Lo scritto che segue è una delle dieci relazioni presentate al seminario di studi della Loggia Har Tzion Montesion sul tema: Gli Alberi dell'Eden,  svolto nei giorni 26 27 28 settembre del 2003 . L'elaborato costituisce un opera della maestria del Fratello. Il suo contenuto non riflette necessariamente la posizione della Loggia o del GOI. Ogni diritto è riconosciuto. 

© Massimo C.

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All’inizio dei tempi, quando il divino era percepito impersonalmente come una forza misteriosa diffusa nella natura, questi fu localizzato anche negli alberi, soprattutto in quelli di aspetto meno comune o straordinario.

L’uomo cercava di accrescere questa forza divina con operazioni magiche, in modo da far accumulare nella pianta la forza misteriosa, per poi utilizzarla a proprio vantaggio, per accrescerne la propria forza vitale.

Il mezzo più efficace per appropriarsi della forza divina accumulata nell’albero era quello di cibarsi dei suoi frutti; da qui per esempio derivò l’uso di versare l’olio sulle persone o sugli oggetti che si volevano consacrare.

Assai diffusa tra i Babilonesi, Iraniani, Indiani, Germani era la credenza della esistenza di un albero della vita che – secondo il Genesi (3,22) – era nel mezzo del Gan Eden, dal quale il Dio degli Ebrei cacciò l’uomo affinché non ne mangiasse divenendo in tal modo immortale (mentre, come approfondiremo più avanti, l’albero della conoscenza non ha profeti noti in altre tradizioni, risultando quindi un’invenzione della tradizione ebraica).

Approfondiamo dunque la ricerca nell’ambito della tradizione che più ci sta a cuore, quella ebraica, di questo simbolo così importante: l’albero, appunto.

Il paragone tra l’albero e l’uomo è un fenomeno diffusissimo anche nell’immaginario biblico (e non solo in quello, ma anche in altre culture). Lo scambio dei tratti albero/uomo è utilizzato, per esempio, nel caratterizzare il rigoglio e la buona sorte – viceversa – il declino e la sfortuna.

 

Così l’albero da frutto piantato in un luogo ricco di acque diviene metafora della prosperità in Genesi 49.22:

 

Ramo d’albero fruttifero è Giuseppe, ramo d’albero fruttifero vicino ad una fonte…

 

mentre il declinare della sorte o la sterilità sono paragonati al disseccarsi delle radici come in Giobbe 19.10:

 

Ho sradicato, come un albero, la mia speranza…

o in Isaia 56.3:

 

E non dica l’eunuco: ecco, io sono un albero secco…

 

mentre u 90 e x 70, significa in senso generale, sia "albero" sia "legno", una serie di nomi specifici denota in ebraico la pianta di maggiore importanza, che assumono un più forte valore simbolico per la loro importanza o per l’utilità dei loro prodotti.

Tra gli alberi da frutto, un ruolo dominante è riservato nella Bibbia all’olivo (zayit) il cui olio veniva usato non solo per l’alimentazione, ma anche per le funzioni sacre; il fico coi suoi frutti (téenah); la vite (gefen) immagine della prosperità e impiegata come simbolo di Israele; mentre il succo della melagrana (rimmon) è celebrato nel Cantico dei Cantici come bevanda prelibata.

Assai ricco è poi l’inventario degli alberi dotati di una forza sacrale in virtù del loro aspetto e della loro longevità: il terebinto (elah) di Sichem Genesi 35.4; allon (o elon) è invece la quercia, mentre (Eśel) è la tamerice.

L’idea di un culto dei patriarchi connesso agli alberi viene dunque espressa dagli autori biblici senza commenti negativi, sebbene nei testi storiografici e profetici che si riferiscono all’età monarchica gli atti di devozione legati alle piante siano giudicati con grande severità e rigettati come pratiche idolatriche.

Secondo il Deuteronomio, per esempio, gli ebrei, al momento di entrare in Canaan avrebbero dovuto cancellare ogni traccia degli altari e delle aree sacre legate alla vegetazione (Deuteronomio 12.2 e anche 16.21 Non piantare alcuna ascera ‘boschetti sacri, pali in legno, divinità femminile della fertilità’, alcun albero, accanto all’altare del Signore").

Gli alberi forse più celebri della Scrittura sono tuttavia quelli che compaiono nel racconto del giardino dell’Eden, di cui rappresentano un elemento narrativo centrale.

La fondazione del Gan Eden (giardino del piacere o delle delizie; è interessante notare che al femminile Eden diventa Ednah, ed è impiegato in Genesi 18.12 per indicare il piacere sessuale della donna, orgasmo) è voluta da Dio con ogni sorta di alberi piacevoli all’aspetto e buoni da mangiare, ma il vero fulcro della rappresentazione è costituito dall’albero della vita in mezzo al giardino e dall’albero della conoscenza del bene e del male (Genesi 2.9).

Le due pietre sono descritte con una formula che in ebraico è di laconica ambiguità: l’espressione che viene resa con l’italiano in mezzo è infatti, nell’originale, be-tok, letteralmente entro, e non ha quindi una distinta collocazione topografica, né risulta chiaro dal contesto se essa si riferisca solo all’albero della vite o ad entrambe le piante.

Questa menzione iniziale è del resto l’unica in cui gli alberi vengono citati insieme, giacché, nel prosieguo dell’episodio, sarà l’albero della conoscenza a occupare la scena, mentre quello della vite verrà nominato di nuovo solo nella chiusa.

Il racconto non indugia in nessun particolare dell’aspetto della pianta, ad eccezione della constatazione di Eva, secondo cui l’albero della conoscenza sarebbe stato buono a mangiarsi, piacevole agli occhi e desiderabile per avere la conoscenza (Genesi 3.6) (Questo per non rendere odioso quel tipo di pianta alle generazioni successive?).

In questa mancanza di definizione il rilievo simbolico è tutto affidato alle reazioni dei protagonisti e agli effetti dei frutti: quello dell’albero della conoscenza, che ha il potere di schiudere gli occhi, portando alla percezione della propria corporeità, e quello dell’albero della vita, che avrebbe l’effetto di far vivere in eterno.

L’intera vicenda è dunque condotta su un piano di forte astrazione e l’immagine delle due piante è costruita su una assenza di dettagli che le rende prive di rilievo mitologico o, meglio, funzionali ad una disadorna mitologia, che sfrutta il valore evocativo di concetti vulgati, come quello di albero della vita. Una lunga tradizione vicino-orientale (Egitto, Sumeri) aveva reso familiare l’idea di un albero della vita come una metafora di vitalità; e l’autore del passo biblico utilizzandola voleva riaffermare che una simile potenza vitale poteva essere prerogativa solamente del Dio impronunciabile.

Tratti più originali si ravvisano invece nell’invenzione dell’albero della conoscenza del bene e del male, che non ha paralleli noti nelle altre tradizioni antiche. Si è pensato che la determinazione del concetto di conoscenza con la coppia coordinata ţob (bene) e ragh (male), non sia che un’aggiunta retorica per meglio definire il concetto di conoscenza completa.

É comunque evidente che il suo frutto instaura la condizione umana e ha quindi un connotato temporale, che si pone a discriminante tra un prima improvvisamente inattuale e un dopo ben noto e sperimentabile.

Nei testi rabbinici di epoca tardo antica riaffacciò anche l’idea di un diretto antagonismo tra l’albero della vita e l’albero della conoscenza, nella quale il secondo assumeva i tratti di vero e proprio albero della morte. Fu però solamente più tardi, nel IX sec., che la locuzione ‘es mawet, albero della morte, venne messa esplicitamente in relazione con tale albero.

Nel Sepher ha-Bahir (il libro fulgido), (databile sec XII) questa pianta (albero della vita) viene descritta da Dio stesso come la pianta che rappresenta il tutto; l’ho chiamato tutto (kol) giacché da esso tutto dipende e da esso tutto deriva. Tutti ne hanno bisogno, lo scrutano e lo attendono: da esso si propagano le anime superiori in letizia.

All’invenzione di quest’albero identificato col tutto, l’autore del Sepher ha-Bahir voleva simboleggiare innanzitutto la pienezza delle forze divine che sono poste una dentro l’altra e assomigliano a un albero.

Il paragone con la pianta consentiva dunque di rappresentare il creato come organismo vivente, retto da un dinamismo occulto simile a quello della linfa nel mondo vegetale.

Per mantenere la propria vitalità, la struttura divina dell’emanazione doveva inoltre poter attingere a una fonte superna: come l’albero dà frutti grazie all’acqua, così il Santo (sia egli benedetto) accresce la forza dell’albero per mezzo dell’acqua. E che cos’è l’acqua del Santo? É la sapienza (H'ocmâ) e sono le anime superiori dei Tsaddîqîm (Giusti) (Sepher ha-Bahir 119 [85]).

Dietro questo paragone, che troviamo nel Sepher ha-Bahir, si concretizza – forze per la prima volta – l’immagine dell’albero delle Sephiroth, alimentato dalla sephirah della sapienza, la cui energia giunge di grado in grado fino al livello più basso rappresentato da Malcouth, la sephirah del regno.

La metafora dell’albero sephirotico – che diverrà abituale nella letteratura cabalistica successiva – al suo primo apparire è dunque ancora legata alla realtà fisica del mondo vegetale, come dimostrano anche ripetute osservazioni di Isacco il Cieco (mistico attivo nella Francia meridionale agli inizi del Duecento), e assai vicino alle posizioni teoretiche espresse nel Bahir.

Nel proprio commento al Sepher Yetzirah, Isacco adotta infatti l’albero come modello del mistero divino, equiparando il percorso esoterico a una sorta di studio della silenziosa e quasi invisibile struttura arborea: I sentieri meravigliosi sono come le cavità situate entro il midollo dell’albero, mentre la sapienza ne è la radice: si tratta di essenze sottili e interne, che nessuna creatura può comprendere, tranne chi assorbe da essa. La via della contemplazione è infatti un assorbire, e non un conoscere discorsivamente.

Per penetrare nei recessi della sapienza il cabalista deve farsi, egli stesso, simile a una pianta, rinunciando all’antagonismo con le cose, per immedesimarsi nel dominio del divino.

Alla fine del XIII secolo, nei testi classici della qabalah sefardita, l’icona dell’albero delle sephiroth si mostra già concettualmente assai sviluppata e costruita attorno a una fondamentale complementarietà tra l’albero della vita e quello della conoscenza.

Secondo l’autore del Sepher ha-Zohar (il libro dello splendore), per esempio, le due piante simboleggiano rispettivamente la Sephirâ della bellezza (Tiphereth) e quella del regno (Malcouth), – mentre l’albero da frutto (‘es peri) è poi usato per indicare la sephirah del fondamento (Yesod) –, ma servono anche per richiamare il più complesso disegno del dinamismo sephirotico e il digradare del divino verso il limite della materia.

Come l’albero della vita era entro il giardino, così Tiphereth occupa la posizione mediana dell’albero sephirotico irradiando da esso (centro) in tutte le direzioni.

Nello Zohar si insiste inoltre sulla corrispondenza tra l’albero della vita e l’astro diurno:

Vieni, guarda: l’albero della vita si estende dall’alto verso il basso ed è il sole che illumina tutto. Il suo splendore ha inizio in cima e si estende diritto per tutto il tronco; due lati si uniscono in esso uno a nord e uno a sud, uno a destra e uno a sinistra.

L’albero Tiphereth è pertanto, allo stesso tempo, pura potenza luminosa, struttura fitomorfa di dimensioni cosmiche e immagine dell’equilibrio tra le due direttrici fondamentali dell’emanazione: la destra che reca l’influsso della clemenza (H’esed) e la sinistra caratterizzata dal rigore (Guebourâ).

Complementare all’albero della vita (Eş Hayỷ’m) è poi quello della conoscenza, che ha carattere notturno e lunare, e quindi una funzione di semplice riflesso dell’energia che promana dal centro Tiphereth.

L’albero della conoscenza è così espressione della passività e del femminile, e viene anche definito l’albero della morte, per esprimere l’oscura adesione alle realtà inferiori, che caratterizza la sephirah Malcouth, di cui è simbolo (Malcouth = il regno, rappresenta l’organo femminile, l’utero).

Nello Zohar, la funzione specifica dell’albero notturno della conoscenza è quella di deposito temporaneo delle anime, che esso restituirà al sorgere dell’alba.

L’albero che scende verso la terra è quello che porta la luce diritta che procede da Dio, mentre l’albero che sale indica il percorso della luce che ritorna verso l’alto. In termini umani, l’albero che scende è l’albero della vita, mentre quello che sale è l’albero della morte e del ritorno al principio: in realtà si tratta della rappresentazione sdoppiata di due aspetti complementari (la discesa e la risalita) del diffondersi della luce divina, e i due alberi si fondono in un unico albero cosmico: quello appunto della vita e della morte.

La nozione di due alberi non si manifesta infatti, nella visione cabalistica, attraverso l’immagine speculare di due figure contrapposte, ma mediante un’unica figura che può essere letta in due sensi, come rappresentazione di un fluire verso il basso o un ritorno verso l’alto.

 

 

 

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