secoli sono stati riorganizzati anche da Martinez de Pasqually. Nel suo Trattato della Reintegrazione degli esseri descrive una “Figura Universale” (che ha lo stesso valore operativo dell’Albero delle Sephirot) che diventerà propedeutica al “culto divino” degli Eletti Cohen. Cfr. in merito Mauro Cascio, Un dio che riposa tra i fenomeni del mondo, Catania, Tipheret, 2014, pp. 81-84; Id., Proclo e la Teurgia, in Il Vacillare del senso, Catania, Tipheret, 2014, pp. 47-51; Id., Sepher Raziel, Torino, Psiche 2, 2011; Martinez de Pasqually, Trattato della reintegrazione degli esseri, Genova, Amenothes, 1980.

5. Il compito della coscienza, e qui c’è Hegel, non è accontentarsi di essere coscienza, e quindi di interpretare le singole determinazioni dell’atto di coscienza come eventi separati, ma rischiararsi Spirito, cioè sciogliere l’aut aut delle determinazioni in un et et che tutto comprende e supera.

6. Nadav Hadar Crivelli, Introduzione alla Cabalà, Torino, Psiche 2, 2008, p. 30.

7. Si confrontino le tavole I e XV del Mutus Liber. È utile conoscere la versione commentata da Maria Irmgard Wuehl, una psicanalista del Cipa che dà a volte interpretazioni molto convincenti. Vd. Altus, Mutus Liber, Milano, la biblioteca di Vivarium 2009, pp. 14-17, 60-63.

8. Severino, La Gloria, cit.