Il Significato esoterico

della Mangiatoia

Di

J.Duncan e M.Derrett

 

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Per ripugnante che paia a molti la ‘decifrazione' d'un passo del Nuovo Testamento, cioè la riscoperta delle sue allusioni a noti temi biblici o haggadici, essa talvolta è l'unico modo di cavarne un senso.
Spesso gli esegeti moderni ricorrono a interpretazioni razionalistiche ed anacronistiche, essendo riluttanti a impegnarsi in esercizi di decifrazione midrascici, ai quali per istinto e per educazione sono inetti. Perciò la mangiatoia si è rivelata del tutto intrattabile. San Luca la menziona dapprima a II,7 dove
f£tnh significa appunto una mangiatoia, e come tale riappare a II 12, sempre come una mangiatoia, ma in qualità di «segno»; e ciò che era un segno per i pastori era un segno «occulto», appena velato, per i lettori di Luca. A II,16 è diventata «la mangiatoia». Perché mai? Il solito riferimento (a Isaia I,3) non spiega molto, salvo si colleghi la questione del mangime (come metafora del cibo); ma era ben difficile capire come lo si potesse collegare, nei termini specifici del racconto di Luca.
Il metodo razionalistico «anglosassone» spiega la mangiatoia di Luca II,7-16, in base al semplice fatto che Gesù vi fu deposto e che in seguito, dopo la Resurrezione, ad essa fu data una importanza simbolica forse in virtù di un'analogia forzata con Isaia I,3. Il fatto che Gesù fu messo in una mangiatoia sarebbe l'unica spiegazione razionale dell'improvviso accenno di Luca II,7, dei ripetuti riferimenti e della mancanza totale di spiegazioni in questi testi.
Una sfida che provenga dalla cultura «materiale» è esasperante. Due idee in proposito, che furono proposte in passato, hanno destato il mio interesse. L'una è che i pastori avrebbero riconosciuto la loro mangiatoia, ma purtroppo le pecore brucano a un'altezza ben diversa da quella del bestiame da stalla, anzi esse si cibano al pascolo, all'aperto.
f£tnh designa una conca, un incavo nella rupe, e non possiamo raffigurarci, nella storia di Luca, altro che una concavità scavata nella parete della caverna. Mangiatoie di legno mobili sono impensabili data la località, la mancanza di legno e il problema costante del mio e del tuo (1). L'altra idea che mi ha interessato è che la mangiatoia fosse un'allusione alla costellazione omonima, e questo sarebbe stato significativo per un popolo di osservatori del cielo e per dei pastori in particolare; inoltre, benché la storia della Stella nelle narrazioni della natività da parte degli altri Evangelisti abbia rapporto con concetti differenti, ci potrebbe essere un arcano motivo per riunire questi diversi filoni (2).
Ma nessuna di queste idee mi ha fatto un'impressione favorevole.
Ne offro due mie. Nessuna delle due è discutibile, essendo entrambe ben documentate, ciascuna a modo suo.


A - Una mangiatoia che sia un incavo nella roccia, è un luogo di purità rituale, appropriato, in modo un po' forzato, a una persona destinata a incarnare la purezza non ritualmente contaminabile (3). La gente di Betlemme e di tutta la regione gerosolimitana sapeva che i fanciulli nati nelle caverne avevano certe prerogative rituali. Ho spiegato questo rapporto a proposito della Vitella Rossa (4).

B - L'idea di essere messo dentro o vicino ad una mangiatoia implica che si divida il mangime con gli animali. C'è una formidabile haggadà secondo cui Adamo, dopo la Caduta, pregò Dio di non farlo mangiare coi quadrupedi alla greppia (5).

 

É certo che Gesù sapeva del diritto degli uomini a stare eretti e non curvi come i quadrupedi, e quale Secondo Adamo affrancò da tale condizione un Israelita (6). Inoltre la haggadà sul passo del Genesi era abbastanza antica da poter essere nata da un racconto delle esperienze di Nabucodonosor (Daniele IV,15-25-32-33; V,21). L'episodio della mangiatoia mostra dunque che Gesù aveva sperimentato veramente la Caduta dell'Uomo e che, sia pure momentaneamente, entrò (e uscì) da una mangiatoia (7).
Se accostiamo il concetto dell'impurità di qualsiasi posto, a confronto della purezza d'una caverna, come luogo di nascita e d'una conca nella roccia in particolare, associata alla nascita, all'idea che il Secondo Adamo provi lo stesso timore del Primo, non sarà difficile ravvisare nella natività di Luca una riproduzione in miniatura della storia della sepoltura, che egli trasse da Marco. Il parallelo è manifesto (8). Anzi, esso suggerisce che le stranezze della storia della sepoltura in Marco sono da mettersi in connessione con il ricordo della mangiatoia da parte di Marco stesso.
L'idea sottintesa sarebbe che ci furono due nascite, entrambe in un luogo scavato nella rupe e la seconda nascita, cioè la Resurrezione, fu prefigurata dalla prima e che lo Spirito Santo non agì soltanto promuovendo la generazione ma anche infondendo la purezza. Tutto ciò colpisce per la sua artificiosità, sia pure, ma questa non è un'obiezione, trattandosi di una letteratura di squisito artificio, d'altronde certamente il fatto nuoce al pieno godimento della composizione di Luca.
La presente nota vorrebbe attrarre l'attenzione su Mishnah, Ned. IV,4 e sulle implicazioni della presenza in quel passo della parola 'ebūs (9).
Un operaio aveva fatto voto di non trarre beneficio da un altro, e si poneva il quesito se ciò davvero inibisse ogni relazione sociale fra i due. Il parere adottato fu che, generalizzando, i rapporti e le esperienze comuni erano proibiti a chi aveva fatto il voto soltanto se la sua presenza accanto al 'nemico' faceva sì che questi gli conferisse un beneficio. I due potevano mangiare allo stesso desco senza tema che l'uno aiutasse l'altro; ma non potevano attingere mangiando dallo stesso vaso e da un piatto fatto girare fra i commensali perché c'era il sospetto che l'uno si servisse più di quel che sarebbe stato altrimenti il caso. Qui la casistica dei rabbini si mostra alla perfezione.
Chi aveva fatto il voto poteva bagnarsi nella stessa vasca con l'altro purché essa fosse ampia, perché, fosse stata piccola, il livello dell'acqua sarebbe stato sollevato dalla presenza di quest'ultimo, ed egli ne avrebbe avuto un beneficio.
Incontriamo quindi nel testo l'espressione lo' yo'kal 'immó min hâ-’ebūs selifnéy ha-pó'lim, da cui appare che ‘ebūs era un termine ben noto per designare un ricettacolo comune in cui si disponevano le vettovaglie per il pasto meridiano d'una compagnia di operai, che se le portavano sul posto di lavoro in modo da potersi concedere il rinfresco senza tornare a casa e senza interrompere per più del necessario il lavoro. Non c'è dubbio che fra i pastori fosse familiare un ‘ebūs (lo possiamo forse chiamare un cestino), dato che le loro ore di servizio, i loro turni, imponevano dei rinfreschi fuori casa, e che essendo in compagnia, essi consumavano i loro rinfreschi in comune. Una compagnia di pastori era dunque un gruppo di persone che lavoravano, sorvegliavano e mangiavano insieme.
Così la menzione improvvisa di una mangiatoia avrebbe richiamato alla mente i mezzi coi quali si provvedeva al cibo comune lontano da casa. La parola greca
f£tnh vuol anche dire, un po' spregiativamente, greppia, un luogo dove la gente mangia non saggiamente, ma troppo bene (10). Poiché la parola significa mangiatoia e per estensione lo scomparto dov'è sistemata, non si applica al luogo dove consumino il pasto degli uomini se non spregiativamente.
Sarebbe diverso se
f£tnh andasse intesa come una traduzione di ‘ebūs. In greco è difficile far intendere che dei pastori vengono mandati a vedere un fanciullo in una mangiatoia con la speranza che questo venga inteso come «segno». Ma le cose stanno diversamente se si tiene a mente Isaia I,3. Il popolo d'Israele doveva, ad un certo momento conoscere «la culla del suo signore». Se il pasto in questione era quello delle greggi dei pastori, non si potrebbe connettere la nostra f£tnh a Isaia I,3. Ma non sarà invece possibile considerare i pastori come Israele che mangia, con la umiltà degli animali, un pasto comune fornito dal suo Signore? L'idea fantasiosa che Gesù bambino nella mangiatoia potesse essere un pasto (con la congiunzione inaccettabile di carne viva e di sangue) si volge in una direzione meno sgradevole, più plausibile se la paragoniamo a Giovanni VI,51-6. San Giovanni insiste che il credente deve mangiare la carne del Cristo e berne il sangue in modo tale che doveva trattarsi di un concetto già generalmente accettato al tempo di San Giovanni.


Concludo proponendo le ipotesi seguenti.

(A) San Luca ricevette la tradizione secondo cui Gesù fu posto in una mangiatoia dopo la nascita, nonché tradizioni che consideravano in funzione simbolica questo ricordo.

(B) Egli espose questo racconto simbolico in modo da suggerire varie proposizioni implicite:
1 - Gesù era il Secondo Adamo e seguì il destino del Primo, spartendo per un istante il luogo del pasto con il bestiame (non con le pecore).
2 - La nascita di questo Adamo ebbe luogo nella stessa assoluta purezza di quella del Primo Adamo (nel cui mondo la morte era sconosciuta).
3 - La prima nascita di Gesù fu simile alla sua rinascita (nella tomba);
4 - Come Gesù prima di morire sulla croce si diede, carne e sangue, da consumare, ingerire ai suoi umili seguaci (con tutto ciò che magicamente consegue: l'unione dell'offerente, di chi dà il pasto a coloro che lo ingeriscono e di tutti costoro l'un con l'altro secondo uguaglianza e di ciascuno con lui (11); così sua madre subito dopo che egli nacque (a specchio degli eventi futuri) lo espose come fosse per essere il pasto comune dei poveri fedeli.

Quest'ultima implicanza ha una sua logica e plausibilità poiché il concetto di un cibo celeste che sostituisca e renda superfluo quello terreno è attestato frequentemente (il Pasto dei Cinquemila ecc, e Giovanni IV,31-34) e il tempo naturale di questo pasto è quando i doveri del giorno e della notte sono adempiuti, il turno è terminato e il «compenso» dovuto.

E vero che nessun commentatore di Giovanni VI,51-6 ha additato un corrispettivo in Luca, a parte l'Ultima Cena, e il figlio dell'Uomo non è stato identificato con il Secondo Adamo; ma non c'è motivo che non lo debba essere.
L'importanza di ‘ebūs, se l'ipotesi regge, è che deve trattarsi di un cestino per la merenda comune, la fonte comunitaria di un cibo che sarà spartito soltanto da coloro che formano un'unità sociale e che è un'alternativa rispetto ai loro pasti domestici. In una sovrimpressione caratteristica e a volte sorprendente di praticità quotidiana e di immagini poetiche, il «segno» della mangiatoia pone in stretto accordo la vita ordinaria e gl'inizi della vicenda cristiana.
Naturalmente è impossibile immaginare che questa elaborata struttura in filigrana potesse essere costruita senza delle prove fededegne dell'esistenza di una mangiatoia comunemente considerata come quella effettiva. E tanti altri elementi fantasiosi delle storie dell'infanzia, anche i Magi, poterono avere un qualche nucleo di ricordi fededegni abbastanza saldo da fornire l'abbrivo a questo processo.



Note


1 - Non reparto di stalla, come in Gius. Antiq. III,4, poiché esso è chiamato
f£tnh dalla mangiatoia che vi si trova. Così S.M. Creed, The Gospel According to St. Luke (London 1950), p. 34. Il riferimento a H.J. Cadbury e ad A. van Veldhuizen si trova in Bauer-Arndt-Gingrich, A Greek-English Lexicon of the New Testament (Chicago-Cambridge 1957). Studi più recenti non risolvono il nostro problema: L. Legrand, R.B. 72/2 (1968), pp. 161-87; C.H. Giblin, C.B.Q. 29/1 (1967), pp. 87-101; M. Bailey, Theol. der Gegenwart, 9/4 (1966), pp. 97-200.

2 - Vd. H. A. Blair, c. 2 di A Stranger in the House (London, Darton, Longman & Todd, 1963).

3 - The Manger: Ritual Law and Soteriology, in Theol. 74 (1971), pp. 566-71.

4 - Ibid., ultima nota. Cfr. Mishnah, Parah, III 2-3.

5 - Theol. 74 (1971), p. 569 n. 3. Vi ho fatto riferimento in Jesus's Audience (London 1973), p. 108, basandomi su Targ. ps. Jon., Gen. III 18, oltre che sulle fonti della nota precedente.

6 - Luca XIII,10-17. Occorre paragonare Levitico XXVI,13 e Salmo CXLV,14; CXLVI,8.

7 - R. Scroggs, The Last Adam (Oxford, Blackwells, 1966).

8 - Il mio The Manger at Bethlehem... in Studia Evangelica, VI, pp. 94-102, ed. H. D. Sparks.

9 - S. Krauss, Talmudische Archaologie, II (Leipzig 1911), p. 104.

10 - Filone, Spec. leg. 1148 (Loeb, VIII 182-4) parla del ventre come ‘mangiatoia’ d'una creatura irrazionale mutuando da Platone, Tim. 70 E (Loeb, VII 152), dove c'è il quadro famoso delle parti dell'anima soggette agli appetiti, attaccate a parti del corpo corrispondenti all'addome che serve da ‘mangiatoia' per il nutrimento del corpo. È evidente che già al tempo di Platone f£tnh era suscettibile d'essere usata metaforicamente come luogo dove ci si nutre animalescamente. Filone non usa altrimenti la parola.

11 - Gli esegeti di I Cor. XI,23-30 si rendono conto di due correnti di opinione intorno all'effetto del sacramento eucaristico, secondo San Paolo, su chi vi partecipa. Secondo la prima opinione gli elementi hanno un valore magico. Senza un'indagine psicologica o antropologica questo argomento non si può adeguatamente trattare. Ma il mangiare con qualcuno (nei tempi antichi e tuttora nei paesi sottosviluppati) implica la mutua fiducia; e mangiare delle provviste di qualcuno vuol dire mettere chi mangia a disposizione di colui che gli fornisce il pasto, e pertanto può esercitare magia su di lui. A sua volta chi mangia, ricevendo qualcosa che è appartenuto all'altro può danneggiarlo.
Questo è un motivo della benedizione o eucharistia, la quale, attribuendo tutti i cibi a Dio, Padre comune, reagisce alle virtualità magiche e ai timori che circolano fra chi dà e chi mangia. In questa luce il dono del donatore stesso come cibo (e tutto di lui, perché tanto la carne quanto il sangue sono offerti) prende un significato del tutto nuovo.

 

Buon Natale  a Tutti

 

 


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