Per la localizzazione sephirotica dell’oro, il redattore dell’Esh mesareph dichiara:

"Nella questione metallica la sephirâ Ghebourâ  è la classe alla quale è riferito l’oro, che a sua volta possiede la sua propria decade".

 

Detto altrimenti, ciascuna delle dieci sephiroth invia un flusso di irraggiamento particolare nella quinta sephirâ. I flussi che vi sono raccolti e riflessi determinano le energie principali delle dieci specie d’oro. Come la quinta sephirâ è subordinata alla quarta sephirâ H'esed, il luogo sephirotico dell’argento, tutte le dieci specie d’oro sono, per definizione inferiori all’argento. Non c’è alcuna deroga a questa regola. Per designare le specie secondarie il redattore del trattato attinge dalle antiche tradizioni midrashiche che sono state spesso sfruttate dai commentatori della Scrittura. Vi appaiono due nuovi termini, beser ed harus, ai quali bisogna aggiungere un impiego inusuale della parola ketem. Le giustificazioni scritturali che sono evocate meritano uno sguardo attento. La prima sephirâ Kether vi si riflette come ketem (“una macchia sublime"), l’oro singolare che il versetto di Can 5,11 riferisce alla testa. Rileggiamo questo versetto: La sua testa è una macchia d’oro, le estremità delle ciocche arricciate sono nere come il corvo.

 

La seconda sephirâ H'ocmâ vi si riflette come beser (“oro grezzo"), "l’oro per così dire nascosto all’interno delle basi fortificate: Job 22,24-25; 36,19". IL primo riferimento evocato dice: Getta l’oro grezzo (baser) nella polvere (aphar) e Ophir, nella roccia (ba-sur) dei torrenti, e Shaday sarà il tuo oro grezzo (baser) ed esso sarà per te un cumulo d’argento. Noi sottolineeremo il gioco di parole che la scrittura ci suggerisce tra baser (oro grezzo) e ba-sur (nella roccia); o meglio ancora baser che deve essere gettato nell’aphar e l’oro d’Ophir che deve essere gettato nel ba-sur. Quanto al secondo riferimento, Job 36,19, che presenta ai traduttori una difficoltà quasi insormontabile, con l’aiuto del Targum noi potremmo forse proporre in questo contesto il seguente significato: "È possibile che Egli dispone la tua preghiera in maniera tale che ciò che è oro in potenza (besar) divenga oro reale in tutto il suo vigore".

 

 

La terza sephirâ Binâ vi si riflette come harus (“ago appuntito") "grazie all’estrazione del minerale grezzo; esso è riferito a Binâ, la madre che sta in alto poiché questo nome aspira al genere femminile". Il riferimento che giustifica questa concezione è Pr 8,10 che noi tradurremo nel seguente modo: Ricevete le mie istruzioni piuttosto che l’argento, e la scienza piuttosto che "l’oro che è appuntito come un ago grazie all’estrazione del minerale grezzo (nibhhar).  

Riassumiamo dunque l’inizio del processo della manifestazione dell’oro nelle tre prime sephiroth. In Kether in fondo ai neri riccioli della testa si stacca progressivamente una macchia leggera di colore rossastro dorato. In H'ocmâ, questa macchia acquista una realtà sostanziale ma resta racchiusa come un pezzo d’oro grezzo in una oscura roccia. In Binâ una punta sottile trapassa la superficie. In Kether l’oro è concepito come un punto che racchiude la Possibilità universale, in H'ocmâ esso appare come la determinazione di tutte le possibilità di manifestazione allo stato embrionale, in Binâ esso è il punto primordiale resosi manifesto. Il cabalista ritrova queste tre fasi nel disegno della lettera yud: l’angolo appuntito superiore è Kether, il corpo della lettera è H'ocmâ, l’angolo appuntito inferiore è Binâ: ketem, harus e beser.

 

La quarta sephirâ si riflette in Guebourâ come rahabh shahut, "l’oro battuto del secondo Chr9,15, poiché la quarta sephirâ H'esed presenta una analogia con il filo". Il versetto citato significa: Il re Salomone fece duecento grandi scudi d’oro battuto. Noi non dobbiamo leggere, beninteso, zahabh shahut, "oro battuto" ma piuttosto zahabh shehut, zahabh’asher hut, "l’oro che si stende come un filo". Si nasconde qui anche un’allusione allo studio della Torah. Se già i guerrieri di Salomone erano ben protetti dagli scudi d’oro battuto, quanto più lo sarà colui che studia la Torah durante la notte poiché, secondo il trattato b. Haghigah 12b, "Il Santo, benedetto Egli sia, stende su di lui un filo della sua grazia (hut shel H'esed) durante il giorno".

 

La quinta sephirâ Guebourâ riflettendosi in se stessa produce "l’oro, zahabh senza epiteto, nella sua qualità di puro rigore, poiché l’oro viene dall’aquilone in Job37,22". È il grido di Eliu’ che è citato: l’oro viene dall’aquilone ma Dio, quanto è temibile la tua maestà! Ben inteso "il filo d’oro battuto" è teso e raggiante come l’Amore, "l’oro dell’aquilone" è freddo come il Rigore impietoso, scuro e terribile come il sangue coagulato.

 

La sesta sephirâ Tiphereth si riflette in Guebourâ come Paz e come zahabh mupaz "in Re 10,18; Ps 21,4; Ps 19,11; Dan 10,5; è così infatti che Tiphereth e Malcouth si compongono nel trono dorato di Re 10,18, proprio come quando si parla del vaso d’oro in Job 28, 17; di corona d’oro in Ps 21, 4; di base d’oro in Cant 5,15". Etimologicamente il verbo binato pazoz significa "essere agile", "essere fermo”, oppure "suonare”, "risuonare". Il sostantivo pazuz significa "saltellamento ", "danza ", "tintinnio ". Secondo il secondo libro di Samuele (6,16), la figlia di Saul "guardò attraverso la finestra e vide il re David saltellante e danzante davanti al Signore". Nella sua benedizione, il patriarca Giacobbe dice di suo figlio Giuseppe (Gen 49,24). "…Il suo arco resta fermo, le sue braccia e le sue mani sono rese agili (we-yaphozu) [o secondo un’altra traduzione possibile: sono coperte d’oro] da colui che è il Pastore, la Pietra di Israele". Paz è conseguentemente un oro scintillante, fermo il suo irradiarsi fa brillare tutti i colori dell’arcobaleno, il suo tintinnio è eclatante. Esso è posto tra l’oro giallo e malleabile di H'esed e l’oro rosso, fragile di Guebourâ . Paz ricopre il tronco della lettera waw che si stende da Yesod, la sephirâ del patriarca Giuseppe, il suo arco fermo, fino a Kether dove tra i neri riccioli della testa esso appare come una macchia (ketem paz) della dimensione di un punto appena percettibile. La sua vera localizzazione è il tronco. Il profeta Daniele (10.5) vide un angelo sotto le sembianze di un uomo "vestito di lino, i fianchi cinti da una cintura d’oro di Upaz"(zahabh mupaz). Il suo prolungamento in Yesod indica l’unione dello sposo e della sposa, Tiphereth e Malcouth che si allegano per esempio nel trono dorato di I Re 10,18: Il re fece un grande trono d’avorio e lo rivestì d’oro mupaz. Gli arnesi rivestiti d’oro simbolizzano la ierogamia. Tale è il caso della corona d’oro (ateret paz) in Ps 21,4; del vaso d’oro (kelipaz) in Job 28,17; delle basi d’oro (adney paz) in Cant 5,15. Paz esprime la gioia dello sposo; la forma degli utensili; la completa bellezza della sposa.

 

A partire dalla colonna di destra, la settima sephirâ Netzâ si riflette in Guebourâ come zahabh sagur, "l’oro recinto". Il versetto Job 28,15 dice a proposito della saggezza: Essa non si dà contro l’oro recinto, essa non si compra a pesi d’argento. A partire dalla colonna di sinistra, l’ottava sephirâ Hod si riflette in Guebourâ come zahab Parwaim (“l’oro di Parwaim") "a causa della sua somiglianza con il sangue dei taurillons (Parim); poichè questa a misura tinge di rosso la mano sinistra", la mano femminile, debole. Nei versetti I Re 6,20-21, si narra che Salomone fece rivestire l’interno della Casa di Dio con "dell’oro chiuso ". La testimonianza parallela in Chr secondo 3,6 ci informa che l’interno della Casa è abbellito con "dell’oro di Parwaim". Queste due tinte rossastre offrivano insieme un decoro che, da una parte, richiamava il sangue degli animali che erano sgozzati sul sagrato esterno e, dall’altra, lasciavano presentire l’atmosfera chiusa ed inaccessibile del Sancta Sanctorum. Secondo l’adagio rabbinico "la sua casa è la sua sposa", la Casa che è abbellita in questo modo grazie a queste due tinte dell’oro rosso non è altro che la sposa sephirotica, Malcouth.

 

La nona sephirâ Yesod si riflette in Guebourâ come Zahabh Tobh (“l’oro buono") di Gen 2,12 (127), che dice: Il nome del primo fiume è Pishon; è quello che circonda il paese di Hevilath dove si trova l’oro. E l’oro di questo paese è buono (tobh). "In effetti, questa misura sephirotica è soprannominata Buono, che si aggiunge così all’attributo Giusto (che è accordato usualmente alla sephirâ Yesod)".  Mosè Cordovero ricorda a tal proposito nel suo lessico che il Giusto è chiamato Buono poiché è detto: Dite al Giusto che egli è buono giacché mangerà il frutto della sua opera. Quel che si può attribuire a Yesod, lo si può attribuire anche a Malcouth. Dunque la decima sephirâ è buona proprio come fu rivendicato a giusto titolo dalla regina Esther quando si indirizzò al re (Esth 8,5): Se ciò è buono agli occhi del re e se io sono buona ai suoi occhi, che si scriva per revocare le lettere concepite da Aman,etc. L’una e l’altra, vale a dire la qualità della bontà che è dal lato del re e quella che è dal lato della regina, quella di Ysod come quella di Malcouth, formano un tutt’uno che proviene dalla quarta sephirâ H'esed. È spiegato nello Zohar a proposito del versetto Ps52,11: Io ti loderò senza fine per ciò che tu hai compiuto e riporrò la mia fede nel tuo Nome, giacché esso è buono, che quando le grazie di colui che è beneamato si riempiono di questa felicità (tibhu) solo allora la sephirâ Yesod sarà detta buona. "Detto altrimenti, quando Netzâ ed Hod sono piene della bontà che proviene da H'esed, allora la benedizione che viene da Tiphereth passa come un soffio violento verso Yesod che riversa tutta la sua bontà in Malcouth per assicurare la felicità e la prosperità di Gerusalemme o, come si sa, la Giustizia supera la notte(Is 1,21). La felicità, la prosperità e la pace sono inseparabili (Ps 128,5-6): Che YHWH ti benedica come Sion! Possa tu vedere la felicità (tubh) di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli! Che la pace sia su Israele! Noi dunque abbiamo forse il segreto della prosperità in oro di Gerusalemme all’epoca del Tempio salomonico.

 

La decima sephirâ Malcouth si riflette in Guebourâ come zahabh Ophir (“l’oro di Ophir”) che è invocato nei versetti Job 22,24; primo Chron 29,4. Per il termine geografico Ophir il redattore del trattato propone una spiegazione etimologica; "è in effetti il nome della terra, (la decima sephirâ Malcouth è chiamata "terra”, quand’essa si trova di fronte a Tiphereth, chiamata "cielo”) come se essa fosse detta della cenere (aphar)". L’immagine così proposta non evoca un campo fertile ma piuttosto il suolo di un paesaggio lunare ricoperto di bianche ceneri la cui fredda bellezza è assetata d’acqua. Questa rimarchevole spiegazione delle dieci specie d’oro e delle loro correlazioni sefirotiche che merita l’ammirazione degli esegeti e dei cabalisti, riceverà eventualmente alcuni apprezzamenti anche da parte degli alchimisti. Forzando un poco il senso letterale dei versetti biblici citati, possiamo forse trovarvi l’idea di una moltiplicazione inusuale dell’oro, ma in nessun modo delle allusioni riguardanti la fabbricazione dell’oro a partire da un altro metallo. In ogni caso, l’oro è considerato sempre come inferiore all’argento così come la sephirâ di Guebourâ è sempre subordinata alla sephirâ H'esed.

A proposito delle ricette chimiche che sono state incorporate in questo lessico negli articoli sull’argento e lo stagno, Scholem rilevava che:

 

"solo uno storico dell’alchimia può dire se l’analisi del processo chimico descritto - di cui non ho potuto verificare l’origine negli altri testi alchemici ma che rappresenta in ogni modo una mescolanza tipica d’alchimia mistica e naturale - può esserci di qualche aiuto per determinare una data qualsiasi".

 

Bisogna precisare che la preparazione della prima materia "che tutti i filosofi chiamano secca, e il loro aceto", che è descritta a proposito dell’argento, e le due ricette che la seguono, che si raccomanda di confrontare con gli scritti del filosofo arabo, probabilmente Geber, non ci forniscono alcuna allusione che meriterebbe veramente l’epiteto di alchimia mistica.

Noi non contestiamo che l’originale ebraico di questo piccolo capitolo possa essere di grande interesse dal punto di vista terminologico al fine di un’eventuale datazione, ma questa versione originale tanto desiderata non ci rivelerebbe di certo nulla a proposito del rapporto dell’alchimia con la qabalah.  È possibile che se il redattore dell’Esh mesareph cita il nome del figlio del celebre rabbino Leone di Modena, avversario della qabalah, è per mettere in evidenza che la ricerca e la sperimentazione chimica hanno penetrato tutti gli ambienti del giudaismo rabbinico e d’ora innanzi non sarebbero da imputare ai soli filosofi delle nazioni. Noi ci domandiamo se non bisogna scorgervi l’inizio di un ragionamento a fortiori che si riassumerebbe nella seguente maniera. Se già il figlio del grande avversario della qabalah può dedicarsi a tali esercizi, a maggior ragione i cabalisti che cercano l’applicazione cosmologica e fisica della loro scienza metafisica devono trovare il tempo necessario per la pratica di quest’arte senza farsi scrupolo del prezioso tempo perso per lo studio della Torah. Per vincere la loro esitazione, sarà loro offerto in più l’esempio dell’approvazione di Rabbi Shim’on bar Yohai e di suo figlio Rabbi Elèazar per mezzo di una citazione dello Zohar che avremo modo di richiamare. Naturalmente, se questo ragionamento che proponiamo fosse accettato come plausibile, il piatto della bilancia penderebbe a favore di una datazione tarda.

È il riferimento a queste ricette che attirerà più particolarmente la nostra attenzione:

 

"Tuttavia, non si è saggi se non si è maestri dell’esperienza. Io non aggiungo null’altro; colui che sa potrà correggere le nature, e sopperirvi mediante le esperienze, laddove quelle manchino".

 

Questa formula inusuale in un trattato di qabalah potrebbe essere resa più esplicita se noi commentassimo alcune delle sue espressioni. Colui che sa - grazie alla scienza metafisica e cosmologica delle dieci sephiroth - potrà correggere le nature - procedendo per via la analogica che connette i dieci principi ai quattro mondi Asilut, Beriyah,Yetzirah, Asiyah, - e sopperirvi mediante le esperienze laddove quelle manchino - mediante un procedimento in cui la scienza della qabalah corregge ed eventualmente guida la pratica sperimentale. Questo metodo in cui la qabalah e la scienza alchemica devono procedere congiuntamente meriterebbe a giusto titolo l’appellativo di "qabalah chimica ".

Per ciò che concerne il contenuto astrologico di quest’opera, che si riassume nella presentazione dei sette amuleti planetari relativi ai sette metalli, Scholem è dell’avviso che esso dovrebbe consentirci di scoprire l’origine dell’insieme di questa speculazione alchemica:

 

"È per mezzo di un’opera un tempo celebre di Agrippa di Nettesheim, De occulta philosophia (che apparve nella sua versione integrale nel 1533 a Colonia) che tali amuleti fecero la loro apparizione in alcuni circoli giudaici ……".

 

Anche se il ruolo di Agrippa è piuttosto quello di un erudito volgarizzatore, possiamo ammettere con Scholem che:

 

"È Agrippa che introdusse per primo tutto questo simbolismo (con l’eccezione di quello del sole) in Occidente in una forma rigorosamente identica a quella che si ritrova nel nostro testo, anche se questi simboli erano già conosciuti da ampi circoli europei sin dal quattordicesimo secolo. Agrippa vi ha dedicato tutto il ventiduesimo capitolo del secondo libro".

È con alcune riserve che accettiamo il ruolo esclusivo attribuito da Scholem a Picatrix, tuttavia il seguito del ragionamento merita di essere citato:

"Agrippa non li cita sulla base di altri autori - dai quali essi probabilmente derivano - neppure dai cabalisti ma semplicemente seguendo dei "libri di magia", vale a dire dei manoscritti in relazione con l’opera magica Picatrix".

 

In quest’indagine mirata alla ricerca del redattore dell’Esh mesareph e della datazione la più remota possibile, non bisogna dimenticare due fenomeni fondamentali. Primo, è inaudito constatare l’introduzione esplicita dei talismani astrologici in un trattato di qabalah, titolo pienamente meritato dai Loci Communes Cabbalistici benché la lingua della pubblicazione sia il latino. Secondo, il redattore dell’Esh mesareph modifica uno dei quadrati magici e da questo fatto interviene attivamente in una tradizione occidentale di cui Agrippa è il porta parola, dietro il quale è lecito vedere in maniera più o meno diretta Tritema.