ORATIO CONSOLATORIA

IORDANI BRUNI NOLANI

 

HABITA IN ILLUSTRI

CELEBERRIMAQUE ACADEMIA GIULIA, IN FINE

SOLEMNISSIMARUM EXEQUIARUM IN OBITUM ILLUSTRISSIMI POTENTISSIMIQUE PRINCIPIS IULII, DUCIS BRUNSVICENSIUM, LUNAEBURGENSIUM ETC.

 

PRIMA MENSIS IULII ANNI MDLXXXIX

 

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ORAZIONE CONSOLATORIA

DI GIORDANO BRUNO DI NOLA

DOTTORE ITALIANO

 

PRONUNZIATA NELL’ILLUSTRE E CELEBERRIMA ACCADEMIA GIULIA, ALLA FINE

DELLE SOLENNISSIME ESEQUIE PER L’ILLUSTRISSIMO E POTENTISSIMO

PRINCIPE GIULIO DUCA DL BRUNSWICK E LUNEBURG ECC.

 

IL PRIMO DI LUGLIO 1589

 

 

 

 

ORAZIONE

Magnificentissimo, reverendissimo, eccellentissimo signor Prorettore; amplissimo senato di dottori e maestri insigniti d’ogni genere di virtù e di dottrina; e nobilissima, ingegnosissima, coltissima corona di studenti: quel che mi turba con inquietudine grandissima e ansioso affanno è che sommamente io temo non forse alcuno, meno informato della libertà e semplicità della mia indole, ciò stesso pesando su una bilancia di giudizio troppo leggera, interpreti nel senso peggiore il fatto che io, straniero, sconosciuto, che ho per precipuo fine della dimora tra voi viver appartato e celato, di mia spontanea volontà, non ricevuto da nessuno che si veda nè esortato, volontariamente mi mescoli ai vostri lutti e acceda al vostro quasi simposio tragico senza esservi stato affatto chiamato; e sùbito dopo temo che voi sospettiate sia sintomo ed effetto di audacia e temerità che, dopo oratori di così eccellente eloquenza e insigni nell’arte del dire, e dopo aver udito, dico, l’amenissima e dolcissima, sebbene lugubre armonia, quasi aggiungendo un’appendice, io m’intruda a far, per così dire, stomaco, con questo mio crudo e indigesto modo di parlare, a orecchie e palati più delicati. Sarebbe certo convenuto che, dopo gustati, in germanica e latina facondia, i torrenti di quelli, dal cui aureo fonte di potente ingegno avete visto ubertosissimamente sgorgare quelle correnti, e i cui petti facilmente avrei giudicato essere i triclini delle Càriti, sarebbe convenuto, dico, che qualche nobile Tullio fosse risorto dall’Italia per intervenire, opportunamente o ìmportunamente, quale oratore, a così grande solennità funebre, così come vedete che ai padri stessi dell’eloquenza defunti in Italia, Grecia ed Egitto o viventi in questa Accademia, mi son accostato io, uomo interamente alieno da studio di discorso elegante, balbettando in questo ispido, insoave, magro, non piacevole stile, al quale sembrate chiedere donde io venga, che cosa rechi di nuovo, quali parti io faccia. Di che se desiderate udire la discolpa, la causa, il principio e la fine, io vi prego, fate attenzione.

Per cominciare dal principio, ascoltatori celeberrimì, penso che non dal caso, ma da qualche provvidenza sia stato fatto in modo ch’io fossi spinto, non so da qual vento o tempesta, verso questa regione, in questi giorni, onde io intervenissi al funerale di Sua Altezza l’eminentissimo, potentissimo e famosissimo vostro principe. Vidi tutti i gradi dell’umana civiltà in abito lugubre, volto luttuoso, languido incesso, aggravati dai segni d’un animo piegato e dimesso, principi eroi, conti, baroni, uomini generosi, nobili, senatori, cittadini, plebei. Indi le arti tutte, e le celebri facoltà, e le virtù, la Religione, il Diritto Sacro, la Teologia, le leggi civili, la Medicina, la Poesia, la facoltà Oratoria e altre che son credute moltissimo conferire alla cultura dell’ingegno e alla perfezione dell’umana conversazione: le quali, tutte e ciascuna, aveva lasciato vedovate della sua presenza dolcissima e desiderabilissima il loro creatore, nutritore, promotore e difensore illustrissimo, rinomatissimo in tutta Europa (che è la più colta parte del mondo), il famoso principe Giulio, ora chiamato al cielo. Qui non m’accadde nè di vedere nè di udir cosa aliena da umano stato. Anzi, notai quel mirabile culto della presente generazione, culto insigne al disopra di quel che gli stranieri possano credere, verso il proprio principe e signore, e l’osservanza, e i segni d’ossequentissimo affetto. Le gravissime ragioni di tal officio io udii da dottissimi teologi e storici dimostrate e su la base di entrambi i testamenti non solo con l’antica consuetudine di generazioni e popoli civili, ma anche con la conferma di un divino uso e colla sanzione d’antica religione. E ammirevole come tutti si siano comportati bene e, secondo le forze loro, accuratissimamente nella premura di adempire la loro funzione. Allora, non so se io, considerando tra me stesso, dissi, o se qualche peregrino spirito alle mie orecchie dal più intimo susurrò: “Non vedi tu, ospite italiano, come tutti coloro dei quali l’ottimo principe bene meritò, secondo la parte di solennità e dell’estremo e possibile officio che son tenuti a prestargli, esprimono ed effondono il massimo delle proprie premure?  Tu perché sogni? perché ozii? perché rimani torpido? perché indugi a considerare tu stesso anche lo stato tuo, e ad accorgerti come a te convenga non meno che ad ogni altro assolvere quel compito che certo con ogni ragione s’esige da te fra i primi, cioè che, qualunque omaggio tu veda prestato da altri, devi prestarlo anche tu? Tu dici: Son forestiero ed estraneo. Ma perché dici così, o Nolano? Anzi, proprio per questa ragione ti si richiede da parte d’ogni legge che tu faccia il lavoro tuo: per la ragione che sei forestiero e non appartieni a nessun ordine e di nessuno sei membro.  O ignori che fu si grande lo splendore, fra le altre virtù, della generosissima e sovrumana umanità dell’illustrissimo principe Giulio, che egli decretò, ordinò e sancì che in questa Accademia Giulia non solo non fossero tenuti, ma realmente non fossero forestieri ed estranei coloro dei quali è possibile una conversazione onesta, e la cui professione o studio concerna le Muse e le ottime discipline? O non badò soprattutto che ogni buona arte e scienza, che possa essere d’utilità all’uman genere, o sia scalino alla divina cognizione e culto, o almeno non alieni da essa, avesse a sentirsi in questo luogo cittadina, patrizia e dimestica? in questo luogo dove nient’altro volle fosse stimato per forestiero ed estraneo (il che anche desiderò vivamente rimanesse lontanissimo ed esulasse) all’infuori della turpe ignoranza, della fiera barbarie e della ciclopica inospitalità: il che voglia Dio gli riesca pienamente io perpetuo secondo il voto, affinché in nessun luogo quella getica selvatichezza sia venduta per gravità, e una forma di neghittosa ignoranza sotto il nome di dottrina. Richiàmati dunque in mente, richiàmati in mente, o Italiano, la tua condizione di esule dalla patria per le onorate tue ragioni e studi e per la verità, mentre qui sei cittadino. Lì esposto alla gola e alla voracità del lupo romano, mentre qui sei libero. Lì costretto a culto superstizioso e insanissimo, qui esortato a riti riformati. Là morto per violenza di tiranni, qua vivo per l’amabilità e la giustizia d’ottimo principe e, in quanto ti rendi e ti mostri capace, anche coperto d’offici e d’onori, almeno secondo i suoi voti e la sua intenzione. Giacché quelle Muse che, per ordine di natura, per diritto delle genti e per civili leggi non immeritamente libere, sono invece, in Italia e in Spagna, conculcate dai piedi di vili preti, in Francia patiscono per guerra civile rischi estremi, da flutti frequenti sono scosse in Belgio, e in talune regioni di Germania infelicissimamente languono, qui si rafforzano, si ergono, vivono tranquillissimamente, e in compagnia di quelli che le amano ottimamente fioriscono secondo la volontà del principe. A lui, dunque, tu devi dimostrar gratitudine come al tuo vero principe, sostenitore e fautore, sotto il quale non esule, non coatto, non punto e trafitto dagli aculei d’infernal paura, bensì vivi da cittadino, libero e sicuro. Compi dunque, fa’ di compiere con alacre diligenza ed efficacia, la maggior che tu possa, la mansione che t’incombe: questo infatti, con nota di gravissima e bruttissima infamia (per l’ingratitudine) se mai tu l’ometta, questo ingiungono a te forestiero le Muse forestiere che qui, nel nome d’esse tutte, almeno nel funebre ossequio al carissimo principe, tu faccia se non quanto tu devi per loro e per lui, almeno quanto con le tue forze puoi. Vogliono infatti che tu certissimamente ti persuada che, qualunque e di qualunque importanza sia per essere l’omaggio tuo e derivato da buon affetto dell’animo, non può non esser accolto per graditissimo da quell’immortale e divino Genio del magnanimo principe, quando veda e comprenda che il proprio voto, la propria idea, il proprio favore è gradito dagli esterni così come da Sua Altezza graziosissimamente fu a loro e a tutti gli altri offerto e concesso. a Da ciò più chiaramente, ascoltatori dottissimi, potete intendere da quali pensieri non solo mosso, sì anche spinto e costretto, io forestiero, per la mia parte, mi sono presentato, non come parte, ma come qualcosa che di fuori s’aggiungesse.  Ciò che poi veramente urge, ed è non immeritamente rimproverato al mio umilissimo e incoltissimo modo di parlare, che cioè, dopo gli eloquentissimi rètori ed oratori che m’han preceduto, mi presenti, di mia volontà, io crassissimo, tardissimo d’ingegno e povero di dottrina e di lingua, io vi prego non turbi troppo voi ascoltatori, e cioè non l’ascriviate a temerità, arroganza e insolenza d’animo. Nè son giunto a tal punto di stoltezza da ignorare perfino ciò eh’è vero, che da me non può esser addotto nulla, non dico di meglio, o eguale, ma nemmeno di simile alle vostre candidissime e luculentissime Muse; e perciò non ho osato le mie inezie alla cultura e splendore loro quasi mescolare o render consorti. E certo anche facilmente voi potete vedere come ora al sepolcro di questo Dafni divino, al modo che già a quell’altro Dafni del quale parla il mantovano poeta, ((son venuti i tardi bifolchi “. Così, dopo ch’ebbero compiuto i loro ordini, riti, cerimonie e atti di pietà e di final ministerio i carri giovii, gli spiriti giunonii, le lampade febee, le palladie Muse, i facondi Mercurii, le Càriti amenissime, cìoe i numi celesti: permettete, vi prego, permettete s’apra l’accesso, e vengano ultimi, sparsamente e soli, dai monti, dalle selve, dai campi deserti, gli agresti, villosi e ispidi Fauni, Silvani e Satiri, con la loro lingua e idioma, quali ch’essi siano, e con le lor cerimonie, fatte con animo sincero: ov’ essi protestano d’esser presenti non secondo la maestà e dignità della cosa, ma secondo l’ufficio e il culto della loro funzione e del grato animo. Giacché non solo al cielo, ma anche alla terra onniparente; non pure ai grandi iddii, ma anche ai sacri e buoni lari d’ogni genere, ed eroi; nè solo alle persone della casa o della cittadinanza o della città, sì anche agli estranei, ai forestieri e ai barbari poté far luce un così grande splendore dell’illustrissimo Giulio. Io, dunque, che, delle Muse amantissimo se ce n’è altri  delle Muse per le quali spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile e desiderabile all’infuori di loro , ora non potrei esser giudicato amarle veramente e con puro petto se non venerassi l’illustrissimo principe, tanto e tale patrono, tutore e difensor loro e se pigro mi tenessi lontano e m’astenessi da questo estremo effetto che alla mortal parte suole e deve esser consacrato. Aiutino dunque l’omaggio del forestiero se hanno prestato assistenza all’omaggio domestico. Se assisterono ai culti celesti e siderei assistano anche a questi, campestri e rusticani. Ché Dio fece le grandi cose e le piccole, e da tutti, secondo la propria facoltà e capacità, esige le primizie e le decime del culto e dell’onore. Assistiamo dunque, venendo di notte e quasi in un tempo fuori dell’ordinario, noi Satiri, Fauni, Silvani, sebbene non cacciamo né spremiamo lacrime e pianti sul funerale nobilissimo. Che se lacrime sopra il tuo tumulo si richiedono, e d’esserne asperse e imbeversene le ceneri tue sacratissime hanno sete, o ottimo fra i principi, esse non ti mancarono, e non poche nè finte né da teatro nè da ipocriti, quali son quelle da cui anche i corpi dei tiranni son lavate; ma le profusero, versate dal fuoco d’un amor sacratissimo, gli occhi dell’illustrissimo principe primogenito e successore tuo Enrico Giulio, e d’altri figliuoli tuoi illustrissimi, e dell’eroina consorte, dei consanguinei e affini eroi, della domestica nobiltà, della curia nobilissima, dei ministri, dei popoli, infine del cielo stesso, che dal tempo che rendesti l’anima ai superi e fosti aggregato ai grandi e immortali eroi, fino a quest’ultimo termine degli onori funebri e oltre, le lacrime sue mescolò a quelle dei popoli tuoi. E che altro, per Dio immortale, possiamo credere che siano, da quel giorno medesimo, queste piogge intempestive e straordinarie, e venti e tuoni, fuorché lacrime, sospiri e lamenti che, concelebrando il tuo funerale, tutti i giorni ininterrottamente t’of frirono? Dunque piuttosto per porre misura alle lacrime vostre (se qualcosa possiamo) siamo qui noi, persone dei rustici numi, senza lacrime, e all’altezza di questo tumulo rechiamo gl’incensi degli aromi sabei; e spargiamo fiori, rose, viole, fronde e soaveolenti doni di madre natura, ché questi sono omaggi consueti e grati a un sepolcro. E questi portarono in gran copia le nostre campestri e montane dee Ninfe, Naiadi, Driadi, Amadriadi e Napee, valendosi delle nostre mani, per offrirli in segno d’amore, culto e osservanza, prima che ad esse, le quali aborrono dal concorso della moltitudine, s’offra il tempo di più segretamente venire e incontrarti, onde possano aggiungere ai presenti doni, per incoronare il sepolcro, ghirlande conteste con le loro mani: non di triste tasso o cipresso, ché le stimano sconvenienti a così grande eroe immortale, che non dovete credere morto, ma partito da voi; bensì corone e tiare di fondo rosmarino, mirto, edera, pampino, palma, olivo e alloro, figure della Prudenza, Sapienza, Fede, Pazienza, Vittoria, Pace e Trionfo.

E sùbito vogliamo che in loro nome vi sia significato come esse non possano riprovare le lacrime che effondeste per atto ed effetto di pietà, quelle lacrime alle quali aveste il cielo non solo concorde, ma anche consorte e compagno. Poi, affinché non abbiano luogo lacrime di troppo disperata ed effusa tristezza, nè i prudenti occhi e volti sembrino esprimere i segni d’un dolore superfluo e posto fuor della legge, esse vogliono sia messo dinanzi alla mente di tutti che, condotti a termine queste funebri solennità, con un pio e felicissimo ricordo dell’illustrissimo duca Giulio restiamo tutti con animo tranquillo; ché non occorre rimanga aperta a quel torbido dolore alcuna porta, quando con gli occhi dell’intelligenza s’avverta che se, dopo compiuti gli atti, ancora debba esserci campo al pianto, questo pianto medesimo può accaderci di riferire solo a una di queste tre cause: o alla persona dell’illustrissimo duca Giulio, o al danno del ducato preclaro, o infine al detrimento tuo, o Accademia Giulia.

Ma, o dottissimi e sapientissimi ascoltatori, che luogo potrebbe esserci al pianto per la prima causa, quando il Principe ottimo, avendo tutto compiuto con somma benedizione e singolar favore del cielo, finito il fuso, sfuggi dalle mani della Fortuna e delle Parche? volò cioè da questa valle di lacrime a quel monte della beatitudine; da questo infernale Egitto alla celeste Gerusalemme’ dal cieco abisso delle tenebre alla plenitudine della luce inaccessibile; dal torrente delle calamità ai fiumi dell’immensa consolazione; dal carcere del tempo nell’amplissimo seno dell’eternità; dal principato, soggetto alle vicende e come momentaneo, al raggiungimento di quel regno eterno di cui lo costituì erede l’Ottimo Massimo. Dopo che, dunque, voi profondeste le debite lacrime per l’assenza del principe (ché le ammette e le ordina una naturale ed umana legge del sangue), postovi davanti agli occhi il felicissimo stato di lui, più non sia luogo al dolore. Chi infatti potrà a diritto piangere per il padre, l’amico e il benefico signore, quando egli, compiuta la navigazione molestissima di questa vita, con la mercede, il premio e la corona delle proprie fatiche attinge il porto della salvezza e della quiete?

Se poi (ciò che si metteva al secondo posto) ci si debba per qualche ragione dolere per i popoli tutti che sotto il ducato e il governo di lui prosperavano, lascio da considerare più maturamente a noi e ad essi tutti. Non provvide forse l’illustrissimo e provvidissimo duca già molto tempo prima, che per tal causa ai sudditi di lui amantissimi nessuna cosa triste venisse per la sua assenza?  Non consta forse evidentissimamente quanto luminosamente la divina potenza e misericordia lo assistette fino alla fine; e come una volta lo liberò dai mille insulti dell’invidia, della malignità e della fortuna, come lo portò a questo grado di altezza, come per qualche tempo lo conservò in esso felicemente, così anche fece che, compiuto il corso di questa vita e appressandosi il momento d’emigrarne, egli potesse ai popoli suoi affidare l’Altezza del primogenito e successore suo, l’illustrissimo Enrico Giulio, di tanto splendore d’animo, tanta prudenza, fortezza, dottrina e magnanimità, qual padre della patria ottimamente meritevole di subentrare al suo posto: il duca Enrico Giulio della cui virtù il fulgore, dopo gli halberstadesi episcopati, i rettorati di questa illustre Accademia e le amministrazioni d’altri titoli da lui esercitate da giovane, vivo l’illustrissimo duca suo padre, con somma lode e soddisfazione di tutti, ora certo in età consolidata sempre meglio e di più, con dominio e moderazione più larghi e più grandi, sarà illustrato, rilucerà, si propagherà: sicché possiate certamente vedere che il prudentissimo pensiero dell’illustrissimo duca Giulio fece in modo che, più secoli dopo i suoi funerali, voi possiate sempre meglio riconoscere la presenza di lui accanto a voi.

Ometto di rilevare con quanta diligenza, per il vantaggio, l’utilità, il favore e la grazia dei suoi popoli egli curò l’educazione degli illustrissimi figli suoi. Questo soltanto nè il tempo nè l’oblio cancelleranno mai dalla mia memoria, l’aver potuto vedere coi miei occhi e udire con questi orecchi i due eroi fanciulli, i principi figliuoli commessi al vostro seno e alla vostra educazione e costretti, in tempi determinati, a strettissimo esame, interamente alieni e contrari dai comuni piaceri, baccanali e bevute, come nessuno mai li vide, dopo la carneficina di fugaci lepri e di cervi, intenti a studio di efferatezza, ma solo intervenire con diligente frequenza alle riunioni di scuola e di chiesa. E soprattutto è degno della memoria dei secoli (voglio dirlo) quanto magnificamente, animosamente e dottamente (non meno di quanto comportasse la loro età) sappiamo che entrambi s’opposero alle tesi disputate sotto il gran giureconsulto Borcholt, proponendo gravi argomenti. Come allora a me, Dio buono, il petto sussultava di molteplici sentimenti! Come mirabilmente avrei desiderato fossero lì presenti, per l’esempio, tutti i principi d’Europa e i figli dei principi! E come certamente i più tra loro, oh adulti, avrebbero arrossito che, tacendo essi per stupidità, e tutto l’ingegno avendo negli orecchi, quei ragazzi tenerelli davanti a loro dessero prova di senno e sapere, parlassero, fossero ascoltati! Avrebbero appreso che non sempre, anche in questa nostra età che è di tutte la più infelice, non dappertutto è condizione comune e propria ai principi aver senno, aver consiglio, e parlare solo per l’altrui ingegno, giudizio e lingua.

Con cura non minore e sollecitudine pienissima è fama ed evidenza che fu educata l’altezza del primogenito l’illustrissimo principe Enrico Giulio, il quale, crescendo in età, avendo ricevuto senno precocissimo, poté attingere il culmine di tutte le lingue, dottrine e virtù (quanto occorre a ogni ottimo principe e governante). Come dunque, se volgete in alto gli occhi della mente, vedrete poter per la detta causa nascere ai popoli mestizia alcuna?  mentre quell’animo felicissimo salito tra gli eroi, stando in cielo e volgendo gli occhi su la terra, può vedere, da una parte, nel duca illustrissimo Enrico Giulio tanto un ammirevole indizio di gratitudine e d’amore nella celebrazione delle sue esequie, quanto anche quelle esimie virtù d’animo, di mente e di corpo per il governo dei popoli che tanto si desidererebbero in molti fra i principi; e dall’altra parte (per grazia celeste e per il divino favore che l’assistette), sotto tanto e tale duca, può veder tutto com’egli lo lasciò, pacato, tranquillo, intatto, per la religione riformata, la giustizia, la benevolenza e la gratitudine, ossequio fermissimo dei popoli, quasi legati da vincoli fortissimi?  Se, infine, ti debba dolere, e qual pensiero tu debba fare verso l’illustrissimo tuo fondatore in questo tempo, o Accademia amplissima, lo esaminerò non con mie parole, ma con parole, anzi fatti di lui stesso. Riconosci dunque l’Altezza Sua beatissima presente qui davanti a te, e odi come tocca l’intimo dell’animo tuo con la voce, il volto e l’affetto coi quali soleva rivolgerti la parola.

Io, quel Giulio Cesare, il cui elevato grado di fortuna non potei raggiungere (perché, con la violenza fatta alle viscere della sua patria e con quella sua crudel tirannide, mai avrei voluto né vorrei), mentre mi studiai di pareggiare e (se fosse possibile secondo i patrii costumi) superare l’animo suo e le illustri virtù, per poter essere paragonato, per qualche mia ragione e mio fatto, a lui al quale già ero pari per il mio nome e lo splendore degli avi re; io son tuttavia giudicato dai superi d’aver fatto tutto e forse di più: “ché niente omise chi fece tutto quanto poté”. Quando Cesare sfuggi alle mani del tiranno di Faro, non senza un mirabile divino favore, mediante la virtù della propria attività e solerzia, in quella pressoché disperata ansia, anzi veramente disperatissima, pensò meno a sé che alle Muse sue e ai suoi libri.  “Stipandosi le armi in piccolo spazio, il duce romano è premuto da ogni parte dal pericoloso attacco dei nemici, di qua dense flotte orlano i lidi, da tergo l’incalzano le fanterie; non c’è via di salvezza: non la fuga, non il valore, appena appena la speranza di morte onorata. Accerchiato, resta in dubbio se debba temere o desiderare la morte: ma lo proibiscono i fati. La Fortuna indica essa la via: allora, lasciata la nave, si getta in mare: con la sinistra porta asciutti i suoi libri, con la destra fende i flutti; e infine illeso è accolto dall’amico applauso della turba che leva fino al cielo il suo grido”.

Così, o Accademia Giulia, io, il tuo Giulio, in ogni estremità dei tanti casi che dovetti subire associai la tua salute (per quelle Muse che coltivai quanto più potei) con la salute mia. Io, perché tu lo sappia, ti meditai e t’amai fin dai primi anni della mia vita: quando contro di me, da tutte le parti, ribollivano e infuriavano i flutti vastissimi di questo mare, di questo secolo turbulento, e da ogni lato mi respingevano le procelle di quella infame superstizione e violenta tirannide tiberina e io ondeggiavo; come strappato addirittura al seno materno, alle braccia paterne, e all’amore e alla grazia di tutta la mia casa natale; ed ero esposto al malanimo, al livore, agli insulti di serpenti sibilanti, ai latrati dei cani, alle zanne schiumanti dei cinghiali, ai ruggiti, ai denti, agli artigli dei leoni, e accerrimamente la fortuna mi colpiva; quando, dico, queste cose m’affiiggevano, e da tutti i lati ero circondato, e da vicino minacciato di morte, e fortificatomi ero premuto dagli assalitori, e dalla sentenza d’oziosi preti ero ridotto appena appena alla speranza d’una morte onorata: allora, rimanendomi quasi sola, a suffragio della mia virtù, questa tavola del naufragio, te, come metà dell’anima mia, sotto il  vessillo della religione, della pietà e della dottrina (che a me sembrava ottima, secondo quella parte di lume che dal cielo m’irraggiava), te io sostenni costantemente con questa mano, perché dalle onde della perversità non solo tu non fossi sommersa, ma neppur fossi contaminata. Mi serbai solo la destra (intenta ancora al favore e alla salute tua) per le altre fatiche, per evitare gli scogli, superare i flutti e condurre in porto sicuro le comuni viscere tue e mie. Così, delle due mani, una serviva tutta alla tua vita, l’altra, parte alla tua, parte alla mia. Con questa destra, dunque, messo nel combattimento, patii calamità troppo aspre e lunghe, spinto nel pelago di questo secolo, e le attraversai, respinsi, oppugnai, espugnai, calcai, superai; e finalmente mi vedo accolto dal plauso desideratissimo della celeste curia; e te lascio, anzi tengo, messa in un ottimo porto.  Ricordati dunque di me Giulio, o mia Giulia, che io guardo dal cielo come uno dei figli miei, a cui perciò diedi e comunicai il nome mio, perché pegno del mio amore rimanesse perpetuamente nel tuo cuore. Io ti scolpii nell’animo dei miei figli, e perché il loro amore verso di te fosse indelebile te li affidai da educare: affinché insieme col latte della religione, della pietà, della dottrina, succhiato alle mammelle del tuo petto, concepissero amor di te immesso nelle viscere della propria sostanza; perché infine t’amassero come le proprie viscere, e per questo, a vicenda, fatti più adulti, t’alimentassero, governassero, promovessero e custodissero, o mia Giulia. Te dunque chiamo Giulia, che prima che apparissi nell’ornamento delle pietre, delle fondamenta, delle pareti, delle colonne e di codesto tetto sensibile, tu nascesti quando io nacqui, fosti nutrita quando io lattavo, adulta quando io crescevo, fuggente quando io fuggii, salva quando io fui salvo. Come poi Giulia nacque quando nacque Giulio e visse quando visse Giulio, ottimamente provvidi che non fosse anche defunta una volta defunto Giulio. Vive per te Giulio, vive per te. Carne della mia carne, sangue del mio sangue (nel quale e attraverso il quale ancora vivo e vivrò teco), il primogenito mio Enrico Giulio, di ornato spirito per nulla meno eroico e dei benefizi di Dio, come ti assistette, per divino dono, me vivente, in qualità di Rettore, così anche, per molteplice e più piena grazia e officio di appoggi, ora in tutto t’accoglierà dalle mie mani e t’avrà carissima; poiché, come il mio nome, così anche contemplerà e riconoscerà in te il volto e l’animo mio. Egli sempre più ti curerà, accrescerà, arricchirà, esalterà e difenderà. Salve dunque, mia Giulia, salve, salve in eterno; e una cosa ti prescrivo, con quante forze posso prescrivertela, e una cosa ti chiedo, con quante forze posso chiedertela: AMAMI; e se mi ricambi l’amore di cui t’ho circondata, ama coloro che io amai, accogli coloro che io avrei accolti, onora quelli che avrei onorati, proteggi quelli che avrei protetti.

O beatissimo fra gli eroi, sapientissimo fra i principi, celeberrimo fra i duchi, ecco dov’era il cuore tuo, lo spirito tuo, l’animo tuo; ecco dov’era tutto il tuo affetto, affetto sì grande. Non erigesti, secondo il costume degli avi, tempio d’idoli, non fabbricasti are a demoni immondi e a spiriti misantropi, non ceno o cenobio, o dormitorio di monaci (cioè nido d’infingardi ghiri); nè, profondendo spese, costruisti molti propugnacoli di ròcche e dappertutto munitissime opere architettoniche con le quali mettere un violento freno ai popoli che si ribellassero. Ché tu conoscesti, o sapientissimo fra i duchi, quanto forze di tal genere possano esser preparate non meno contro il principe che a suo favore: e, una volta preparate, non solo accade ai tiranni di temere per i loro popoli, ma anche assai più di temere dai loro popoli. Ottimamente considerasti che i popoli si tengono soprattutto con la pace, la prudenza, la longanimità, la benignità e la giustizia, e così si conservano in eterno sotto lo stesso regime. Son questi i ceppi, le manette, i gioghi, i muri, i propugnacoli, i valli e le torri con cui imperasti, regnasti, e tuttora regni ed imperi. Così atterristi i nemici tuoi con la sola prudenza del tuo animo e l’energia dell’invitto tuo spirito. Tu considerasti che sapienza ed esperienza prevalgono su tutti i mezzi tanto di difesa quanto d’offesa. Sicché vedendo sia la salute dei popoli, sia la grandezza e potenza dei principi, e parimenti tutti i beni posti tutti in questo culto delle Muse, tu consacrasti alle Muse questa Giulia tua, il nome tuo e l’affetto tuo.

Ma ora, che ti dettero le Muse in cambio di sì gran dono?  Esse ti eressero nel tempio dell’eternità una statua d’oro, alla cui destra Astrea porse e accostò spada con bilance, mentre alla mano sinistra Minerva concesse aperto il libro della sapienza e delle leggi. Pallade aggiustò al petto la corazza della fortezza e della magnanimità. Al capo fu messa la corona della prudenza e del senno, per te intrecciata da Apollo. Sotto i piedi si possono vedere i simulacri di innumeri e vari mostri, l’Invidia, la Frode, l’Ira, la Gola, l’Empietà, la Superstizione, l’Ignoranza, l’Ozio, il Lusso, la Detrazione, l’Avarizia, la Tirannide, la Violenza, e altri mille.  Ivi dintorno, le varie Muse apposero le proprie statue, tutte di candidissimo e solido argento. Ivi Clio, richiamando la memoria delle cose passate davanti agli occhi del secolo presente e di quello eterno, decanta la gloria delle gesta tue. Melpomene, insigne per tragica gravità, le cerimonie funebri augustissime delle quali gli uomini, gli dèi, i cieli e gli elementi onorarono il felicissimo esito tuo. La comica Talia, rallegrandosi teco con lepidi e blandi scherzi, a coloro che un tempo temerariamente s’opposero ai tuoi eroici consigli e atti, o anche ora, malati di livore insano, cercano di detrarre alle altissime glorie tue, si rivolge con questi versi, scritti su tavoletta di bronzo: “Ecco: stando al disopra degli astri, egli spregia i dileggi mani; o invidioso, togli materia ai nostri scherzi.” E mentre Calliope in versi eroici decanta le gesta tue e dei re tuoi avi, “Tersicore con la cetra gli affetti muove, comanda, accresce; Erato, coi suoi plettri, danza col piede, col carme, col volto; segna tutto con la mano, parla Polinnia col gesto.” Urania negli alti soffitti del tempio del mondo, i quali portano, di solido oro e giacinto, le immagini tutte d’entrambi gli emisferi celesti espresse in vivo e appropriato colore, Urania, dunque, mostra cesellato il nome illustrissimo tuo intorno alla fulgente punta d’Erigone.

Ivi a chi guardi le costellazioni settentrionali sarà dato vedere in primo luogo Elice, Cinosura, il Drago, Boote, la Corona d’Arianna, Ercole, Esculapio o il Serpentoro, la Lira, il Cigno, l’Aquila, la Saetta, il Delfino, ciascuno dei quali rappresenta una delle tue virtù; e s’intende descriverla con note appropriate. Il Delfino indica la filantropia e l’umanità; la saetta tessalica, la felice celerità nel compimento dopo maturo consiglio. L’Aquila rappresenta la dignità di più ampio dominio, il Cigno la purità, la Lira la soavità, Esculapio la prudenza, Ercole la fortezza, la Corona la maestà, Boote la custodia e la vigilanza, Cinosura la sublimità e la saldezza, Elice lo splendore senza tramonto dell’illustrissima e serenissima prosapia tua.

In secondo luogo, a chi guardi a quelle costellazioni che stanno piuttosto fra il Tropico boreale e il cingolo del primo mobile, s’offrono allo sguardo la Falce adamantina o spada ricurva, la Testa d’Algol o di Medusa, la Capra coi capretti, la Chioma di Berenice, il Deltoton o Triangolo, l’Auriga o Erittonio, Perseo, Andromeda, Cassiopea, Cefeo, Equicolo, Pegaso o cavallo di Bellerofonte.  Dove Pegaso alato e spiegante la sua corsa attraverso l’etere, designa la fama tua che pervade l’intero orbe; l’Equicolo, la libertà; Cefeo (che è anche Cheico, vale a dire infiammato), l’ardente religione verso le Muse e zelo verso la giustizia; Cassiopea, il matrimonio con l’eroina illustrissima; Andromeda, legata da manette e catene, il timor di Dio e la religiosità, da cui i tuoi affetti e le tue opere eran legati sì, che tu nè ti ritenevi lecito, nè operavi nulla all’infuori della giustizia divina, naturale e morale. Perseo trionfatore è indice e testimone della strenua attività e laborioso valore tuo. La Chioma di Berenice spiega la facilità e l’ornamento. L’Auriga Erittonio, che ha fama d’aver attirato col suo canto le querce, indica il nativo eloquio e la grazia con la quale addolcisti. piegandole a ossequio, genti durissime. Il Triangolo rappresenta il temano di virtù: la Prudenza, con cui cominciasti ogni impresa; la Strenuità, con la quale la conducesti a termine; la Virilità, con cui, fattala, la difendesti. La Capra coi capretti, per la potenza siderale, la sollecitudine e cura delle cose più degne. Quella testa recisa della Gorgone, a cui, in luogo di capelli, crescono serpenti velenosissimi, indica quel mostro della perversissima tirannide papale, che, in numero superiore a quello dei capelli, è assistita e servita da tutte le lingue blasfeme contro Dio, la natura e gli uomini, le quali infettano il mondo col pessimo veleno dell’ignoranza e della nequizia; testa della Gorgone che dal tuo valore constatiamo troncata e allontanata da queste regioni. E quella spada adamantina, rossa della strage del mostro, rappresenta la costanza della tua mente invitta, onde uccidesti quell’orrendissima fiera.

In terzo luogo, a chi guarda le stelle dell’orbe obliquo si presentano quei Pesci Dionei, il frigio efebo Ganimede che chiamano Aquario, l’ispido aspetto dell’Egoceronte o Capricorno, Chirone centauro, lo Scorpione, la Libra, la vergine Astrea, il Leone, il Cancro, il simulacro dei Gemelli Castore e Polluce, il Toro, l’Ariete. Dove l’Ariete fulgente nell’aureo suo vello indica il secolo aureo. pacifico e prospero. da te introdotto e mantenuto in questo ducato dopo il secolo ferreo e torbido. Il Toro che portò Europa indica la costanza, la gravità, la maturità. Castore e Polluce rappresentano l’inviolata legge d’amare e riamare, cui, giusti e grati nel distribuire e retribuire, esigono Eros vero e Anteros.  Il Cancro fervente, ardente o adusto, indica la mirabile tolleranza delle fatiche. Il Leone, il cui cuore a guisa di fiammante sole scintilla in fascio larghissimo di raggi, indica l’invincibile vigore della magnanimità, col quale, per non doverle superare dopo cominciate, tu soffocasti turbolenze e guerre prima che cominciassero. Astrea, l’esempio di natural continenza e castità. La Libra, con quanta misura facesti tutto, sia in persona d’altri, sia in persona tua. Lo Scorpione con la coda contratta, minaccioso e con le ramose braccia ricurve in tutti i sensi, indica la temerità e l’audacia, da te represse, dei fraudolenti e dei subdoli. Chirone, che solo nella parte superiore è uomo, rappresenta alcuni dei tuoi popoli, da te condotti dalla barbarie e ferità a vero aspetto d’umanità, piantando in essi l’amore della pietà, delle arti e delle Muse.  Il Capricorno, nel quale il corso del sole s’inflette dalle parti inferiori alle superiori, indica l’aperto ampliamento del dominio e, inoltre, la futura esaltazione. Il frigio fanciullo, che dalle cantine di Giove ti versa il nettare, spiega come giustamente le Muse ti costruirono nel tempio della fama questo sacello, essendo tu ascritto al numero dei beatissimi numì partecipanti al vino dell’eterna fruizione. I Pesci costituiti nella parte alta del cielo perché liberarono Venere e il figlio dal furore del gigante Tifone, mostrano l’Altezza tua partecipe, per la medesima ragione, della dimora divina, giacché quella legge evangelica del gemino amore, perché non fosse violata dal crudelissimo e truculentissimo tiranno, tu accogliesti fuggitiva fra i propri lari, e, accoltala per custodirla e difenderla, la consolidasti.

In ultimo, verso l’inclinante e inferiore parte del cielo a te soggiacente s’offrono, ammirabili di costellazioni, Orione, il Cane, Procane e il Sino, la Lepre, l’Argonave, l’Idra, il Corvo, il Cratere, il Centauro, il Lupo, l’Ara, il Pesce Austrino, Ceto, Eridano, la Corona. Dove la Corona (che chiamano Uranisco) significa la superbia e la vana ambizione e la tirannide; Eridano, la profusa e indiscriminata elargizione o prodigalità. Ceto, l’immoderata concupiscenza. Il Pesce, la muta ignoranza. L’Ara, il culto superstizioso e l’idolatria. Il Lupo, la rapacità e crudeltà. Il Centauro, la doppiezza del cuore e dell’affetto. Il Cratere, l’ubriachezza, la ghiottoneria e l’ebbrezza. Il Corvo, la loquacità e scurrilità. L’Idra, la molteplice mordacità e maldicenza. L’Argonave, l’avarizia e la fraudolenta usurpazione. La Lepre, la pusillanimità e la lascivia.  I due Cani, che ardono la terra con smisurati incendi, l’ira e l’invidia. Orione, tempestoso e orribile, la crudeltà e ferocia. Da queste costellazioni son significati i vizi che con un numero non minore di virtù conculcasti, assoggettasti, domasti. La ferocia e crudeltà con l’ammirabile clemenza; l’ira e l’invidia con la pazienza e la longanimità; la detrazione con la maturità del grave eloquio; la loquacità col sermone circospettissimo: la ghiottoneria e l’ebbrezza con l’astinenza e la sobrietà; la doppiezza di cuore con la verità e la sincerità; la rapacità e la sevizia con l’ingegno mitissimo e trattabilissimo; la superstizione e l’idolatria con la religione e la pietà; la muta ignoranza con la sapienza e la dottrina; l’immoderata concupiscenza colla misura nel temperare gli affetti; la dilapidazione delle sostanze con la parsimonia e la frugalità; l’ambizione superflua e la tirannide con la paternità verso la patria.  O felice, dunque, Accademia Giulia, o tre e quattro volte beata d’aver un così grande fondatore, Giulio. Vivi, ascendi, va’, procedi, sta’ salda, siedi gloriosissima fra tutte le accademie del mondo.  Augustissima, illustrissima, altissima principessa, figlia di principe, sorella di principi, cui è destinata una discendenza infinita. Quanto generosamente nata, quanto magnificamente educata, quanto gloriosamente cresci! Vivi, e per quest’abito funebre che ti facesti degna di portare, per queste lacrime che con nome di figlia meritasti di versare, godi anche: nello stesso lutto, dico, glòriati che di più degne, per un simile e così grande oggetto, nessuna accademia ne sparse o ne spargerà mai. Il fondatore tuo, principe tuo, signore tuo, padre tuo, sta in cielo e dal cielo ti guarda. Di lì egli ti assisterà. Ivi, offerti i voti al Dio ottimo massimo, essendogli gratissimo, tutto quello che vorrà per te impetrerà poiché non possiam credere che, posto adesso in migliore stato, sia a te meno benigno.

HO DETTO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Indice Giordano Bruno



Musica: "Nomen sollemptibus" (Carmina Burana  secolo XIII)