© Claudio S.

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Ogni tanto spunta qualche fotografia dell'Arca, scattata sull'Ararat. Se si riuscisse effettivamente a dimostrare che le foto sono autentiche e che si riferiscono davvero alla biblica Arca di Noè, si realizzerebbero contemporaneamente due grandi scoperte:

  1. che l'Arca è effettivamente esistita;

  2. che il monte su cui approdò era l'Ararat.

Gli studiosi non sembrano del tutto convinti né di una cosa né dell'altra (ma, ovviamente, potrebbero aver torto). Per quanto riguarda il primo dubbio, non c'è molto da dire: tutto sembra rifarsi ad avvenimenti che, se avvennero, dovettero essere di portata limitata, poi ingigantiti dal mito e dalla fantasia. Un diluvio che porti un'Arca fin sull'Ararat è difficile da digerire; meno difficile è un'inondazione della Mesopotamia (e ce ne sono state, anche in tempi storici). Per il secondo aspetto, c'è da dire di più, soprattutto su quel nome "Ararat" su cui si parte a testa bassa.

Ma il plurale "monti dell'Ararat", ed il chiaro significato che ha questo nome in altri passi biblici, portano a pensare, con molta più verosimiglianza, che "l'Ararat" della Bibbia indichi un popolo che abitava le montagne a nord e ad est della Mesopotamia, e che è ben conosciuto agli studiosi del vicino Oriente antico: gli Urartei (da cui in seguito prese in effetti il nome il monte Ararat).

Vediamo infatti lo stesso termine "Ararat" nel secondo libro dei Re ed in Isaia, dove si dice che i figli del sovrano assiro Sennacherib "si rifugiarono nella terra di Ararat". Ed in Geremia ecco un'invocazione per far cadere Babilonia: "Chiamate contro di essi i regni dell'Ararat, di Menni (i Mannei) e di Askenaz (gli Sciti)".

È chiaro da questi passi che si voleva alludere ad un popolo, non ad un monte, e dunque il passo biblico "l'Arca si posò sui monti dell'Ararat", non significa altro che "l'Arca si posò sui monti abitati dagli Urartei"; un po' come se ci dicessero che i Longobardi avevano nascosto un tesoro nella Longobardia, o Lombardia che dir si voglia: inutile cercarlo solo a Milano o in quel di Pavia, perché il tesoro poteva essere a Spoleto o a Benevento, dove i Longobardi erano altrettanto bene installati.

A queste osservazioni si aggiungono altri dati non meno importanti. Come è ormai noto da tempo, sulla narrazione del diluvio biblico si possono fare due considerazioni, che sono poi due dati di fatto accertati dalla scienza e difficilmente discutibili:

  1. il racconto che troviamo nella Bibbia è frutto di due tradizioni diverse, mescolate insieme come un mazzo di carte, e la citazione "Ararat" è in quella più recente, cosiddetta "Sacerdotale" (VI sec. a.C.);

  2. esistono altri racconti che sono precedenti a quelli biblici, secondo un'antica tradizione da cui tutti hanno preso. Anche in questi racconti, infatti, ci sono dei particolari che nella Bibbia sono specifici e singolari, come la salvezza delle specie animali e l'invio degli uccelli.

Questi racconti, scritti uno in lingua sumerica, altri in assiro-babilonese, ed uno tardo in lingua greca un po' maccheronica, sono in parte più antichi della più antica delle due tradizioni bibliche, e dunque più prossimi alla realtà dei fatti, se mai questi fatti si verificarono. E sono anche più vicini ai luoghi in cui si sarebbero verificati; anzi ne sono coincidenti, essendo stati scritti e tramandati in Mesopotamia.

Uno di questi testi riporta anche il nome del monte su cui approdò l'Arca: in babilonese Nisir (con la "s" enfatica), altrimenti leggibile come Nimush. C'è da dire che questo testo risale ad un periodo che è posteriore a quello della più antica tradizione biblica, ma è sempre più antico di quell'altra, in cui è riportato il nome Ararat. E d'altronde la tradizione onomastica si è rivelata così ferrea nei testi mesopotamici lungo i millenni, che non a torto si può supporre che fosse lo stesso là dove manca perché i testi sono rovinati ed incomprensibili. Anche in questi, dunque, è verosimile che ci fosse lo stesso nome, anche se il tempo ne ha fatto sparire la lettura.

Vediamo, per convincerci, un esempio probante di tradizione onomastica: nel racconto sumero (XVIII secolo ma ricopiato da un altro precedente) il nome del protagonista (quello che nella Bibbia è chiamato Noah. "pace") è Ziusudra, che significa "I giorni della vita si sono allungati", a ricordo del fatto che l'eroe divenne immortale. Nel racconto assiro (VII secolo), cioè quello in cui si rivela il nome del monte (Nisir), il protagonista si chiama invece Um-napishtim: sembrerebbe diverso, ma si tratta della traduzione assiro-babilonese di Ziusudra, abbreviata perché i nomi assiri erano molto più lunghi di quelli sumeri: "I giorni della vita [si sono allungati]".

 

La traduzione dei passi riferiti possono essere consultati nella sezione dedicata:

I Diluvi

 

Veniamo ora al nome riportato nel racconto del diluvio tramandato da uno scrittore mesopotamico di epoca tarda, Beroso (dal semitico Berusur), che scrisse in pessimo greco una storia della Mesopotamia (III sec.). Ebbene, in Beroso il protagonista è Csisuthro (in altre fonti Sisithro): un nome che in greco non dice niente, ma che è l'evidente trasposizione dell'antico sumero Ziusudra. Se dunque constatiamo tanto attaccamento al nome del protagonista in lingue e periodi così diversi e lontani, è lecito supporre che altrettanto attaccamento ci fosse per il nome della sacra montagna, e che dunque questo nome fosse Nisir in tutti i racconti.

A questo punto il ragionamento è semplice: se nella Bibbia il nome porta piuttosto ad una generica denominazione di popolo, mentre i testi, che si rifanno alla stessa tradizione e che sono più vicini all'episodio nei tempi e nei luoghi, riportano un preciso nome di monte, è a questi ultimi che, semmai, dovremmo credere. Potremmo dunque dire, traendo dai testi mesopotamici ed aggiungendovi il dato biblico (autentico anche se, abbiamo visto, generico), che l'Arca si posò sul monte Nisir, un monte che si trovava tra le montagne del territorio abitato dagli Urartei.

Nasce comunque un altro problema: dov'era questo monte? A parte generiche e poco significative citazioni, ritroviamo fortunatamente questo nome nella narrazione di una spedizione assira del IX secolo a.C.. Poiché sappiamo quale fu la direzione della spedizione e la zona conquistata, è possibile collocare con sicurezza il monte appena ad est di Sulajmania, in Iraq. Pur ricorrendo, anche qui, ad una buona dose di fantasia, c'è da dire che è più logico che un'Arca sia finita da quelle parti risalendo la valle di uno degli affluenti del Tigri, piuttosto che su di un lontanissimo Ararat. E se l'episodio dell'Arca, come è probabile, non avvenne, è pur sempre più logico che sia stato immaginato in questa maniera.

Ci sono certo altre localizzazioni, ma generiche come quella della Bibbia. Ad esempio Beroso, che abbiamo appena nominato, localizza l'Arca sui monti dei Curdi "in Armenia". Era l'Armenia in cui si trova l'Ararat? Anche qui, ci sono dati contrari: ad esempio le Bibbie apocrife ed i rotoli del Mar Morto parlano di un monte Lubar, "una delle montagne dell'Ararat", e Lubar sembra corrispondere proprio alla zona conquistata dal re assiro, cioè gli Zagros di Sulejmenia.

Doveva trattarsi, allora, dell'estremo sud dell'Armenia, come d'altronde scrive, curiosamente, Marco Polo: "In questa grande Ermenia è l'Arca di Noè, in su una grande montagna, negli confini di mezzodì inverso lo levante, presso al reame che si chiama Mossul". Basta infatti guardare una carta geografica per vedere che a sud-est della "Armenia" e "presso il reame di Mossul" bene si presta la zona di Sulejmenia piuttosto che l'Ararat.

I dati portano dunque ad escludere decisamente l'Ararat. Ma nessuno è costretto a credere ciecamente ai dati: il sacro dubbio non deve mai abbandonare gli studiosi, sicché non si può escludere che i recenti scopritori della "Arca" abbiano ragione. Ma le prove devono esser sicure, solide ed inoppugnabili: di ennesime scoperte dell'Arca ne abbiamo pieni i fossi. Se si vuole che lo studioso rinunci ai dati scientifici, bisogna fargli toccare le cose con mano.

Non hanno dunque gran valore i dati recenti ed antichi sull'Ararat. Si dice che l'Arca vi sia stata fotografata da un pilota russo durante la prima guerra mondiale: peccato che quelle foto siano andate perdute al tempo della rivoluzione. Ma saranno mai esistite? E che valore hanno le dichiarazioni di una spedizione turca che ritenne di averla scoperta "confermando" le precedenti dichiarazioni di un pastorello del villaggio di Dogubayazid, che si trova ai piedi della grande montagna? O la dichiarazione di un arcidiacono di Gerusalemme e Babilonia, che cercava sull'Ararat le sorgenti dell'Eufrate? In tempi diversi (1876, 1893, 1916, 1941, 1942, senza contare almeno due casi recenti e quello del 1952 che è stato un pesce d'aprile) puntualmente le dichiarazioni si sono succedute.

Quasi altrettanto si deve dire per il monte Giudi, su cui approdò l'Arca secondo il Corano. Su alcuni recenti giornali si poteva leggere: "Abbiamo visto l'Arca di Noè, ma non sul monte Ararat. È stato scoperto sul monte Giudi un battello lungo 150 metri". E, stranamente, leggiamo anche su di un numero di "France-soir" del 1948: "Abbiamo visto l'Arca di Noè, ma non sul monte Ararat. È stato scoperto sul monte Giudi un battello lungo 150 metri". Peccato che la notizia moderna localizzi il Giudi non molto lontano dall'Ararat, mentre quella (identica) di quasi quarant'anni fa lo localizzasse "alla frontiera della Mesopotamia".

Dunque, se tanto dà tanto, preferiamo pensare al Nisir, o meglio pensare che gli antichi abitanti della Mesopotamia abbiano pensato al Nisir, anche se nulla ci fosse di vero nel mitico racconto del diluvio, che si è propagato fra i popoli e che tante volte ha ispirato un'arte, questa sì, vera: dai mosaici di Venezia e Monreale alla porta bronzea di San Zeno di Verona alle Stanze di Raffaello alla Sistina di Michelangelo.

È probabile che l'Arca non sia mai esistita, ma ciò non toglie che identificare il mitico monte della pace, là dove la leggenda ha voluto che una colomba portasse nel becco un ramoscello d'ulivo e che un personaggio di nome "Pace" stendesse con Dio un eterno patto di pace, aiuti a ricordarci quali siano i doveri di tutti i "fautori di pace" che, secondo il messaggio cristiano, sono i figli di Dio.

Anche per questo era già pronta una piccola ma significativa spedizione su quel monte, scientifica ma anche simbolica. Un'accurata ridecifrazione della spedizione del re assiro del IX secolo, eseguita presso l'Università di Heidelberg, ed uno studio sulla geografia del luogo sono stati pubblicati sulla rivista "Geo-Archeologia" come primo atto in preparazione del viaggio. Contemporaneamente, individuato il monte anche sulla base delle ipotesi di precedenti studiosi, era stato possibile osservarlo da foto dal satellite, grazie alla collaborazione dell'ENEA.

La Guerra del Golfo ha fermato questa ascesa fisica e spirituale; un nuovo episodio bellico ha impedito un'ulteriore invocazione alla pace, ricca di richiami millenari. Ne permangono le conseguenze: la questione curda ha fatto di questa zona un paese non facile da penetrare, e tutto deve essere rimandato sine die.

Ne rimangono intatti, comunque, l'intenzione ed il significato profondo: risalire quella montagna dove il mito, e sia pure solo il mito, ha voluto l'approdo dell'Arca, significa ritrovare le nostre origini pure. Anche se i testi mesopotamici e biblici danno, per l'Arca, delle misure che portano indiscutibilmente al parallelepipedo, in tante raffigurazioni ci appare arcuata come una barca, e ci riporta allora alla forma della culla, o meglio ancora, come diceva Jung, al seno materno, al galleggiare nel liquido amniotico ancora puri ed innocenti, come Noè/Ziusudra/Um-napishtim/Csisuthro, che non aveva peccato.

La purezza contenuta nell'Arca, immessa nelle acque come un uovo nel mondo, sembra contenuta in un cerchio sacro, che ha alla base la curvatura della nave, ed in alto il semicerchio divino divenuto il simbolo del patto: l'arcobaleno. Quali che siano le elucubrazioni e le interpretazioni simboliche ed esoteriche nelle tradizioni cristiane e rabbiniche, da Filone a Origene, da Sant'Ambrogio a Isidoro di Siviglia, da Sant'Agostino ad Ugo di San Vittore, viene comunque spontaneo paragonare l'Arca al cuore puro dell'uomo, che le passioni sospingono qua e là, come le acque del diluvio, ma puro rimane. Ed è il cuore in cui pulsa la vita, l'essenza stessa della vita perché lì, nell'Arca, pulsava la vita, si conservava il seme della vita, animale ed umana.

Non a caso il Noè mesopotamico fu reso immortale dagli dei, come è descritto nei racconti ed anche, abbiamo visto, come suggerisce il suo nome: Noè era divenuto il nuovo progenitore dell'umanità, il nuovo Adamo. E poiché tutti discendiamo da lui, ecco che lui vive in eterno, secondo la mentalità mesopotamica che riteneva immortale un uomo fintanto che vivevano i suoi discendenti.

Abbiamo dunque nell'Arca il messaggio di essere puri, dato che siamo nati dall'uomo che si era salvato perché puro, ed il messaggio di pace tra gli uomini, che scaturisce dal messaggio di pace con Dio. Se non è possibile rivivere questi messaggi nel mitico luogo del monte, nulla proibisce di ascendervi con il pensiero, se si possiede un ideale che non vien meno: proprio come l'Arca, che in una incisione del 1701 appare circondata da simboli massonici e sovrastata da una grande scritta: "Non mergitur, sed extollitur": "Non affonda, ma viene innalzata".


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