La prima specie d’oro si produce quando la polvere d’oro dalla superficie affonda e diviene prigioniera dell’acqua, dalla quale essa in seguito riemerge dotata di vita:

 

"È la prima specie che può essere detta semplicemente zahabh (“oro"); infatti è realmente oro, benché esso non sia estratto dalla terra, né distrutto dalla violenza del fuoco, ma è vivo, esce dalle acque, di colore talvolta nero, talaltra biondo, spesso anche simile alla coda del pavone che ritorna spontaneamente nelle acque. E quest’oro può essere detto zahabh sheba (“l’oro del paese dei sabeni"), come se tu dicessi shebi, "l’oro della cattività", poiché esso è stato recentemente preso in prigionia e rinchiuso nella sua prigione, dove esso subisce un digiuno di quaranta giorni e quaranta notti, al punto che tu non sai quel che è accaduto di esso, Ex 32,1; niente allora si opera allo "esterno”.

 

Il contesto scritturale EX 32, 1-6 ci rimanda al soggiorno di quaranta giorni di Mosè sulla montagna del Sinai. Un’analogia occasionale per mezzo di coincidenze sorprendenti orienta spontaneamente la attenzione del lettore verso il racconto del battesimo del Cristo e dei suoi quaranta giorni di digiuno nel deserto, anche se il redattore di questo racconto alchemico non vi aveva affatto pensato. Inoltre, come ciascuno sa, la traversata del mar Rosso era stata seguita da quarant’anni di peregrinazione, purificazione e prigionia, nel deserto.

 

Dopo questi quaranta giorni e quaranta notti appare la seconda specie d’oro:

 

"Ma in seguito, esso diventa zahabh shahut, come se fosse stato sacrificato e ucciso; infatti esso muore e là, sgozzato, esso imputridisce come un cadavere. Là, esso è sotto giudizio e le scorze dominano in esso, e la potenza del nome di quarantadue lettere compie il suo tempo in esso”.

 

Come verbo, la radice trilettere shin, het, tet può avere tre tipi di significato: "sgozzare, uccidere, immolare", "appiattire, affilare", "corrompere, sedurre". Le scorze sono le potenze impure che si trovano al di fuori del dominio della santità. Non sono angeli distruttori che eseguono le sentenze del tribunale divino, ma piuttosto degli agenti della decomposizione che si impossessano di un corpo lasciato dalla vita. Analogicamente, esse sono assimilate alla morte come facenti parte del suo inseparabile corteo. Alla fine dell’epoca messianica, esse spariranno con la morte conformemente alla promessa profetica (Is 25,8): Egli distruggerà la morte per sempre.

L’esistenza e l’uso di un nome divino di quarantadue lettere sono attestati dall’epoca gaonica. Come sottolinea Maimonide, "ogni uomo capace di pensare sa bene che è assolutamente impossibile che quarantadue lettere formino una sola parola; non si poteva trattare dunque che di molte parole, che formano un insieme di quarantadue lettere. Queste parole senza dubbio, indicano necessariamente alcune idee che dovrebbero avvicinare l’uomo alla vera concezione dell’essenza divina”. Si tratta effettivamente di sette parole o gruppi di lettere astratti, spogliati di significato semantico dei quali ciascuno si compone similmente di sei lettere.

 

Sulla vocalizzazione di questi gruppi di lettere, quindi sulla loro pronuncia ed invocazione, le opinioni sono divergenti a causa della presenza di molte tradizioni ricevute, incompatibili le une con le altre. Questo aspetto del problema qui non ci riguarda. Per rimediare agli inconvenienti di una pronuncia difettosa, alcuni cabalisti consigliano di cercare le iniziali di quarantadue attributi di Dio o dei luminari o delle forme sacre. Il "tempo" di questi nomi di quaranta lettere rappresenta simbolicamente il tempo della creazione o di una creazione, che comincia con l’opera dei sei giorni e termina quando la polvere ritorna alla terra donde essa è venuta. Per il cabalista, i tempi delle creazioni successive possono essere rappresentati dalla figura geometrica di un’epicicloide a sette "petali".

Per illustrare le energie creatrici di queste quarantadue lettere, le si rapporta mediante complessi procedimenti di permutazione alle quarantadue prime lettere del racconto della Genesi, andando dalla lettera béyt della parola beréshit fino alla lettera béyt della parola bohu.

Conservando l’ordine di queste lettere, le si raggruppa in unità di sei lettere. La prima parola, beréshit, composta da sei lettere, resta invariata.

Si dispone così di due nomi da quarantadue lettere i cui rispettivi gruppi si spiegano gli uni con l’aiuto degli altri. L’idea fondamentale è l’insegnamento midrascico: tu non devi leggere beréshit (“al principio") ma piuttosto berà shit (“egli creò sei”). Dio creò sei lettere e per mezzo di esse furono creati i cieli e la terra. Nel caso del nome di quarantadue lettere, ogni gruppo di sei lettere potrebbe essere considerato come una concentrazione delle energie creatrici di un mondo.

Queste lettere che operano nella creazione sono anche le porte di ingresso al dominio puramente metafisico che è rappresentato dalle lettere aleph, yud, hé, le stesse che si trovano nel nome divino Ehyeh (“Io Sono"); che regge la sephirâ Kether. Per questa trasformazione metafisica del nome di quarantadue lettere, la traduzione invoca un’allusione del Salmo 118,19:

 

"Apritemi le porte della giustizia, io entrerò attraverso di esse (in ebraico bam; béyt =2, mem = 40; dunque 42), e a Yah renderò grazie (in ebraico odeh; aleph = 1, waw = 6, dalet = 4, hé = 5; in totale 16, esattamente come il valore ghematrico delle tre lettere aleph, yud, hé)".

 

Le lettere che creano il mondo diventano le porte della giustizia e si riassorbono quindi nelle lettere aleph, yud, hé che formano il nome Ehyeh. La consunzione e la morte delle scorze, la consunzione dei germi dell’azione e della corruzione dei mondi, la morte e la putrefazione avvengono in vista di una reintegrazione metafisica. Sarà dunque logico ritrovare un’esplicita menzione del Nome Ehyeh ad un grado successivo di questa crisopea. Notiamo anche che la tappa "dell’oro ucciso" non è accompagnata da una valutazione temporale. Il numero simbolico che caratterizza la trasformazione dipende dall’esaurimento delle energie del nome di quarantadue lettere. In questo stadio, è solo la scienza delle lettere a guidare il processo alchemico.

 

Come riferimento scritturale per apportare una spiegazione analogica a questo fenomeno, si potrebbe notare che durante i quarant’anni di peregrinazione nel deserto, il popolo dell’Esodo percorre quarantadue stazioni. In generale, il contemplativo che realizza intellettualmente l’itinerario di queste stazioni ha solo come segni affidabili i nomi di questi luoghi e le interpretazioni di questi nomi con l’aiuto dei metodi della scienza delle lettere. Siamo in un qualche modo in un processo di trasformazione che distrugge i ricordi dell’oro d’Egitto e della adorazione del vitello. Quanto ai colori "l’oro della cattività" è talvolta biondo, altre volte simile alla coda di un pavone. "L’oro sgozzato" annerisce, diventa rosso cupo oppure nero custodendo l’aspetto caldo del sangue. Con la terza tappa della crisopea, il primo ciclo delle trasformazioni sarà terminato. L’oro diverrà grigio-bianco, assumendo l’aspetto delle ceneri.

 

"Per terzo, segue zahabh ophir, l’oro di Ophir, come se tu dicessi aphér, ceneri. Esso diventa infatti del colore delle ceneri, ed è tempo che ti fissi le ventidue lettere dell’alfabeto".

 

Il termine geografico ophir, si trova dunque interpretato, mediante un’etimologia simbolica, come proveniente dalla radice trilettere aleph, pé, résh. Il sostantivo apher significa da una parte "ceneri, polvere, cosa senza valore", e dall’altra, "travestimento, velo che copre il viso, turbante". Come verbo, apér ha il senso di "ridurre in cenere" o di "mascherare, travestire". Ci si ricorda della scena biblica riferita in Re primo 20,38, quando uno dei figli dei profeti si presenta davanti la re Acab, portando una benda o un turbante per nascondere il suo viso e la sua identità: il profeta andò a presentarsi davanti al re sul suo cammino; egli era coperto, con una benda sugli occhi. Il colore bianco grigiastro delle ceneri dà l’impressione dell’assenza di ogni traccia di vita e di luce, le eventuali reliquie annerite che si trovano nelle ceneri custodiscono il ricordo della devastazione del fuoco. L’oro si trova sotto il mascheramento di una superficie biancastra spogliata di ogni riflesso o di colore. Il tempo dei ventidue giorni fissato per la durata di questo stadio esprime un ciclo ontologico completo e ricorda il numero delle lettere dell’alfabeto. In generale, seguendo la dottrina del Sepher Yetzirah, vi si contano tre lettere madri, elementari, sette lettere doppie, planetarie, dodici lettere semplici, zodiacali.

 

Dopo l’estinzione graduale dei colori, l’oro diventa smorto e atto a ricevere un nuovo colore. Sfortunatamente, il testo che descrive questo nuovo processo difetta di chiarezza in diversi punti. Il traduttore latino ha dovuto affrontare assai certamente delle serie difficoltà per afferrare e fissare il senso delle allusioni, dei giochi di parole e delle citazioni scritturali abbreviate o volontariamente troncate:

 

"Per quarto, esso diventa zahabh tobh "l’oro buono", giacché esso ora è buono per essere colorato, benché non del colore dell’oro ma solamente di quello dell’argento. Questo può essere detto ketem, adesso può essere anche chiamato riferendosi al versetto Lam 4,1: Come l’oro è stato ricoperto dalla ruggine e dal colore rosso? Com’è stato cambiato in argento buono? Allora lo riguarda ciò che è  scritto in Job 22,24:  e mettilo sulla aphar (“polvere"); aphar vuol dire opheret, "il piombo". E baser vuol dire l’argento, cioè quest’oro biancheggiante; giacché è a partire da ciò che tu avrai dello argento. U-bazur (“e nella roccia"), giacché esso sarà allo stato di Pietra, apporta i nahalim, i torrenti delle acque metalliche e a partire da là tu avrai ophir, l’oro ophiriano, il migliore. Allora tu avrai il numero del Nome supremo Ehyeh, giacché dopo ventuno giorni tu l’avrai.

Se tu vuoi sin da adesso avere il tuo tesoro, aprilo! Ma non distribuirai che argento, come delle Pietre: Re primo 10,27”.

 

Le operazioni di questa quarta tappa si fanno partendo da un oro privato di ogni colore che si qualifica come "l’oro buono". Non bisogna confonderlo con "l’oro di Hevilat", che proviene dal paese d’oriente circondato dal paradisiaco fiume Pichon, che la scrittura (Gen 2,12) chiama "buono". Nel nostro testo, questa qualificazione significa che l’oro è adesso debitamente preparato per ricevere i colori, di cui il primo sarà una tinta argentata. Cominciando questa colorazione, che proseguirà anche negli stadi ulteriori, il nostro testo sembra fare allusione ad una agadah alchemica che si riferirebbe al versetto Lam 4,1, per il quale possiamo proporre la seguente tradizione, nella quale noi ci accontenteremo di traslitterare le parole zahabh e ketem:

 

Elà, come si è appannato "lo zahabh", come s’è alterato "il buon ketem"!

 

Il nostro trattato ci offre per questo versetto un targum originale:

Come si è ricoperto di ruggine e di colore rosso lo "zahabh", e come s’è cambiato in buon argento "il buon ketem"!

 

Detto altrimenti, secondo questo targum, quando il profeta Geremia contemplò le rovine di Gerusalemme e del Tempio, si rese conto che queste distruzioni così come la soppressione del culto avevano provocato un’alterazione dei metalli nel senso alchemico del termine. L’oro chiamato zahabh fu ricoperto di ruggine e cambiò colore, l’oro fino chiamato ketem perse la sua lucentezza, subì una speciale trasformazione e divenne un argento di buona qualità. La conclusione seguente ne discende pressoché automaticamente: se in un dato momento della storia biblica ha potuto essere provocata una tale degradazione della natura, in un altro momento più favorevole della storia questa degradazione potrà essere riparata.

Sappiamo che questo frammento alchemico sui sette ori della testa d’oro forma un’unità letteraria indipendente nell’Esh mesareph, e in questo frammento la dottrina sephirotica della qabalah medievale non gioca alcun ruolo. Tuttavia, le deduzioni che si potrebbero trarre dall’agadah alchemica delle Lamentazioni di Geremia potrebbe chiarire eventualmente un dettaglio del simbolismo sephirotico che è la pietra d’ostacolo di tutti gli studi che sono stati dedicati ai rapporti della qabalah e dell’alchimia, noi vogliamo dire la superiorità sephirotica dell’argento in rapporto all’oro. In funzione di questa agadah che è innestata sul versetto Lam 4,1, l’alchimista può ragionare dicendo che lo stato attuale del simbolismo sephirotico che colloca l’argento nella quarta sephirâ e l’oro nella quinta, è valido solo dalla distruzione del Primo Tempio. La dottrina fondamentale è la superiorità della luce bianca, argentata, in rapporto alla luce rossastra che si vede quando il sole declina alla fine del pomeriggio. Prima della distruzione del Tempio due specie d’oro, il ketem e lo zahabh, esprimevano questo rapporto, l’oro dalla tinta argentata era stimato migliore dell’oro leggermente rossastro. Ma a causa della catastrofe naturale occasionata dalla distruzione del Tempio e a causa del cambiamento che da allora è avvenuto nel mondo, il ketem è sparito e la sua influenza benefica è sostituita dall’argento che ne custodisce il riflesso, lo zahabh è ricoperto da una ruggine rosso cupo ed è dotato da allora di un carattere francamente malefico. Quando dunque il nostro testo descrive l’operazione che restituisce al ketem la sua tinta argentata di una volta, esso indica in realtà la via per restituire alla natura lo stato benefico che regnava quando il Primo Tempio era eretto e quando vi era stato celebrato il culto per riconciliare il cielo con la terra. In qualche modo, con la sua ricerca per ritrovare il processo della colorazione argentata dell’oro, l’alchimista intraprende il primo grado di un’opera messianica. Si fa menzione della tecnica di quest’opera - a quanto pare - nel libro di Job 22,24-25. Limitandoci ad una semplice traslitterazione per le parole basér e tò aphot proponiamo per questi due versetti la seguente traduzione:

 

"Mettilo sulla polvere, il basér, e nella roccia dei torrenti l’Ophir, e Shaday sarà il tuo basée, ed egli sarà per te il tò aphot dell’argento”

 

Per ciò che concerne il significato corrente della parola basér, bisogna notare che la radice beyt, sadey, resh significa come verbo, basor, "tagliare l’uva, vendemmiare", "diminuire, togliere, ridurre, rimpicciolire", "abbassare, umiliare, avvilire"; ma anche "assicurare, rafforzare". Quale sostantivo, basér ha il significato di "minerale prezioso, materia preziosa, oro, pietra metallica, miniera"; "difesa, fortificazione"; "ricchezza"; "appoggio". Il fatto che l’autore del Libro di Giobbe faccia il gioco di parole basér -ba-sur (“nella roccia") farebbe pensare che egli suggerisce per la parola basér una etimologia bilettere sadey-resh, che esprime l’idea di una "compressione estrema". Nella prospettiva alchemica del nostro trattato, basér significherebbe l’oro spogliato dei suoi colori nelle tappe prima e seconda, che ha perduto il suo "sangue" e che si trova in uno stato di impoverimento e di compressione estremi, avendo l’aspetto di un minerale praticamente incolore, grigiastro. Quanto all’espressione "tò aphot" dell’argento, bisogna notare che la radice waw, ayin, pé, inusuale, aveva probabilmente il significato di "essere elevato, essere sublime, essere oscuro". L’autore del Libro di Giobbe gioca in questi versetti con le parole che cominciano con le lettere aleph, pé, come Ophir ed ayin, pé, come aphar ("polvere"). L’alchimista gli imita il passo aggiungendo apher (“ceneri") ed opheret (“piombo"). Ritroviamo la parola tò aphot in Ps 95,4: È Tetragramma che tiene nella sua mano le profondità della terra e al quale appartengono le vette delle montagne. Il salmista oppone le parti inaccessibili della terra a quelle delle montagne. L’espressione "tò aphot dell’argento" nel versetto Job 22,25 significa dunque "le parti,gli elementi più sublimi, più inaccessibili dell’’argento". Spingendoci in questo senso,si potrebbe dire "gli elementi più misteriosi dell’argento".

 

Secondo le raccomandazioni alchemiche del nostro trattato nel versetto Job 22,24 non dobbiamo leggere "e mettilo sulla polvere (aphar)”, ma piuttosto "mettilo sul piombo (opheret)". Inoltre, bisogna sapere che basér vuol dire in questo caso "l’argento, cioè quest’oro biancheggiante; giacché è a partire da là che tu avrai l’argento". I torrenti significano le "acque metalliche" dell’alchimista.

In funzione di queste indicazioni, il versetto Job 22,24 significherebbe dunque in una traduzione alchemica parafrasata:

 

"Mettilo sul piombo, questo minerale impoverito, privato dei suoi colori, quest’oro che è come l’argento senza lucentezza, biancheggiante, e tu otterrai l’ordinario oro d’Ophir (la meta del terzo stadio della nostra crisopea). In seguito, racchiudi questo Ophir nel fondo di una roccia naturale o artificiale come in un tesoro, ed aggiungi i torrenti metallici: otterrai così il miglior oro d’Ophir, che non è più come il colore senza lucentezza delle ceneri ma che ha la più sublime radiosità dell’argento paragonabile al sublime colore delle vette innevate (la meta della quarta tappa della crisopea)".

 

"Dopo ventuno giorni di chiusura tu l’avrai; se tu vuoi d’ora in poi il tuo tesoro, aprilo!”

L’apertura al termine di questo periodo renderà possibile la fabbricazione dell’argento, come accadde quando re Salomone "moltiplicò l’argento a Gerusalemme, di modo che questo divenne comune come le pietre" (Re primo 10,27). Per l’espressione "come le pietre", i commentatori rabbinici imbarazzati pensano che si tratti di un’esagerazione letteraria anodina che traduce l’ammirazione dello scrittore sacro di fronte alla scienza ed alle opere di re Salomone. Tuttavia, si ammette anche che l’abbondanza di argento avrebbe potuto permettere che se ne facessero dei blocchi come le pietre di taglio per pavimentarne le strade e per porre con queste pietre preziose le fondamenta delle case. In compenso, se non si apre questo tesoro di roccia, la nobilitazione dell’oro continuerà e noi arriveremo al quinto stadio della crisopea.

 

Preliminarmente, prima di proseguire la nostra ricerca "tecnica" dobbiamo fare nota di alcune osservazioni "teologiche".

"Adesso tu avrai il numero del Nome supremo Ehyeh, giacché dopo ventuno giorni tu l’avrai. La trasformazione dell’oro d’Ophir grigiastro, ceneroso (terza tappa) in oro d’Ophir argentato, brillante (quarta tappa), ci introduce incontestabilmente, ma in maniera quasi accidentale, in un dominio che è accessibile solo grazie al simbolismo dei nomi divini. Già il gioco di parole basér -ba-sur ha un rapporto con questo simbolismo. Per la parola sur abbiamo tre gruppi di riferimenti significativi. Essi si trovano nel cantico di Mosè alla fine del Deuteronomio, nel Salmi e nelle profezie di Isaia. Ci sono i rimproveri riguardanti l’infedeltà di Israele: (Dt32,15) Yeshurun ha abbandonato il Dio (Eloah) che lo ha fatto, egli ha disprezzato la roccia (sur) della sua salvezza; (Dt 32,18) È Dio stesso che dice: Tu hai abbandonato la roccia (sur) che ti aveva generato (yaldekha). Ci sono anche le grida patetiche del salmista: (Ps 18,32) giacché chi è Dio (Élohïm),eccetto Tetragramma, e chi è una roccia se non il nostro Dio (Elohenu)? (Ps 62,8) La roccia della mia forza, del mio rifugio, è in Élohïm. Bisogna aggiungerci gli argomenti infiammati della profezia di Isaia: (Is 44,8) C’è un Dio (Eloah) al di fuori di me?  Non c’è altra roccia; non ne conosco punto; (Is 51,1) considerate la roccia dalla quale voi siete stati tagliati e la cava di pietra dalla quale voi siete stati tratti! C’è anche la formula fondamentale della cosmologia rabbinica (Is 26,4): giacché in YHWH si trova la roccia dei mondi. Gli inviti a ritornare a questa roccia sono pieni di promesse: (Dt 32,13) Tetragramma ha fatto succhiare ad Israele il miele della roccia l’olio che esce dalla roccia più dura (sur halamish). È citato il caso di Mosè: (Ps 78,20) Ecco che egli ha distrutto la roccia e sono colate le acque; (Ps 105,41) egli aprì la roccia e zampillarono delle acque. Nell’uomo, l’organo che corrisponde a questa roccia è il cuore (Ps 73,26): La roccia del mio cuore e del mio retaggio, è Élohïm per sempre. Il tema del cuore ritorna nella promessa messianica (Is 30,29): E voi avrete il cuore gioioso come colui che si tira su al suono del flauto per andare alla montagna di Tetragramma verso la roccia di Israele. Il versetto Job 22,24 di cui abbiamo studiato l’interpretazione alchemica fa parte del discorso di Eliphaz di Teman che difende davanti a Giobbe la giustizia di Dio ed invita al pentimento (Job 22,21-27.

Per comprendere la portata di questa interpretazione "operativa", bisogna rileggere la versione letteralr dell’insieme di questo passaggio:

 

21 - Riconcìliati dunque con Lui e pacìficati; così ti sarà resa la felicità.

22Ricevi dalla sua bocca l’insegnamento, e metti le sue parole nel tuo cuore.

23 - Ti raddrizzerai, se ritornerai a Shaday, se tu ti allontanerai dalle iniquità della tua tenda.

24 - Getta i "lingotti d’oro" (basér) nella polvere, e "l’oro d’Ophir" tra i sassolini (ba-sur) del torrente.

25 - E Shaday sarà il tuo oro (basér) Egli sarà per te "un cumulo" (tò aphot) d’argento.

26 - Allora tu metterai le tue delizie in Shaday, e leverai verso di Lui la tua faccia.

27 - Tu Lo pregherai ed egli ti ascolterà E tu compirai le tue promesse.

 

I versetti 24-25 costituiscono la cerniera "operativa" del discorso. Secondo la lettura religiosa essi fanno appello alla rinuncia volontaria e al rifiuto delle ricchezze di questo mondo. Secondo la lettura targumica dell’alchimista, questi atti spogliano definitivamente l’oro delle sue scorie maledette e aprono la via verso l’alchimia della felicità. Tuttavia, per continuare la nobilitazione dell’oro, non bisogna aprire il tesoro.

 

Il quinto stadio della crisopea sarà nuovamente un periodo di chiusura segnato dal numero simbolico 40, "Un giorno per un anno". Tutto accade nelle viscere della terra, nessuna indicazione di colore accompagna le direttive:

 

"Se invero tu vuoi di più, che il tuo oro sia di più, in quinto luogo, zahabh sagur, l’oro cinto, che resta in prigione, nelle viscere della terra dei saggi, per tutto il Tempo del coricarsi di Ezechiele, Ex 4,6".

 

Questo riferimento scritturale, Ez 4,6, ci ricorda indirettamente, per mezzo del suo contesto narrativo che la crisopea si trova sempre sotto l’influenza di una forza di estrema contrazione. Prendendo sotto la sua forma verbale la radice sadey, waw, resh, che esprime questa contrazione con i significati di "accerchiare, assediare", "affliggere, trattare da nemico", ed aggiungendovi una lettera preformante, all’occorrenza un mem che sarà secondo il linguaggio dei grammatici un mem locale, otteniamo il sostantivo masor che vuol dire da una parte "angoscia, miseria", dall’altra "difesa, fortificazione" ed infine, "assedio di una città, campo degli assedianti". In questo caso il gioco di parole che assicura la continuità tra la quarta e la quinta tappa della crisopea sarebbe da una parte l’esprssione ba-sur, "nella roccia", e dall’altra il sostantivo masor, "assedio di una città". La medesima radice trilettere è dunque preceduta nel primo caso da una preposizione, beyt, che indica una localizzazione, all’occorrenza "nella roccia", nel secondo da un preformante mem, che localizza un movimento di estrema contrazione, come l’assedio di una città e l’angoscia degli assediati. Il valore numerico del preformante mem è di 40.

Alla seconda tappa della crisopea, per "l’oro della cattività", il numero 40 alludeva ai quarant’anni di migrazioni nel deserto che erano seguite all’esodo d’Egitto. In questo caso, quello "dell’ oro rinchiuso", il numero 40 si riferisce ai quaranta giorni dell’assedio simbolico di Gerusalemme.

Alla fine del terzo capitolo e all’inizio del quarto, il libro di Ezechiele racconta gli eventi che seguirono immediatamente alla visione della Merkabbah che aveva avuto luogo sul bordo del fiume Kebar. La Gloria di Dio, come essa si mostrava nella Merkabbah, conduce il profeta su una pianura e laggiù lo Spirito di Dio entra in lui. Esso gli ordina di chiudersi a casa ove gli si metteranno delle corde, lo si legherà in maniera tale che egli non potrà più lasciare la sua casa. Anche la sua lingua sarà legata con una fune ed egli diverrà muto. Egli dovrà prendere un mattone, posarlo davanti a sé e disegnarvi una città, Gerusalemme. Egli dovrà mettere intorno a questo mattone degli oggetti che rappresentano i campi degli assedianti e le fortificazioni che a loro oppongono le difese della città. Questo dovrà essere un segno per Israele. In questa reclusione, il profeta dovrà coricarsi prima sul lato sinistro. Egli sarà legato in questa posizione e porterà l’iniquità della casa di Israele secondo gli anni contati in giorni, secondo la durata delle loro iniquità: centonovanta giorni. In seguito, lo Spirito di Dio si rivolgerà di nuovo al profeta (Ez 4, 6/8):

 

"Quando avrai terminato questi giorni, ti coricherai sul lato destro una seconda volta, e porterai l’iniquità della casa di Giuda, quaranta giorni; io ti ho contato un giorno per un anno. E tu dirigerai la tua faccia ed il tuo braccio contro Gerusalemme assediata (el mesor Yerushalaim), e profetizzerai contro di essa. Ed ecco che io ho messo su di te delle corde, affinché tu non possa voltarti da un fianco all’altro, finché non avrai compiuto i giorni del tuo assedio (mesoreykha)".

 

Alla fine di questo assedio simbolico, il profeta dovrà prendere una lama tagliente a guisa di rasoio da barbiere, passarla sulla sua testa e sulla sua barba. Egli dividerà ciò che sarà tagliato. Egli ne brucerà un terzo nel fuco nel mezzo della città, ne batterà un terzo con la spada intorno alla città, e ne disperderà un terzo nel vento. Egli ne prenderà ancora un poco e lo brucerà di nuovo nel fuoco. Allora "da là uscirà un fuoco per tutta la casa di Israele" (Ez 5,4).  

 

Siamo di fronte ad un’apocalisse mimata dal profeta, che rappresenta per l’alchimista l’oro rinchiuso. Il numero degli anni di iniquità della casa di Israele è di centonovanta anni, in ebraico qoph,sadey. Queste due lettere insieme danno la parola qes, che significa "fine, termine, estremità"; "distruzione, rovina, calamità". Questa fine è seguita dai quarant’anni dell’assedio di Gerusalemme.

Per questa tappa, nessuna indicazione é data a proposito del colore dell'’oro rinchiuso. Bisogna sapere tuttavia che per questi quaranta giorni simbolici, il profeta doveva cambiare lato e che egli fu legato sul lato destro. Se le prime fasi della crisopea si facevano sotto le sembianze del colore rosso, le due seguenti sotto i colori delle ceneri e dell’argento, questo cambiamento di lato del profeta presagisce dei colori verdastri. In queste trasformazioni, la tendenza permanente è che una luminosità sempre più intensa fa scintillare la sostanza dorata.

Alla fine di questo dramma apocalittico, Gerusalemme è simbolicamente distrutta ed il profeta si ritrova calvo e senza barba. La tappa seguente della crisopea si richiama al nome di Sansone, che fu concepito al termine di quarat’anni di sterilità di sua madre. Egli fu nazareno sin dal suo concepimento e il rasoio non passò sulla sua testa. La sua forza eccezionale risiedeva nei suoi capelli.

Per la sesta tappa della crisopea, il testo precisa:

 

"Ed il tuo oro diverrà, in sesto luogo, yeraqraq biondo, come zahabh Parwaim; Parwaim designa i tranta uomini che Sansone uccise, in Jug 14,19".

 

Queste parole contengono diverse allusioni il cui contenuto sorprende persino gli specialisti più avvertiti dell’antica agadah. Bisogna esaminarle separatamente, le une dopo le altre.

L’oro di Parwaim ci è noto grazie alle antiche liste delle sette specie d’oro che ci hanno conservato i commentari talmudici e le raccolte midrashiche. Secondo queste tradizioni, l’etimologia della parola Parwaim sarebbe, in primis la radice verbale trilettere pé, resh, hé, che significa "crescere, moltiplicare"; "essere fertile, fecondo"; "portare dei frutti, produrre, fiorire". A proposito di questa prima etimologia, tutte le antiche testimonianze scritte sembrano essere d’accordo: Quest’oro sarebbe come una pianta fertile, un albero fruttifero. Noi non sappiamo come avveniva questa produzione o riproduzione, non abbiamo più alcuna indicazione riguardo alla sostanza, che sarebbe stata moltiplicata dall’azione fertilizzante di questo oro. Sarebbe possibile forse citare nuovamente Re primo 10,27: Il re Salomone fece sì che l’argento fosse a Gerusalemme diffuso quanto le pietre.

Una seconda etimologia della parola Parwaim è costruita partendo dal colore dell’oro al quale essa è attribuita. Il Talmud dà una formula facile da ricordare (b. Yoma 45a): "L’oro di Parwaim, giacché esso assomiglia al sangue dei tori (parim". Infatti la parola par significa toro, ed in senso figurato uomo forte, valoroso. Quest’oro era dunque di color rosso scuro. Tuttavia, anche se gli agadisti lo dimenticano sempre, l’alchimista deve ricordarsi che esiste anche un’altra testimonianza a proposito del colore dell’oro di Parwaim.

In b Sanhédrin 103b, dove si tratta delle diverse blasfemie compiute dai re di Gerusalemme, figura in un buon posto il re Joiaqim che tuttavia aveva regnato per soli undici anni (609 -598):

 

"Quando Joiaqim vinse, dichiarò: I miei predecessori non erano abbastanza saggi per irritarlo. Quanto a noi, non abbiamo affatto bisogno della Sua luce. Possediamo l’oro di Parwaim, dunque traiamone profitto! Quanto a Lui, non ha che da riprendersi la sua luce! - Gli si dice: E tuttavia, non è vero che Gli appartengono l’argento e l’oro, poiché è scritto (Agg 2,8): A Me l’oro, a Me l’argento, oracolo di Tetragramma Sabaot. - Egli rispose: Ma Egli ce li ha già dati, poiché è scritto (Ps 115,16): Tutti i cieli sono per Tetragramma, in compenso la terra, è stata data da Lui ai figli dell’uomo".

 

L’oro di Parwaim di cui parla re Joiaqim che avrebbe dovuto sostituire il sole dei cieli, non poteva avere l’apparenza del sangue dei tori, tendente al rosso scuro. L’oro che fu scelto dal re per il suo blasfemo aneddoto doveva necessariamente rassomigliare al sole che illumina il cielo a mezzogiorno, almeno secondo l’unanime opinione delle genti. Esso doveva avere un irradiamento chiaro, fine, accecante e scintillante. C’è dunque un’evidente contraddizione tra l’affermazione di b. Yoma 45a e i dati che possiamo dedurre dall’aneddoto di b. Sanhédrin 103b.

L’alchimista si sbarazzerebbe probabilmente di questa scomoda situazione esegetica facendo osservare che re Salomone fece rivestire le mura della casa del Tempio, secondo 2 Chr 3,6, di pietre preziose per decorarla e l’oro era quello di Parwaim. Quest’oro doveva essere chiaro e scintillante, ed era rimasto tale sino alla distruzione del Tempio da parte degli Assiri. In quel momento, come testimonia il profeta Geremia (Lam 4,1), l’oro si è offuscato, si è coperto di ruggine. Ciò accadeva a causa della distruzione del Tempio di Gerusalemme e l’effetto di questa catastrofe affliggeva l’intera opera della natura. Quando re Joiaqim compiva il suo atto blasfemo, ciò accadeva alcuni anni prima della distruzione del Tempio, l’oro di Parwaim si manteneva ancora nel suo antico splendore di colore chiaro, senza ruggine, senza il sinistro riflesso, rosso cupo. Per uscire da questo imbarazzante dilemma. l’alchimista deve trovare una nuova etimologia per la parola Parwaim. Il riferimento è sempre la parola par, ma bisogna interpretarla in senso figurato: non come "toro" ma piuttosto come "uomo forte", "coraggioso". Questo sarà dunque "l’oro degli uomini forti", "l’oro dei valorosi, egli eroi". L’alchimista chiama subito questi "eroi". Questi sono i trenta Filistei che furono vinti ed uccisi da colui che si rivelò più forte e valoroso di loro, Sansone.

L’alchimista afferma che il colore di quest’oro non era semplicemente yaroq, giallo verdastro, ma yeraqraq. In generale, per evitare controsensi, bisogna trattare i nomi dei colori con molta attenzione e per precisare i significati, bisogna disporre di solidi appoggi scritturali. Assai fortunatamente, ritroviamo la terminologia dei colori dello splendore nei versetti Ps 68,14-15:

 

Il Signore fece sentire la sua parola, messaggi di felicità in gran quantità, …. Restate immobili, nei recinti delle greggi?

Le piume della colomba si coprono d’argento e  le sue ali del fulgore giallo verdastro (yeraqraq) del finissimo oro (harus)!

Quando Shaday disperse i re, la neve cadeva su Selmon!

 

Il targumista spiega: "Restate voi immobili; quando voi, scellerati vi siete coricati in mezzo ai cumuli di letame, l’Assemblea di Israele, chi assomiglia alla colomba, si copre di rosa nelle nuvole della gloria (yeqara)". Egli segnala così un gioco di parole, yaroq (“giallo verdastro") e yeqar (in aramaico "gloria"). Questa due parole sono composte dalle medesime lettere, ma disposte in maniera differente. Il colore giallo verdastro mette in rilievo i misteri luminosi della Gloria divina.

Rashi spiega l’espressione lo splendore giallo verdastro dell’oro finissimo appoggiandosi all’autorità del grammatico Dunash Ben Labrat (920-990). In primo luogo, harus significa certamente l’oro giacché il salmista stabilisce qui (Ps 68,14-15) un parallelismo tra l’argento e l’oro. Secondo lui, quest’oro fu importato dal paese di Helvilat (Gen 2,12-13) o forse dal paese di Kush. È un oro molto buono. In secondo luogo, ad essere precisi, questo oro non è né giallo verdastro (yaroq), né rosso (adom), ma ha un colore speciale. Per sottolineare questa differenza il salmista utilizza una parola raffinata, yeraqraq.

A proposito della formazione di questa parola, si può rilevare una certa somiglianza con la parola adamdém, per esmpio in Lev 13,42, ove quest’ultima parola indica un colore che non è il bianco, il colore della lebbra, né il rosso (adom), ma un bianco rossastro (labhan adamdém). In Lev 13,49, quando si tratta della lebbra dell’abito, parlando dei colori che si distinguono a pena dal bianco, la Legge utilizza congiuntamente le due parole adamdém (bianco rossastro) e yeraqraq (bianco - verde giallastro). Questi chiarimenti di Rashi ci forniscono dei solidi appoggi.

In breve, grazie al vocabolario del salmista possediamo i tre colori della gloria: il bianco smagliante, rappresentato dallo splendore del sole che riflesso dalla neve pura delle cime lontane; il bianco che ha un irradiamento giallo verdastro (yeraqraq), il colore delle ali della colomba; il bianco che ha un riflesso argentato, bluastro, che è il colore delle piume della colomba. Se crediamo al salmista, questi colori esprimono la gioia della vittoria di Shaday. Per ciò che riguarda la parola harus, che il salmista giustappone all’aggettivo yeraqraq, lo rivedremo al momento dello stadio supremo della crisopea.