Il 29 gennaio del 1600 il Tribunale del S. Uffizio pronunciò la condanna a morte contro Giordano Bruno. Circa otto anni prima, il 12 settembre del 1592 il S. Uffizio aveva chiesto la sua estradizione da Venezia, dove, dopo lunghe peregrinazioni per l'Europa, egli era ospite del Mocenigo. La magistratura di Venezia dapprima procedette con dignità, negando l'estradizione. Ma alla fine dell'anno il nunzio tornò alla carica, facendo rilevare che Bruno, come eretico e forestiero, doveva essere consegnato al giudizio di Roma. Il 17 gennaio 1593 il tribunale veneto, per motivi di opportunità politica, cedette al volere papale, consegnando Bruno al nunzio pontificio...

Questo lavoro del carissimo Fratello G.B. Furiozzi è stato pubblicato sul numero 12 della rivista Hiram nell'Aprile 1983.

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© G.B. Furiozzi

 

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Il 29 gennaio del 1600 il Tribunale del S. Uffizio pronunciò la condanna a morte contro Giordano Bruno. Circa otto anni prima, il 12 settembre del 1592 il S. Uffizio aveva chiesto la sua estradizione da Venezia, dove, dopo lunghe peregrinazioni per l'Europa, egli era ospite del Mocenigo. La magistratura di Venezia dapprima procedette con dignità, negando l'estradizione. Ma alla fine dell'anno il nunzio tornò alla carica, facendo rilevare che Bruno, come eretico e forestiero, doveva essere consegnato al giudizio di Roma. Il 17 gennaio 1593 il tribunale veneto, per motivi di opportunità politica, cedette al volere papale, consegnando Bruno al nunzio pontificio.

Il 27 febbraio di quell'anno egli già si trovava chiuso nelle carceri del Tribunale del S. Uffizio di Roma, a cui erano stati mandati gli atti del processo veneto. Il nuovo processo durò ben sette anni. Che cosa sia avvenuto in così lungo tempo non si sa con esattezza, perché molti documenti, se non sono stati distrutti, si trovano nascosti negli archivi del Vaticano. Quello che è certo è che Giordano Bruno dinanzi agli inquisitori si dimostrò quello che realmente era: l'uomo che non ha debolezze per salvare la vita, il filosofo che non cerca di rinnegare la sua condotta e le sue convinzioni. Dalle testimonianze della sua condanna e dalle scarse relazioni che si hanno della sua morte, Bruno ne esce tutto d'un pezzo, fermo nel suo proposito di non smentirsi e di preferire una morte coraggiosa ad una vita imbelle. In passato aveva detto di sé che avrebbe disprezzato la morte, pur di proclamare “la religione della mente”.

Bruno fu giudicato da una Congregazione dell'Inquisizione composta da sette cardinali e otto teologi. Il teologo che su tutti primeggiò, quello al quale cardinali e teologi e perfino il papa si inchinavano, è Roberto Bellarmino. Egli aveva credito di persona infallibile e non ignorava nessuno degli espedienti dei teologi. Il suo nome compare sinistramente sia nel processo a Giordano Bruno che in quello a Galileo, cioè nei due più grandi processi che siano stati eretti contro la scienza nel secolo XVI e all'inizio del secolo XVII. Il Bellarmino esercitò nell'uno e nell'altro una specie di dittatura. Clemente VIII dipendeva da lui, così come dipendeva da lui Urbano VIII. La cosiddetta eresia copernicana è quasi interamente un parto del giudizio del teologo di Montepulciano. Il rogo che si innalza a Bruno nel 1600 è dovuto a questo teologo; a lui è dovuta anche la proibizione contro Galileo nel 1615.

Nel gennaio del 1599 furono raccolti i capi d'accusa, otto in tutto, ricavati dai processi di Napoli, di Roma, di Venezia e dalle opere, e gli furono intimati perché adducesse le sue discolpe. Ma, nonostante le insistenze del cardinale Bellarmino e degli altri inquisitori, che si recarono più volte al S. Uffizio per indurlo ad abiurare, Bruno si tenne fermo nelle sue convinzioni. Il 29 gennaio del 1600, come si è detto, il Tribunale del S. Uffizio pronunciò la condanna a morte. Il 9 febbraio, condotto nel convento di S. Maria della Minerva, gli fu letta la sentenza, e subito fu sconsacrato. Al cospetto dei suoi giudici, con volto sdegnoso e accento sicuro, pronunciò la famosa frase: “Voi certamente tremate nel pronunciare la mia condanna, più di quanto non tremi io nell'ascoltarla” .

Dopo di ciò, fu consegnato al magistrato secolare e condotto nel carcere pubblico di Tor di Nona. Gli furono concessi altri otto giorni, semmai avesse voluto ritrattare. Ma tutto fu vano, ed egli si mantenne coerente. Il 17 febbraio fu condotto in Campo dei Fiori, dove fu arso vivo. Affrontò la morte senza dar segno di timore. Questa fu la pena, disumana e atroce, con cui Giordano Bruno fu fatto morire, all'età di 48 anni, mentre Clemente VIII celebrava il giubileo del suo pontificato e distribuiva indulgenze urbi et orbi.

E stato notato che Socrate, almeno, (un altro grande martire del pensiero) aveva potuto passeggiare nel carcere, sciolto da catene, libero da strazi, discutere con gli amici, insegnare ai discepoli, prendere la cicuta e morire confortato dall'affetto e dalla stima. Il sacrificio di Bruno è preceduto dai più duri patimenti dell'anima e del corpo. Nella sua lunga prigionia non è confortato da visita di amico o da presenza di discepolo. Non vi è persona cara che lo accompagni al rogo.

La chiesa cattolica, non contenta di aver troncato in modo brutale l'esistenza di un tale uomo, ne fece spargere le ceneri ai venti, quasi per disperderne anche la memoria. E non tralasciò alcun mezzo per riuscirvi, incutendo le più gravi minacce a chi avesse voluto non solo ricordarne le dottrine, ma finanche farne il semplice nome. Così, si fece di tutto per cancellare la sua memoria dai registri dell'ordine di S. Domenico a cui egli, per sua sventura, aveva appartenuto, e perfino dalle Università e dalle accademie in cui, durante le sue peregrinazioni per l'Europa, aveva insegnato.

Bruno aveva profetizzato di sé che il tempo gli avrebbe reso giustizia e che il suo nome e la sua filosofia, maledetti e perseguitati dall'intolleranza dei suoi correligionari, sarebbero risorti. E non s'ingannò, perché essi furono ripresi dalla coscienza laica dei secoli successivi. E la prova più chiara ci viene data non solo dai monumenti eretti alla sua memoria e dalle vie e dalle piazze intitolate al suo nome, ma anche dalla fortuna delle sue opere, diventate oggetto, in Europa e nel mondo, di ammirazione e di studio.

Non è facile riassumere il pensiero di Bruno. Dai suoi scritti emerge una molteplicità d'interessi; interessi che tuttavia hanno una nota fondamentale comune: l'amore della vita nella sua potenza dionisiaca, nella sua infinita espansione. Quest'amore della vita gli rese insopportabile il chiostro, che egli chiamò in un sonetto “prigione angusta e nera” , e gli fece nutrire un odio inestinguibile per tutti quelli, pedanti, grammatici, accademici, aristotelici, che facevano della cultura una pura esercitazione libresca e distoglievano lo sguardo dalla natura e dalla vita. Lo stesso amore della vita lo spinse a rappresentare nel Candelaio, con realismo spregiudicato, l'ambiente napoletano dove aveva trascorso la giovinezza, fustigando nella commedia i pedanti, i creduloni e gli imbroglioni.

Dall'amore della vita nasce il suo interesse, il suo amore per la natura, che trovò spesso espressione nella forma poetica. Bruno considerò la natura tutta viva, tutta animata, e nell'intendere questa animazione universale, nel proiettare la vita nell'infinità dell'universo, pose il termine più alto del suo filosofare. Da qui la sua predilezione per la magia, che si fonda appunto sul presupposto del pampsichismo universale e voleva conquistare d'assalto la natura come si conquista un essere animato. Da qui, ancora, la sua predilezione per la mnemotecnica (o arte lulliana) che aveva l'aspirazione di prendere d'assalto il sapere e la scienza, d'impadronirsi del sapere con artifici mnemonici e di far progredire la scienza con una tecnica inventiva rapida e miracolosa, che sopravanzasse a grandi passi la metodica e la lenta ricerca scientifica.

La Bestia trionfante e l'Elogio dell'asino sono scritti di critica e di demolizione. Bruno vi mette a nudo e flagella la morale teologica diffusa da un falso cristianesimo, che predicava con la fede cieca e inconsapevole l'asinità, l'ignoranza, e che con la deificazione dell'agnello di Dio esaltava la pecoraggine, la pia rassegnazione, l'abdicazione della dignità umana; con gli ozi devoti, col celibato, con la fede senza le opere e le opere mistiche prive di ogni utile sociale, scalzava la famiglia, calpestava la libertà, negava la ragione e il lavoro produttivo e finiva col far prevalere quella moralità equivoca che i teologi esaltavano sotto il nome di perfezione cristiana e che riuscì così dannosa alla società.

Che cosa Giordano Bruno sostituisce ad essa? Negli Eroici furori egli espone una morale vivificante, forte, operosa, razionale, quale può offrire la scienza e lo studio della natura umana, che mira alla conquista della libertà e insegna la elevazione dell'animo. Dopo aver criticato e demolito le religioni delle chimere, dell'ignoranza e dell'ipocrisia, vuole gettare le basi della religione del pensiero e della scienza. Alle cosiddette perfezioni cristiane, cioè la rassegnazione, la pia devozione, la santa ignoranza, il brunismo vuole contrapporre l'intelligenza, il processo dell'intelligenza attraverso il mondo fisico, metafisico e morale. La vera morale, che consiste nell'essere giusto, la vera redenzione come liberazione dell'anima dagli errori, la beatitudine come elevazione e unione con Dio, sulle ali del pensiero (quello che Spinoza, nel secolo successivo, chiamerà Amor Dei intellectualis).

 Il pensiero di G.B. non può essere scisso dalla sua vicenda personale, dalla sua tragica fine. Un corrispondente di Keplero (che apprezzava l'opera di Bruno) gli confessava, nel 1608, di non essersi saputo dare ragione della fine del filosofo: dal momento che non credeva più in un Dio di giustizia, distributore supremo di pene e di premi nell'al di là, perché sopportare tanti patimenti soltanto per difendere la verità? Era una domanda grave, che ci fa pensare al diverso comportamento di Galileo e che ci ripropone il problema del significato di tutta la cultura del Rinascimento, di cui G. Bruno costituisce, insieme, il culmine e l'epilogo. Proprio rifiutandosi di rinnegare le proprie idee, lui che non credeva più nelle tavole tradizionali dei valori, si faceva martire e confessore di altri valori e di un altro modo di concepire la vita. Egli, come altri uomini del Rinascimento, aveva affermato che la dignità dell'uomo, la sua nobiltà, il suo significato, dipendono dal suo agire; che il premio dell'azione è nel senso dell'azione, nella sua fecondità, in quello che l'azione dà per se stessa. Ma questa concezione della vita, che rompeva con una vecchia morale, non significava rifiuto divincoli morali: significava una morale nuova e più rigorosa, una responsabilità più profonda.

Proprio quello che l'amico di Keplero non capiva nel gesto di Bruno costituiva la maggiore conquista di una civiltà di cui la fermezza del filosofo diventava il simbolo. Ma Bruno significa anche un'altra conquista: l'uomo restituito a se stesso, reso padrone della propria sorte; divenuto centro consapevole del proprio mondo, riconosce la grandezza e il significato della natura, dell'universo fisico che lo circonda; ne comprende l'immensità, le forze inesauribili, le forme infinite, l'estensione senza barriere. Rompe l'immagine casalinga di un mondo simile a una grande casa, fasciata e chiusa da sfere cristalline e immutabili. Liberato da una falsa concezione del divino, proprio nel punto in cui conquista l'autonomia morale, l'uomo ha il coraggio di liberarsi da una visione primitiva del mondo; sa che egli non è il centro fisico dell'universo, anche se si accorge della potenza della propria ragione e delle proprie capacità. Per paradossale che possa sembrare, nel punto in cui il pensiero umano afferma la sua centralità nel mondo morale, distrugge la veduta puerile dell'antropomorfismo fisico attraverso la distruzione del geocentrismo. E ne nasce quella concezione del mondo fisico e del mondo morale che è stata caratteristica del mondo moderno, e che ha significato una doppia liberazione: dalle superstizioni prima e dai servaggi poi, sul terreno etico-politico; dalla soggezione alla natura, che non può essere dominata se non è affrontata “scientificamente”.

Orbene, colui che trasformò l'ipotesi eliocentrica copernicana in una solenne concezione liberatrice, avanzando l'idea di mondi infiniti, di spazi senza confini; chi affrontò impavido l'idea dell'infinito universo e degli infiniti mondi, fu ancora Giordano Bruno. Come la lotta contro la “bestia trionfante” del mito e della superstizione libera l'umanità sul piano morale e la restituisce integra a se stessa, così l'interpretazione dell'ipotesi astronomica di Copernico come concezione liberatrice della natura universale, libera la mente da quell'antica barriera che le impediva di affrontare la natura com'è, senza timori, per esplorarla e trasformarla.

Entro questa visione del mondo, matura una precisa concezione morale che fa corpo con essa, e che si articola in due momenti:

 

1- La liberazione dal vizio e dalla superstizione (fra loro indissolubili);

2- La conquista della virtù e della verità, indissolubili anch'esse. “La verità - scrisse - è la cosa più sicura, più divina di tutte” .

La sua è un'etica dell'operosità, un elogio congiunto del lavoro manuale e di quello intellettuale. “L'uomo – scrisse ancora - non contempli senza azione e non operi senza contemplazione”. Soprattutto negli Eroici furori si accentua la visione dell'infinito e la celebrazione dello sforzo che l'uomo fa per oltrepassare “eroicamente” tutti i limiti e tutti i confini. Che era un modo di sottolineare in forme poetiche l'inarrestabile slancio umano, oltre tutte le posizioni raggiunte, per la supremazia della verità.

Egli sta contro tutto il Medio Evo e lo scrolla dai cardini. Insegna che non vi è che un solo cielo, uno spazio infinito entro cui tutte le cose si muovono. In questo spazio sconfinato sfavillano innumerevoli stelle, folgoranti soli, anzi, sistemi di soli, poiché ogni sole, dice Bruno, è circondato di pianeti che egli, a somiglianza del nostro, chiama terre. Non vi sono che soli e terre e la ragione per cui vediamo soltanto i soli è la lontananza che ci impedisce di vedere le terre opache. Tutti i movimenti nello spazio sono relativi; nessuna stella si trova al centro dell'universo, ma ognuna è centro del suo cielo nel suo sistema. In questo senso vi sono cieli innumerevoli. Non si dà un “sopra” e un “sotto” se non in senso relativo. Dicasi lo stesso della leggerezza e della gravità. Nessun corpo è in sé pesante, ma solo in rapporto al suo centro di attrazione.

Bruno ha un presentimento della gravitazione universale nella seguente affermazione: i corpi si muovono liberamente nello spazio e si mantengono nella loro reciproca posizione grazie alla forza di attrazione.

I soli si muovono attorno al loro asse, e oltre questo si ha un movimento nello spazio. Dal Cusano, Bruno conosce le macchie solari. Prima del Tycho Brahe, ricava dal movimento delle comete la prova che non esistono sfere fisse, alle quali stiano appiccicati i piani e meno ancora che si tratti di sfere di cristallo. Il mondo di Bruno è il mondo reale, come lo conosce la scienza contemporanea. Non sarà mai dimenticato che egli fu il primo che comprese la vera costituzione del cosmo.

La sua concezione dell'infinito rovescia la concezione geocentrica della Chiesa e sviluppa la concezione eliocentrica di Copernico. La personalità morale di Bruno s'intravede in questa risolutezza nel giungere alle conclusioni estreme. Dove il cauto astronomo trovava un limite o una barriera, egli non si arresta. Bruno non ha le positive cautele degli scienziati di mestiere, pieno com'è del convincimento del potere sterminato della ragione. Se Copernico si accontenta di rivoluzionare il sistema del nostro sole, egli non capisce perché non si debba andare più in là.

Il Nostro, nella teologia proclamò il panteismo. Nella cosmologia intuì l'infinità dello spazio. Nell'astronomia sostituì il sistema eliocentrico a quello geocentrico. Nella biologia affermò l'esistenza della vita in tutta la natura. Nella psicologia dimostrò il pampsichismo, cioè l'animismo universale. Nell'etica gettò le fondamenta di una morale positiva, areligiosa e indipendente, sostenendo che tutto l'universo è pervaso da una teleologia immanente, per cui si perfeziona e si migliora ogni cosa, la natura essendo causa, legge e finalità a se stessa.

Distruttore dei pregiudizi dei suoi tempi, egli – soprattutto - ricostruì la scienza e la filosofia della natura; distrusse le antitesi nella metafisica, nella filosofia e nella scienza. Combattè l'antitesi tra la forma e la materia, sostenuta dai filosofi dualisti. Combattè l'antitesi tra il cielo e la terra, sostenendo l'unità del cielo e della terra, la teoria geocentrica e l'ipotesi della pluralità dei mondi. Combattè l'antitesi tra lo spirito e la materia, tra l'anima e il corpo, tra il senso e l'intelletto, sostenuta dagli psicologi dualisti, conciliando questi termini, creduti contraddittori, e sostenendo l'unità dello spirito e della materia, l'inseparabilità dell'anima e del corpo e l'identità del senso e dell'intelletto.

Contro le antitesi tra la causalità cosmica e la volontà divina, tra la necessità naturale e la libertà morale, tra la finalità trascendente e la finalità immanente, tra il bene ed il male, si sforzò di conciliare tutte queste antinomie, riportando i contrari all'unità assoluta, dove tutte le differenze restano eliminate. Contro il dualismo tra Dio e la Natura, sostenne che Dio non è una causa esteriore al mondo, ma un artista interiore, un principio efficiente, informativo dal di dentro. L'erroneo concetto del cristianesimo aveva scisso Dio dalla Natura, segregato la Natura dall'uomo. La Natura era decaduta, maledetta, asilo di demoni, di spiriti malvagi. L'unità nell'infinito o nell'immenso è il concetto fondamentale del brunismo. L'infinito non solo risplende nella massima esplicazione dell'universo, ma anche nell'opposto limite, cioè nella complicazione del minimo elemento, nella monade. In tutto c'è vita. L'universo è contenuto in potenza nella monade, così come nell'individuo è contenuta la specie, la nazione, l'umanità.

Bruno è stato spesso visto dai clericali quasi come un Anticristo. Ora, occorre dire chiaro che Bruno criticò la Chiesa e il clero del suo tempo, scardinò molti dei dogmi del cristianesimo, ma non fu maestro di irreligiosità. Per lui ogni parte, anche minuscola, dell'universo, è la divinità stessa. L'universo si confonde con la sostanza, cioè con Dio. La conoscenza del divino è razionale, cioè si giunge ad essa con la nostra ragione, ed è questa la forma più perfetta per conoscere la divinità. Ma negli Eroici furori egli spiega che la divinità si conosce in due modi: per via di ragione e per contatto mistico. Bruno naturalmente dà dignità solo alla prima maniera. Coloro che conoscono Dio per contatto mistico - dice - sono simili “all’asino che porta i sacramenti”. Conoscono il vero, ma non c'è merito.

Vi sono per lui due modi di conoscere: quello che dà la filosofia e quello che dà la religione. Bruno sceglie per sé il primo, ma non rigetta il secondo. Nel De Umbris idearum dice che “la religione è l'ombra della verità, ma non è il contrario della verità”. E una conoscenza incerta, pallida, dubbia, una conoscenza contraddittoria e scura, che non dà pieno affidamento, ma comunque è un grado della verità: il più basso, se si vuole, ma sempre della verità. L'ombra è un invito a passare nella luce. La religione deve intendersi come un invito ad assurgere alla filosofia.

L'essenziale, per Bruno, non è la religione, ma la morale. Una morale senza dogmi (come è stata giustamente definita), che elimina la necessità di una educazione ecclesiastica. Che mira alla liberazione mercé lo sforzo e la volontà individuale. La filosofia bruniana è una filosofia dell'eroismo, diretta a liberare gli uomini dalla paura. Quando la paura - afferma - sia caduta dal nostro animo, noi siamo veramente uomini, parte consapevole, cioè, dell'infinito.

Quale è stata la “fortuna” di Giordano Bruno nel corso dei secoli? Nonostante gli sforzi fatti dalla chiesa cattolica per farlo dimenticare, la sua opera fu conosciuta nel corso del Seicento e del Settecento. Ma fu nell'Ottocento che esplose la sua grandezza. In Italia egli divenne una delle figure più care agli uomini del Risorgimento. Nei contrasti con la chiesa egli assurse a simbolo di libertà. Se filosofi e storici frugarono archivi, riportarono alla luce documenti, promossero edizioni delle opere, la sua vicenda tragica ispirò romanzi e drammi, commosse tutti, propose alla coscienza comune problemi gravi e conturbanti. I suoi scritti si stamparono in edizioni per il popolo spesso scorrette, ma significative. Accanto alle biografie eruditissime, fiorirono le vite popolari.

Bruno fu al centro della polemica anticlericale. A lui si inchinarono vessilli massonici e bandiere democratiche e repubblicane. Il 9 giugno 1899, l'inaugurazione del suo monumento a Roma, in Campo dei Fiori, fu un fatto politico nazionale. Intorno al monumento ideato dal Gran Maestro Ettore Ferrari, intorno alla lapide dettata dal filosofo del radicalismo Giovanni Bovio, convennero tutti i rappresentanti della politica e della cultura italiana. Il positivismo fu presente attraverso l'oratore ufficiale Gaetano Trezza e il senatore Moleschott. Oltre mille labari massonici garrirono al vento; tutte le Università italiane portarono il loro omaggio; i vessilli delle società operaie si alternarono agli stemmi dei municipi; Ernesto Renan inviò da Parigi il suo telegramma di adesione.

 Il corteo si snodò da Piazza Esedra al centro di Roma, al suono degli Inni di Garibaldi, di Mameli e della Marsigliese. Il sindaco Guiccioli esaltò “il trionfo dell'ideale” ed assunse il solenne impegno di sottrarre la statua a tutti gli sfregi e a tutte le provocazioni clericali. Un contemporaneo racconta che in quello stesso giorno “il papa era tutto il di in abiti pontificiali: nella sua cappella era esposto il santissimo, come se il popolaccio dovesse invadere da un momento all'altro il Vaticano per assassinarlo. Attorno a lui era riunita una parte del corpo diplomatico: l'ambasciatore di Francia, fra gli altri, quasi a sua difesa”.

Negli anni successivi presero il nome da Giordano Bruno giornali, numeri unici, periodici anticlericali, circoli e leghe. Per alcuni decenni il grande pensatore e le sue opere furono quasi sommersi dalla raffigurazione del martire del libero pensiero, divenuto bandiera non solo di gruppi ben definiti, ma di una parte cospicua dell'Italia risorgimentale e post risorgimentale, senza distinzione di sètte.

Non furono insomma, come spesso si é detto, solo massoni e anticlericali a parlare di lui. Meditarono sulle sue pagine anche Vincenzo Gioberti, Bertrando Spaventa, Pasquale Villari, Antonio Labriola, Roberto Ardigò. Nessun pensatore italiano di qualche rilievo lo ignorò, pur nelle diverse e contrastanti tendenze. Idealisti, positivisti, materialisti, trovarono in lui spunti e motivi di riflessione. Né la “scoperta” di Bruno, del pensatore come dell'uomo, fu un fatto soltanto italiano.

Se l'Italia sembrò quasi voler riscattare una colpa, i Paesi che lo avevano accolto esule tornarono a studiarlo con amore: la Germania innanzitutto, e poi l'Inghilterra e la Francia. E paesi più lontani, come la Russia, dove sono stati largamente diffusi i Dialoghi, dove il Candelaio é stato

rappresentato sulle scene e dove il filosofo é stato l'eroe di una tragedia e il protagonista di un film.

A quasi quattro secoli di distanza è ancora vivo, in Italia e nel mondo civile, il ricordo dello scempio con cui l'intolleranza della chiesa cattolica cercò di soffocare il libero pensiero, filosofico e scientifico, allora appena nascente, impedendo lo spirito di ricerca e di riflessione mediante il terrore dell'Inquisizione e il fuoco divoratore dei roghi. E ancora vivo il ricordo di una scelleratezza consumata dai seguaci di una religione che avrebbe dovuto essere di amore e di perdono, e non di odio e di sangue, come invece fu per molti secoli.

Il messaggio di Giordano Bruno resta di un'attualità sorprendente. Un messaggio che ci riporta ancora e sempre al più essenziale dei problemi, quello di difendere la libertà certamente più antica, più autentica, più sacra: la libertà di pensare. Attuale resta soprattutto il valore della sua testimonianza di vita, in un'epoca - come quella nostra - in cui la prepotenza sembra essere tornata a togliere alla saggezza la prerogativa di determinare liberamente il divenire dell'umanità.

Giordano Bruno rappresenta una posizione eterna dello spirito. Posizione non solo moralmente elevatissima, ma storicamente imponente, giacche chiude in modo irrevocabile le porte del Medio Evo e colpisce a morte la Controriforma. Il pensiero acquista con lui quella piena e perfetta autonomia che é condizione assoluta perché esso sia veramente pensiero, perché ponga e intenda se stesso, perché ponga e intenda (nella sua assolutezza) il mondo e i suoi valori.

Questo significa ed é Giordano Bruno. Si spiega così la sua simbolizzazione ideale, l'assunzione cioè del suo nome come segno di ogni rivendicazione, di ogni libertà, di ogni diritto della vita e del pensiero, contro ogni tentativo di ritorno del Medio Evo sotto qualsiasi forma. Possiamo far dunque nostre le parole con cui Arturo Labriola, all'inizio del secolo, concludeva una sua appassionata commemorazione del grande Nolano: “La civiltà avrà cancellato la vergogna del 17 febbraio 1600 solo quando l'amore per la verità, che condusse Bruno al patibolo, avrà diradato le tenebre fra le quali erra ancora l'anima delle masse”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Musica: "Orientis Partibus" (Carmina Burana secolo XIII)