A cura di Massimo Marra



Una vasta e dimenticata produzione, quella alchimistica italiana che, tra il XVI ed il XVII sec. rinveniamo in una serie di opere a stampa, spesso neanche repertoriate nelle bibliografie internazionali.
Il libro della Cortese, per la molteplicità di edizioni note, è ben conosciuto, eppure relegato nel limbo di una produzione considerata minore, del cui valore sarebbe forse il caso di operare una rivalutazione.
Tra le poche donne alchimiste di cui sono note opere a stampa, in Italia, il caso di Isabella Cortese è emblematico. I suoi Secreti ebbero diverse ristampe, e conobbero diffusione indubbiamente maggiore, ad esempio, di quelli di un’altra alchimista italiana coeva, Floriana Canale (autrice, tra l’altro, anche di un raro trattato sugli esorcismi e gli scongiuri) o della traduzione del libro di Marie Meurdrac (La Chimica caritatevole e facile in favor delle Dame… Venetia 1682).
Già dal titolo, al contrario del libro della Meurdrac, il testo della Cortese non presenta una alchimia "…facile in favor delle dame" , ma si presenta tout-court come raccolta di Secreti, mutuando toni e tematiche dalla più criptica tradizione alchemica.
Nel recensire l’opera di cui ci occupiamo, John Ferguson annotava nella sua Bibliotheca Chemica ( 1906) "The authoress is called Cortesa, Cortese, Cortesi, but I have not met with any account of here".

A distanza di oltre 90 anni non possiamo aggiungere nulla in merito a quanto annotato da Ferguson, poiché, a tutt’oggi, non abbiamo notizie di sorta di Isabella Cortese.

Sappiamo che i Secreti , unica opera nota dell’autrice, conobbero ampia e duratura diffusione , dal momento che ci sono note dodici edizioni veneziane, stampate tra il 1561 ed il 1677, di cui solo cinque citate da Ferguson. Quest’ultimo annota anche l’esistenza di una traduzione tedesca (Verborgene heimliche Kunste und Wunderwerke in der Alchymie, Medicin und Chyrurgia Hamburg 1592, 1596 e Frankfurt 1596).
Ma la diffusione dei Secreti dovette essere capillare al di là delle eventuali traduzioni, poiché troviamo una lusinghiera citazione del libro nell’introduzione alle Douze Clefs de Philosophie de frere Basile Valentin…, l’edizione francese delle Dodici chiavi, edita nel 1660 da da Pierre Moet, e basata, come nota Eugene Canseliet nell’introduzione alla sua traduzione delle Dodici Chiavi, su di una precedente edizione del 1624, che il Moet riproduce integralmente semplicemente sostituendo la propria insegna a quella del precedente editore. Proprio nella prefazione aggiunta dall’editore Pierre Moet, e dedicata a quel famoso Digby (1603-1665) che fu alchimista, filosofo, viaggiatore, cancelliere alla corte inglese, corsaro e, probabilmente, spia, troviamo citato il testo della Cortese. Leggiamo infatti nell’introduzione del Moet " ….ay veu un livre Italien d’une Damoiselle qui s’appelle Dona Isabella Cortesi, qui a fait des vers in sa langue si bien faits, que je ne le puis oublier à vous les reciter en ce lieu……". Il Moet riporta i due sonetti tratti dall’opera della Cortese con notevoli errori di trascrizione, ma mostra comunque di apprezzare e conoscere l’opera.


Come molte opere pubblicate in Italia tra la seconda metà del ‘500 e tutto il XVII secolo, il libro, e per lo più occupato da una collezione di ricette e di rimedi per una immensa varietà di impieghi terapeutici e cosmetici, mescolati a ricette di alchimia minerale e metallica. Senza soluzione di continuità, troveremo nell’opera un continuo saltellare tra una ricetta per fabbricare l’oro, una per far drizzare il membro maschile ed una per rendere la pelle femminile bianca e vellutata. Analoga impostazione, del resto, troviamo in molti libri alchemici del periodo (basti pensare, un titolo fra tutti, ai Secreti di Don Alessio Piemontese, al secolo l’erudito e letterato Girolamo Ruscelli, con oltre una dozzina di edizioni in italiano e quasi una cinquantina di edizioni in latino, tedesco, francese ed inglese, oppure alle opere di Domenico Auda).

Una tale forma non deve però portarci a considerare con sufficienza il contenuto ermetico e simbolico delle opere, che spesso, confuse tra parti di contenuto metallurgico, cosmetico e farmaceutico, contengono esposizioni ermetiche e simboliche di originale fattura o direttamente mutuate ed adattate da testi classici di taglio filosofico ed ermetico. Sono proprio queste parti che, talvolta poste in apertura dell’opera, testimoniano, da parte degli autori, una precisa consapevolezza degli aspetti iniziatici della scienza di cui essi trattano. D’altronde è fuor di dubbio che è proprio il carattere di ricettari, di raccolta di secreti , a costituire il nocciolo del successo di tali libri, che stimolano il mercato sempre fiorente di speziali, medici, "soffiatori" e curiosi. Basta viceversa dare una rapida occhiata ai dati di pubblicazione delle opere in volgare (create quindi per un pubblico più vasto e non necessariamente di cultura accademica) per rendersi conto di come opere di taglio più scopertamente e dichiaratamente ermetico e simbolico, abbiano avuto ristampe ed impressioni assai meno frequenti.
D’altro canto, se il carattere di ricettari determinò in buona parte il successo presso i contemporanei, nel contempo determinò il pressoché totale stato di oblio presso i posteri. Questi, relegarono frettolosamente opere di taglio simile nel regno dell’infanzia della scienza, consegnandole ad un non meritato oblio.
Anche gli studi moderni sono, in merito al recupero di questo patrimonio testuale e storico, abbastanza avari.
In particolare, non siamo a conoscenza di alcuna riedizione moderna, né di alcuna citazione significativa del testo di Isabella Cortese, né tantomeno di alcun approfondimento critico od indagine storica in merito a questa alchimista.
Nel testo di Isabella Cortese troviamo una serie di topoi cari alla letteratura ermetico-alchemica, ed un esempio tipico può essere, il capitolo, in cui l’autrice proclama l’amara delusione maturata in trent’anni di fallimenti, e la propria avversione per le trappole dell’oscuro linguaggio alchemico (che tuttavia adopererà con dovizia crittografica e mano esperta). Secondo questo topos sono proprio le drammatiche esperienze di fallimento e le avversità subite a spingere l’autrice alla piana (si fa per dire) e caritatevole esposizione che sta per prendere avvio.

Analoghe considerazioni e dichiarazioni le troviamo in Flamel, nell’anonimo estensore della Lettera attribuita al Pontano, nel Sendivogio, in Bernardo Trevisano, e, secoli dopo, in apertura dell’Hermes Devoilé di Cyliani. L’alchimista che presenta il suo carico personale di peripezie e traversie, unitamente alla riprovazione per i sofismi e l’oscurità dei testi dei filosofi ed alchimisti precedenti ed accreditati, costituiscono una formula fissa che e tradizionale con cui gli alchimisti legittimano spesso la propria esposizione dottrinaria.
Altra formula fissa è quella dei consigli, autorevoli proprio in virtù delle peripezie attraversate, qui presentati nell’altrettanto tradizionale forma di decalogo.
Altro topos assai riconoscibile è poi quello del viandante (morto o comunque scomparso nel nulla) che lascia libri, lettere o carte illuminanti dietro di sé. Incontriamo questa topica in apertura del passo della Cortese sulla Pratica di Prete Benedetto da Vienna, che risulta indirizzata ad uno Stanislao di Cracovia.

 

Di seguito, abbiamo riportato, a beneficio dei nostri Ospiti, il testo integrale nell'edizione originale del 1588 edita in Venezia.
 

  VAI AL TESTO