V'è, poi, un sentiero particolare, diremo, tutto speciale le perché non si pone sul piano delle distanze; in esso non vi sono cornici per cui occorre mettersi di colpo fuori della finestra e saper rimanere nell'imponderabile. Così, improvvisamente sei scalzato da tutti i tuoi sostegni, dai tuoi veicoli-corpi e dalle stesse qualità; è un sentiero che non poggia su nessuna delle cose note perché immediata-mente ti poni di là dalla quantità, dalla qualità, dalla causa, dall'effetto; quindi, dal tempo-spazio.
É il sentiero della "freccia", è il sentiero metafisico, è la via del Fuoco incolore; nel Vedanta si parla di asparsa che vuol dire senza relazioni, senza alcun contatto, senza supporti o sostegni. Esso non è per tutti, anzi è per pochissimi e questi pochi devono anche fare attenzione perché è facile fraintendere cose che non poggiano né sulla concettualità, né sull'emozione, né sulla volontà e azione.
Per il sentiero non-sentiero metafisico bisogna avere audacia intelligente, bisogna essere pronti, occorre avere predisposizioni particolari per evitare il rischio di disperderti nel "nulla", di finire, lasciando dietro la tua finestra, col non trovarti né dentro né fuori casa.
Per esempio, se ti dico: « Non esiste né alba né tramonto, né chiaro né scuro », potrebbe mancarti la terra sotto i piedi perché per te questi fenomeni sono reali quanto la tua consistenza corporea. Però non ti sto parlando dal punto di vista della terra, che rappresenta la tua finestra, ma dalla prospettiva del sole. Ecco il punto cruciale di questo non-sentiero: di colpo ti parlo un linguaggio che non ti è noto, che non è tuo. Ora, saprai uscire dalla tua finestra terrestre, rimanere senza sostegni e lanciarti improvvisamente nel sole?
E ancora, se affermo: « Non vi è né nascita né dissoluzione, né aspirante alla liberazione né liberato, né alcuno che sia in schiavitù ...» (Mandukyakiirika: II, 32), credo che potresti rimanere perplesso se non riesci a trovare la giusta posizione coscienziale e far tacere la mente empirica di relazione.


[...]
 

35. « Non è possibile affermare, infatti, che qualcosa di reale giunga all'esistenza; né dire che un vaso non esistente in questo momento diventi esistente nel momento successivo perché ciò equivarrebbe ad enunciare una contraddizione. Non appena ci rendiamo conto del fatto che le cose non hanno alcuna esistenza assoluta, comprendiamo altresì che esse non possono produrre altre cose dotate di tale esistenza.
Pertanto, noi parliamo di cause soltanto a spese della logica, indulgendo cioè agli espedienti del soggetto e dell'oggetto, della sostanza e degli attributi, dello spazio e del tempo; ma, parlando in senso assoluto, non vi è ne causa ne effetto, ne produzione ne cessazione ». (S. Radhakrishna: La Filosofia indiana. Einaudi)
36. La Totalità o Unità può essere divisa solo logicamente. La molteplicità quantitativa dell'Essere rappresenta una semplice opinione inventata per comodità di riferimento egoico.
37. Se l'Assoluto è senza causa e senza moto, allora il Liberato che genere di causa e di moto potrebbe promuovere? Se le cose che percepisci, in te e fuori di te, non sono - perché appartengono alla sfera del contingente ed effimero, vale adire del non-essere - dimmi, da che cosa dovrai distaccarti? Se tu comprendi e sei l'unica e perfetta Realtà senza secondo, dimmi, da chi potrai attenderti aspettative, o di chi aver paura?


[...]
 

55. D'altra parte, rifletti, l'Essere in quanto è - e non può non essere - non può divenire. Il divenire, in quanto diviene, non potrà mai Essere.
Come già accennato precedentemente, se un dato è Reale esso non può venire all'esistenza perché è già, se invece Reale non è, non può trovarsi necessariamente nell'esistenza. Un Reale che diviene non è concepibile perché sarebbe soggetto a crescita e diminuzione, a nascita e morte. E il non-reale, non avendo una sua ipseità, non può considerarsi un dato in assoluto.
E ciò che tu vedi e percepisci che cos'è? Tutto quello che vedi, dalla prospettiva dell'Essere, è movimento apparente il quale si risolve in linee, piani, volumi, che appaiono e scompaiono, che sono e non sono, che vanno e vengono. Che valore puoi dunque dare a ciò che è eppure non è, che appare e poi scompare? Se osservi per un attimo il sole che si specchia nell'acqua in movimento, potrai notare che non è il sole a muoversi ma l'acqua che, per la sua particolare natura, è soggetta a movimento-divenire. Però, un non-conoscitore può credere che non sia l'acqua a muoversi ma il sole riflesso. Così, non è l'Essere a muoversi, ma la sua sostanza-materia [...], per dirla col divino Platone, che, a sua volta, riflette le differenti rappresentazioni della Realtà.
Se, dunque, le cose non sono perché non sono Essere, dovrai convenire che soffermarsi, costringersi, asservirsi a dati che appaiono e scompaiono è da folli. Occorre, così, che tu distingua l'Essere dal non-essere in assoluto, e da ciò che, pur partecipando dell'Essere, non è l'Essere. Ora, se tu sei un ricercatore dell'ultima Realtà, o della sola e unica Realtà - perché di Realtà non puoi ammetterne parecchie - allora devi riconoscere che l'unica e autentica Realtà è l'Essere, e che tutto ciò che ad Esso risulta posteriore non è, né potrà mai Essere.
Se, inoltre, il conoscere una Verità implica la sua accettazione, e questo poi è ancor più valido per la Verità, allora ne convieni che non puoi non vivere e essere tale Verità. E se il tuo subconscio, quello collettivo o, pur anche, quello universale ti propongono l'errore, tu, che oramai conosci e accetti il Vero, in che modo potrai contraddirti e disconoscerti cambiando contrada?
In verità, non ti rimane che una sola strada, quella dell'Essere, lasciando al mondo degli uomini, che si credono "divenire", i sofismi dell'opinione.

A questo punto possiamo chiederci: l'aspirante filosofo alla realizzazione, in che modo intende l'unità dell'essere, di brahman, di Dio? I nomi hanno poca importanza, é importante invece capire ciò che i nomi sottintendono;l'essere, Dio, brahman, ecc., non possono essere molteplici; più iddii si escluderebbero a vicenda. Né, possiamo ammettere che tra l'essere e lo stesso mondo possa esserci dualità assoluta. Parlare di mondo e di Dio significa sempre riportare il tutto all'unità divina, per cui tra Dio e l'ente, qualunque esso sia, non v'é alcuna distanza e dicotomia.

Dire ancora che una cosa é Dio e un'altra l'ente, o i suoi prodotti, significa proporre una dualità assoluta inaccettabile: l'uno deve pur derivare dall'altro; inoltre, il vivente, perché effetto, non può non avere la natura della sua causa, e ciò esclude la diversità e l'opposizione.

Non si hanno effetti che non siano potenzialmente nella causa. Il ghiaccio non é che acqua condensata. L'aspirante Filosofo, dunque, pur proclamando l'unità dell'essere, può ritrovarsi nel piano pratico a vivere la molteplicità e la differenziazione, spesso anche l'opposizione, la contrapposizione inconscia.

Ma che cosa si vede nell'altro per contrapporsi e creare una dualità conflittuale? Posto quanto sopra, dovremo però avanzare una considerazione: se guardiamo il problema con l'occhio empirico dovremo anche riconoscere che i molti esistono, la differenziazione sembra essere un'evidenza alla nostra percezione, per cui tale considerazione va a contraddire quanto abbiamo affermato sull'unità dell'essere. Insomma, ci troviamo con un problema abbastanza difficile e bisognerà meditare per poterlo risolvere; alla nostra ragione esso non può non sembrare anomalo e contraddittorio: da una parte affermiamo l'unità, dall'altra supponiamo anche la dualità-molteplicità.

Il problema dell'uno e dei molti é stato posto per primo da Platone, ma anche le Upanisad l'hanno proposto, anzi alcuni sutra della Mandukya Upanisad sembrerebbero offrire qualche filo conduttore al nostro discorso. La spiegazione circa la nascita é questa: il Sé é considerato
esistente, sotto forma di anime individuali, alla stregua dello spazio-etere esistente nelle brocche; quindi il Sé esiste nella forma delle cose composte proprio come lo spazio-etere esiste nelle brocche, ecc.

Con l'etere confinato entro le brocche, ecc., si fonde completamente quando avviene la disintegrazione delle brocche, ecc. (nell'etere illimitato), così i jiva si fondono nell'atman. (Gaudapada, Mandukyakarika).

Dalla meditazione di questi sutra possiamo ricavare una sequenza di indicazioni che potremmo esporre nel modo seguente:

1. Abbiamo l'etere e abbiamo le brocche o i vasi.
2. Che cos'é l'etere e che cosa sono i vasi.
3. Che cosa possono rappresentare i vasi nei confronti dell'etere.
4. Etere e vasi sono una dualità assoluta?
5. Quale può essere il loro giusto rapporto?
6. L'etere può sussistere senza vasi e i vasi senza etere?

L'Upanisad ci suggerisce che in ogni vaso-brocca esiste un'entità chiamata etere, quindi Spirito, Anima, atman, nous; come prima si
accennava, i termini contano poco. Inoltre, il testo evidenzia un fatto molto importante, vale a dire che l'etere di un vaso é della stessa natura dell'etere fuori dal vaso. Ciò implica che l'etere di una brocca é identico all'etere delle altre brocche, oltre a essere indistinguibile dall'etere universale che trascende sia l'etere nel vaso sia lo stesso vaso.

In altri termini, l'Upanisad ci fa capire che v'é una sola realtà etere che pervade i molteplici vasi dal momento che, come sopra abbiamo potuto notare, l'etere entro il vaso é della stessa natura di quello fuori del vaso. Secondo la visione delle Upanisad, possiamo considerare la brocca una finestra tramite cui l'etere manifestato, o individuato, percepisce un sistema di vita. Ciò significa che questo etere si serve di un vaso quale strumento, mediante cui opera in un contesto esistenziale; così, ancora, nei confronti dell'etere, il vaso costituisce un semplice oggetto, un fattore accidentale di servizio.

Procediamo oltre e accertiamoci se i due aspetti, etere e vaso, sono una dualità. Un vaso-corpo é sempre un effetto, appartiene al mondo del divenire e del contingente; un vaso-corpo, qualunque esso sia, nasce ha la sua parabola vitale e poi declina e si risolve nella sua essenza o sostanza elementare.

Se é un effetto non può essere una ipseità, quindi deve avere una causa: tutto ciò che é determinato; e quale potrebbe essere questo principio? Nel nostro contesto espositivo ci rimane solo l'etere, non abbiamo altri elementi o dati, per cui dobbiamo necessariamente ammettere che il vaso-corpo nasce dall'etere stesso. Dal nulla, dobbiamo riconoscere, nulla nasce. E come fa a nascere dall'etere? L'aiuto ci viene dallo svolgimento del nostro sogno notturno. Si, proprio il nostro sogno, quello che facciamo tutte le notti (per quanto sogniamo anche di giorno; non diciamo spesso: ho coronato il mio sogno? Ma ciò, per il momento, non rappresenta lo scopo della presente nota).

Prendiamo, dunque, quest'analogia e domandiamoci: chi é chi crea il sogno?

Possiamo rispondere: la nostra mente, la quale infatti ha la capacità possibilità di manifestare-proiettare il soggetto sognante e anche l'oggetto di sogno fino al punto da esprimere ciò che essa stessa ha creato. Il sogno, volendo meditare a fondo, é un evento straordinario perché ci fa capire tante cose. La mente crea gli eventi e, secondo i casi, con essi entra in rapporto di sofferenza, felicità o indifferenza; può sembrare strano, ma la gioia o la sofferenza, come i personaggi buoni o cattivi, li crea la mente, siamo noi gli artefici del tutto; eppure in tale molteplicità di eventi, persone, cose, ecc., esiste l'unità che é la mente, perché questa senz'altro é una; di mente non ne abbiamo due o tre. Possiamo ancora dire che se la mente é una, il suo oggetto é molteplice.

Se ci atteniamo a questa analogia, dobbiamo concludere che l'etere-jiva crea il vaso-corpo e in esso si incorpora, ovviamente con una parte di sé. Nella Bhagavadgita v'é un sutra che dice: "Un eterno frammento di Me, apparso come anima vivente nel mondo dei mortali...(Bhagavadgita)". Inoltre, si afferma che l'intero vaso universale é nato dal Mahat, il Grande, l'Intelligenza universale, per cui l'Essere, e solo Lui, può dire: l'universo non é altro che il Mio sogno: Plotino, soprattutto nella quarta Enneade, espone il principio che il mondo sensibile (il Quaggiù) é un prodotto dell'Anima, perciò possiamo da Quaggiù risalire al mondo intelligibile, là dove é la vera patria dell'Anima.

La parola frammento del sutra non si deve intendere nel senso che l'essere si scinde creando una frattura in se stesso; l'evento non é altro che uno specificarsi, l'irradiare un semplice aspetto, un riflesso dell'essere universale, non essendo esso una quantità, ma pura essenza priva di estensione. L'Essere-Uno e i molti non sono che due facce della stessa moneta, benché i molti siano dipendenti dall'Uno. In ogni atomo, in ogni molecola, in ogni cellula di materia vivono nascoste e operano, senza che altri se ne rendano conto, l'onniscienza dell'eterno e l'onnipotenza dell'infinito. (Teilhard de Chardin).


[...]
 

Inoltre, l'apparente molteplicità non é nata nel tempo sotto l'impulso di una progettazione, programmazione o deliberazione dell'Essere-Uno, come fa l'ente umano che, per eseguire un'opera, deve prima volere, poi ideare, infine materializzare. Nell'essere atemporale non v'é un prima e un poi, né un pensare discriminante per esprimere la molteplicità degli enti, ne quindi uno scopo prefissato. Quando si dice (come si legge in alcuni testi): L'Essere pensò e i molti emersero, quel pensò può essere fonte di equivoci poiché viene rapportato alla dimensione umana; già nel sogno noi abbiamo l'immediatezza dell'ente e dell'esistere dei dati proiettati, ovvero del soggetto e dell'oggetto; possiamo sostenere semplicemente che l'Essere Uno é atto puro nell'eterno presente.

Proponiamo la questione da un'altra angolazione: i vasi-corpi sono dei composti (secondo l'Upanisad citata), però il composto, qualunque esso sia, presuppone il semplice, o dal vaso all'etere, si scopre l'unità dell'essere. E poiché le anime particolari (jiva-psiche) sono della stessa natura dell'Essere Universale, in quanto suo irraggiamento, compito di tutti gli insegnamenti tradizionali é quello di risvegliare la consapevolezza animica all'identità con quello, o di riportare il riflesso coscenziale alla sua Fonte.

Ecco il riassunto della tesi: le anime derivano da una sola e queste molte anime, derivate da una sola, come l'intelligenza, sono divise e indivisi;l'Anima che sussiste é l'unica parola dell'intelligenza e da essa derivano parole particolari e immateriali, come é lassù (mondo intelligibile). (Plotino, Enneadi).

Dunque, non si può parlare di dualità assoluta, come non si può dire che il soggetto e l'oggetto di sogno sono dualità, nascendo essi dalla medesima matrice che é la mente, come la molteplicità universale nasce dalla stessa e unica matrice divina. Comunque, una dualità apparente potrebbe anche sussistere qualora, per esempio, nel sogno la mente dimenticasse che il soggetto e l'oggetto sono suoi prodotti, oppure, il che é lo stesso, si identificasse con il sogno duale fino al punto da oscurare se stessa. L'etere entro il vaso, per il suo libero arbitrio, può concepirsi totalmente vaso tanto da dimenticare d'essere etere e, nello stesso tempo, creatore del vaso.

Però, é pur sempre una dualità apparente; diremo che é una dualità prodotta dall'ignoranza (avidya. Si ripropone, come si può notare, il mito di Narciso o l'oblio di sé della dottrina platonica. Notiamo che così non c'é più un giusto rapporto tra causa ed effetto, tra etere e vaso; i valori vengono successivamente alterati e capovolti: un corretto rapporto tra sognatore e sogno avviene quando il sognatore riconosce prima di tutto la sua natura, poi la natura del sogno e quella del sognato (e la vidya, conoscenza tradizionale, cerca proprio di scoprire la natura profonda dell'essere più che quella del fenomeno); solo allora può rendersi conto della sua totale possibilità creativa di poter manifestare sogni notturni o diurni confacenti alla sua volontà o, addirittura di non sognare, essendo il sogno dipendente da lui, non lui dal sogno: l'effetto dipende dalla causa e non viceversa, abbiamo visto. Quindi, egli può risolvere qualunque sogno che ha potuto proiettare perché é suo e di nessun altro. Da quanto abbiamo esposto, possiamo concludere che esiste un solo etere onnipervadente (...) e molteplici vasi, di fogge, qualità e grandezze diverse; così, se guardiamo con l'occhio del vaso, perché identificarsi con esso, vediamo molteplicità, con tutte le conseguenze che ne derivano; se guardiamo con l'occhio dell'etere osserviamo l'unità, e solo l'unità, sia con gli eteri entro i vasi, sia con l'etere trascendente o fuori dei vasi.
 

 


 

Il documento che presentiamo ai nostri graditi Ospiti è opera d'ingegno di Raphael ed è tratto da:

"La triplice Via del Fuoco" di Raphael - Ed. Asram Vidya"

Ogni diritto è riconosciuto.

 

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