"Ballo Francese"

Mainerio Giorgio 1535 -1382

 

Lingua ebraica: autenticità del Sepher di Mosè

Le vicissitudini che questo libro ha conosciuto

 

Scegliendo la Lingua ebraica, non mi sono dissimulato nessuna difficoltà, nessun pericolo cui andavo incontro. Una qualche intelligenza della Parola e delle lingue in generale, e il movimento inusitato che avevo dato ai miei studi, mi avevano già da tempo convinto che la Lingua ebraica fosse perduta: e che la Bibbia che noi possediamo fosse ben lungi dall'essere l'esatta traduzione del Sepher di Mosè. Pervenuto a questo Sepher originale per altre vie che non quelle dei Greci e dei Latini, e portato dall'oriente all'occidente dell'Asia, spinto da un impulso contrario a quello che generalmente viene seguito nell'esplorazione delle lingue, mi ero già reso conto che la maggior parte delle interpretazioni volgari suonavano false, e che per restituire la lingua di Mosè nella sua primitiva grammatica, avrei dovuto urtare violentemente tutta una serie di pregiudizi scientifici o religiosi che l'abitudine, l'orgoglio, l'interesse, la ruggine del tempo, il rispetto di cui si circonfondono gli errori antichi, concorrevano insieme a consacrare, riaffermare, a voler mantenere.

Ma se si dovessero sempre ascoltare queste considerazioni pusillanimi, quali cose si perfezionerebbero? L'uomo adolescente ha forse bisogno degli stessi alimenti che il bambino in fasce? esso non muta abito e nutrimento? non vi sono altre lezioni per l'età virile, diverse da quelle della giovinezza? le nazioni selvagge non camminano verso la civiltà? e quelle che sono civili, verso l'acquisizione delle scienze? non vediamo forse l'antro del troglodita fare posto al carro del cacciatore, alla tenda del pastore, alla capanna dell'agricoltore; e questa capanna trasformarsi volta a volta, grazie allo sviluppo progressivo del commercio e delle arti, in comoda magione, in castello, in palazzo magnifico, in tempio sontuoso? questa città superba che voi abitate, e questo Louvre che dispiega ai vostri occhi una così ricca architettura, non riposano forse sullo stesso suolo dove sorgevano un tempo poche miserevoli baracche di pescatori?

 

Esistono, non dubitate, dei momenti marcati dalla Provvidenza, in cui l'impulso che essa fornisce verso nuove idee, distruggendo certi pregiudizi utili all'origine, ma ormai divenuti superflui, li obbliga a cedere, come un abile architetto fa abbattere le incastellature grossolane che sono servite per sopportare le volte del suo edificio. Così come sarebbe inabile o colpevole attaccare questi pregiudizi o abbattere le incastellature quando ancora sono di supporto all'edificio sociale o particolare oppure, adducendo a pretesto la rozzezza, la malagrazia, l'innegabile scomodità, abbatterli, fuori di tempo e luogo, sarebbe ridicolo o timido lasciarli in piedi, invocando un rispetto frivolo o una debolezza superstiziosa., a partire dal momento in cui non servono più a nulla, quando ingombrano, mascherano, snaturano istituzioni più valide, oppure portici più nobili ed elevati. Indubbiamente nel primo caso, e per seguire questa mia similitudine, o il Principe o l'architetto debbono frenare l'ignorante audace e impedirgli di seppellirsi a sua volta sotto le rovine inevitabili; mentre, nel secondo, devono accogliere l'uomo intrepido che, presentandosi con la fiaccola o la leva in mano, viene loro a offrire, malgrado qualche pericolo, un servizio sempre difficile.

Se fossi nato un secolo o due fa, e una serie di circostanze fortunate, servite da un lavoro accanito, avessero messo le stesse verità alla mia portata, le avrei taciute, come hanno dovuto tacerle o chiuderle ermeticamente molti studiosi di tutte le nazioni; ma i tempi sono mutati. Mi guardo intorno e constato che la Provvidenza apre le porte di un giorno nuovo. Ovunque le istituzioni si mettono in armonia con i lumi del mondo. Non ho più esitato. Quale che sia il successo dei miei sforzi, essi hanno per fine il bene dell'umanità e questa intima coscienza mi basta.

Mi ripropongo di restituire la Lingua ebraica nei suoi principi originali e di mostrare la rettitudine e la forza di questi principi, fornendo, per loro mediazione, una traduzione nuova della parte del Sepher che contiene la cosmogonia di Mosè. Mi trovo obbligato a riempire questo duplice compito per la stessa scelta fatta, e di cui è inutile analizzare ancora i motivi. Ma ritengo utile, prima di addentrarmi nei dettagli della Grammatica e delle numerose Note che precedono, preparano e appoggiano la mia traduzione, esporre a questo punto il vero stato delle cose onde premunire gli uomini consapevoli contro le false direzioni che potrei loro dare, nonché indicare il punto esatto della questione agli spiriti indagatori, e far intendere a quanti si fanno guidare o confondere da interessi o pregiudizi di ogni tipo che respingerò qualunque critica che esorbita dai limiti scientifici, che si fonda su opinioni o autorità illusorie, ne conoscerò altro degno atleta diverso da quello che si presenterà sul campo di battaglia delle verità, armato delle mie armi.

Perché, viene chiamato in causa il mio stile? io lo abbandono. Si intende attaccare la mia persona? la mia coscienza è il mio rifugio. Si mette in causa la sostanza di quest'opera? si entri in lizza, ma ponendo molta attenzione alle ragioni addotte. Prevengo che, per me, non tutte saranno egualmente valide.

So molto bene, ad esempio, che i Padri della Chiesa hanno ritenuto, fino a san Gerolamo, che la versione ellenistica, detta dei Settanta, fosse opera divina, scritta da profeti piuttosto che da semplici traduttori, mentre spesso ignoravano persino, almeno stando a sant'Agostino, che esisteva un altro originale; e so anche che san Gerolamo, stimando questa versione corrotta in una infinità di passi, nonché poco esatta, le sostituì una versione latina, che sola venne giudicata autentica dal Concilio di Trento, e per la cui difesa. l'Inquisizione non ha temuto di accendere la fiamma dei roghi. Così i Padri hanno contraddetto ante litteram la decisione del Concilio, e la decisione del Concilio ha a sua volta condannato l'opinione dei Padri della Chiesa: di sorta che non si saprebbe dare completamente torto a Lutero quando dice che gli interpreti ellenisti non avevano una conoscenza esatta dell'ebraico, e che la loro versione era vuota di senso come di armonia, in quanto portava avanti la stessa ipotesi di san Gerolamo, approvata in qualche sorta dal Concilio; ne biasimare Calvino e altri dotti riformati, per avere dubitato dell'autenticità della Vulgata, malgrado la decisione infallibile del Concilio, poiché sant'Agostino aveva considerato quest'opera a partire dall'opinione che tutta la Chiesa se ne formava ai suoi tempi.

E, quindi, non sarà dell'autorità dei Padri della Chiesa né dell'autorità dei Concili che bisognerà armarsi contro di me: in quanto una distrugge l'altra, e ambedue rimangono prive di effetto. Sarà opportuno dimostrare una conoscenza totale e perfetta dell'ebraico e provarmi, non attraverso citazioni greche e latine, che io ricuso, ma sulla base di interpretazioni fondate su principi più corretti dei miei, che io ho frainteso quella lingua, e che le basi su cui riposa il mio edificio grammaticale sono false. Si avverte nettamente che, nel tempo in cui viviamo, non sarà con questi argomenti che si può sperare di convincermi (1).

E se alcune mentalità sincere si potranno meravigliare che io solo, dopo più di venti secoli, abbia potuto penetrare nel genio della lingua di Mosè e comprendere gli scritti di quell'uomo straordinario, risponderò ingenuamente che da parte mia non ritengo che le cose stiano in questi termini; mentre ritengo, per contro, che molti uomini hanno, in tempi diversi e vivendo presso popoli diversi, posseduto l'intelligenza del Sepher nello stesso modo in cui la posseggo; e che gli uni hanno chiuso con prudenza questa conoscenza, la cui divulgazione sarebbe stata in quel momento pericolosa, mentre altri l'hanno circondata di veli abbastanza spessi così da renderne molto difficile la comprensione. E per chi volesse rifiutare ostinatamente di accettare questa spiegazione, invocherò la testimonianza di un uomo dotto e laborioso il quale, dovendo rispondere a una simile difficoltà, così esponeva il suo pensiero: "É ben possibile che un uomo che, ritirato ai confini dell'Occidente, nel XIX secolo d. C., comprenda meglio i libri di Mosè, quelli di Orfeo e i frammenti che ci rimangono degli Etruschi, che non gli interpreti Egizi, Greci e Romani dei secoli di Pericle e di Augusto. Il livello di intelligenza richiesta per comprendere le lingue antiche è indipendente dal meccanismo e dal materiale di queste lingue: ed è tale che la distanza dai luoghi non ò in grado di pregiudicare. Questi libri antichi sono meglio compresi oggi di quanto non lo fossero persino dai loro contemporanei, in quanto i loro autori, per la forza del loro genio, si sono avvicinati a noi nella misura in cui si sono allontanati dai loro contemporanei. Non è solo questione di comprendere il senso delle parole, si deve anche entrare nello spirito delle idee. Spesso le parole offrono nei loro rapporti volgari un senso del tutto opposto allo spirito che ne ha presieduto l'accostamento.....

Vediamo adesso quale è lo stato delle cose. Ho detto che riguardavo l'idioma ebraico racchiuso nel Sepher come un ramo trapiantato della lingua degli Egizi. É un'asserzione di cui non posso in questo momento fornire le prove storiche, che comporterebbero dettagli troppo estranei al mio soggetto: ma mi sembra che qui dovrebbe bastare il semplice buon senso: poiché quale che sia il modo in cui gli Ebrei sono entrati in Egitto, e ne sono usciti , non si può negare che essi vi abbiano fatto un lunghissimo soggiorno. Quando anche questo soggiorno non fosse stato che di quattro-cinque secoli, come tutto, porta a credere mi domando in buona fede se una popolazione grossolana, priva di letteratura, e senza alcuna istituzione civile o religiosa che la coagulassero non avrebbe dovuto assumere la lingua del paese in cui viveva; una popolazione e che, trasportata in Babilonia, per soli 70 anni, e quando già formava un corpo di nazione, retta da leggi particolari, sottomessa a un culto esclusivo, non è riuscita a conservare la sua lingua madre che ha sostituita con il sriaco aramaico, specie di dialetto caldaico; poiché è sufficientemente noto che l'ebraico, perduto a partire da quest'epoca, cessò di essere la lingua volgare degli Ebrei.

A questo punto credo che non si possa, senza chiudere gli occhi volontariamente all'evidenza, rigettare un'asserzione così naturale e rifiutare di ammettere con me che gli Ebrei, uscendo dall'Egitto dopo un soggiorno durato oltre 400 anni, non ne avessero portato seco la lingua. Non pretendo di distruggere con questa ipotesi quanto hanno avanzato Bochart, Grotius, Huèt, Leclerc, e gli altri linguisti moderni, a proposito dell'identità radicale che essi hanno, e a ragione, riscontrata tra l'ebraico e il fenicio; poiché so che quest'ultimo dialetto, portato in Egitto dai re pastori, si era identificato con l'antico egizio, molto tempo prima dell'arrivo degli Ebrei sulle rive del Nilo.

Quindi, l'idioma ebraico doveva avere rapporti molto stretti con il dialetto fenicio, il caldaico, l'arabo, tutti usciti da una stessa matrice; ma, coltivato per molto tempo in Egitto, vi aveva acquisito sviluppi intellettuali che, prima della degenerescenza che ho riferito, ne facevano una lingua morale radicalmente diversa dal cananeo volgare. É il caso che riferisca a che livello di perfezione era pervenuto l'Egitto? quale dei miei lettori non conosce gli elogi pomposi che gli attribuisce Bossuet, quando, accantonata per un momento la sua parzialità teologica, osservava che i più nobili studi e la più bella arte di questa contrada consisteva nel formare gli uomini; fatto di cui la Grecia era tanto consapevole che i suoi più grandi uomini, un Omero, un Pitagora, un Platone, lo stesso Licurgo e Solone, i due grandi legislatori, e altri che mi dispenso dal nominare, vi andarono per apprenderne la sapienza.

Ora, Mosè non era stato istruito in tutte le scienze degli Egizi? non aveva, come insinua lo storico degli Atti degli Apostoli, iniziato, a partire da quel momento, a essere potente in parole e in opere? pensate che vi sarebbe molta diversità tra i libri sacri degli Egizi, se si fossero salvati dalle rovine del loro impero e avessero potuto essere confrontati con quelli di Mosè? Simplicio, che fino a un certo punto era stato in grado di fare questo confronto, vi trovava tanta conformità, che ne concludeva come il profeta degli Ebrei avesse camminato sulle tracce dell'antico Taoth.

Qualche linguista moderno, dopo aver esaminato il Sepher in traduzioni scorrette, e in un testo che erano incapaci di comprendere, colpiti da alcune ripetizioni, e credendo di vedere in numeri presi alla lettera dei patenti anacronismi, hanno talvolta immaginato che Mosè non fosse mai esistito, talaltra che avesse lavorato su memorie frammentarie, di cui egli stesso e i suoi segretari avevano malaccortamente ricucito i frammenti. Si è anche sostenuto che Omero fosse un essere fantastico; come se l'esistenza dell'Iliade e dell'Odissea, capolavori di poesia, non garantissero l'esistenza del loro autore. Bisogna essere ben scarsi poeti e sapere ben male qual è la composizione e il piano di un'opera epica, per ritenere che una troupe di rapsodi succedentesi gli uni agli altri, possa mai assurgere all'unità maestosa dell'Iliade. Bisogna avere un'idea ben falsa dell'uomo e delle sue concezioni per persuadersi che libri come il Sepher, il King, il Veda possano presumere di elevarsi per sopruso o soperchieria al rango di Scrittura divina, ed essere stati compilati con la stessa distrazione che certi autori riservano ai loro libelli indigesti.

Indubbiamente alcune note, alcuni commenti, alcune riflessioni scritte in un primo tempo a margine, hanno talvolta potuto insinuarsi nel testo del Sepher: Ezra ha potuto restaurare male qualche pagina mutila, ma la statua di Apollo Pizio, malgrado qualche leggera screpolatura rimane in piedi, capolavoro di uno scultore unico, il cui nome ignorato è il particolare meno importante. Disconoscere nel Sepher il sigillo del grand'uomo, significa mancare di scienza: volere che questo grand'uomo non si chiami Mosè, significa mancare di critica.

É certo che Mosè si è servito di libri più antichi e forse di memorie segrete, come hanno supposto Leclerc, Richard Simon e l'autore delle congetture sul Genesi. Ma Mosè non lo nasconde mai: egli cita in due o tre passi del Sepher il titolo delle opere che ha sotto gli occhi: è il libro delle Generazioni di Adamo (Sepher I, c.5); è il libro delle Guerre di Iohah (Ibid. IV, c.21); è il libro Delle Profezie (Ibid. IV, c.21, vers.27), Si parla - in Giosuè - del Libro dei Giusti (Giosué, c.10, vers.13). É, quindi, ben altro che compilare vecchie memorie o farle compilare a degli scribi, come hanno invece supposto questi scrittori; è ben diverso che sintetizzarli, come supponeva Origene (Epistola ad Affric.). Mosè creava copiando: ecco ciò che fa il grande genio. É forse pensabile che Omero non abbia imitato altri? il primo verso dell'Iliade è copiato dalla Demetriade di Orfeo. La storia di Elena e, la guerra di Troia era conservata negli archivi sacerdotali di Tiro, da dove questo poeta la attinse. É anche assodato che l'avesse talmente modificata, fino a fare una donna del simulacro della Luna e degli uomini, che chiamò Greci e Troiani, degli Eoni, gli Spiriti celesti, che se ne disputavano il possesso.

Mosè era penetrato nei santuari dell'Egitto ed era stato iniziato ai misteri: lo si scopre facilmente esaminando la forma della sua Cosmogonia. Egli possedeva certamente un gran numero di geroglifici che spiegava nei suoi scritti, come sostiene Filone il suo genio e la sua particolare ispirazione facevano il resto Adoperava la lingua egizia in tutta la sua purezza (2). Lingua che era a quel tempo pervenuta al più alto grado di perfezione. E che non tardò a imbastardirsi nelle mani di una popolazione grossolana, abbandonata a se stessa nei deserti dell'Idumea. Mosè fu un gigante manifestatosi all'improvviso in un mondo di pigmei. Il corso straordinario che aveva impresso alla sua nazione non poteva durare, ma era sufficiente che il deposito sacro che egli tramandava nel Sepher fosse conservato con cura, perché le vie della Provvidenza fossero rispettate.

Sembra - al dire dei più famosi rabbini - che lo stesso Mosè, prevedendo la sorte che il suo libro doveva subire, e le false interpretazioni che dovevano essergli attribuite nei tempi, fece ricorso a una legge orale che egli impartì a viva voce ad alcuni uomini di fede provata e sicuri, ai quali affidò il compito di trasmetterla, nel segreto del santuario, ad altri uomini i quali la trasmettessero a loro volta, di tempo in tempo, facendola pervenire alla posterità più tarda. Questa legge orale, che gli Ebrei moderni si illudono ancora di possedere, è detta Qabalah, da un termine ebraico che significa ciò che è ricevuto, che viene da altrove, ciò che si passa di mano in mano, ecc. I libri più famosi che si posseggono, quali lo Zohar, il Bahir, le Medrashim, le due Ghemara, che compongono il Talmud, sono quasi interamente cabalistici.

Sarebbe molto difficile dire oggi se Mosè ha realmente lasciato questa legge orale oppure se, pur avendola lasciata, essa non si è alterata, come sembra insinuare il dotto Maimonide, quando scrive che molti della sua nazione hanno perduto la conoscenza di un'infinità di cose, in difetto delle quali è quasi impossibile comprendere la Legge. Comunque stiano le cose, non si può che ammettere che una simile istituzione fosse perfettamente nello spirito degli Egizi, di cui si conosce sufficientemente il gusto per i misteri.

Del resto, la cronologia poco praticata prima delle conquiste di Kosru, il famoso monarca persiano che noi conosciamo con il nome di Ciro, non consente di fissare facilmente l'apparizione di Mosè. Solo per approssimazione si può collocare, a circa 1500 anni prima dell'era cristiana, l'emissione del Sepher. Dopo la morte di questo legislatore teocratico, il popolo cui aveva affidato il deposito sacro vive ancora nel deserto per un certo tempo e non vi si stabilisce che dopo una serie di lotte. La sua vita nomade influisce sul linguaggio, che degenera rapidamente. Il suo carattere si inasprisce; il suo spirito turbolento si accende. Leva le mani contro di sé. Sulle dodici tribù che lo compongono, una, quella di Beniamino, è quasi interamente distrutta. E tuttavia, la missione che doveva compiere, e che aveva necessitato le leggi esclusive, allarma i popoli vicini; i suoi costumi, le sue istituzioni straordinarie, il suo orgoglio, li irritano; diventa la mira dei loro attacchi. In meno di quattro secoli subisce fino a sei volte la schiavitù; e per sei volte è liberato dalle mani della Provvidenza che vuole la sua conservazione. In mezzo a queste raddoppiate catastrofi, il Sepher è salvaguardato; ricoperto da una utile oscurità, esso segue i vinti, si sottrae ai vincitori, e per un tempo molto lungo rimane sconosciuto ai suoi detentori stessi. Troppa pubblicità ne avrebbe comportato la perdita. Se è vero che Mosè avrebbe lasciato delle istruzioni orali per evitare la corruzione del testo, è indubitabile che non assunse tutte le precauzioni possibili per assicurarne la conservazione. Si può quindi riguardare come molto probabile, che quanti si trasmettevano in silenzio e nel più inviolabile segreto il pensiero del profeta, si trasmettevano nello stesso modo il suo libro e, nel cuore dei disordini, lo preservavano dalla distruzione.

Ma infine, dopo quattro secoli di disastri, un giorno più dolce sembrò levarsi su Israele. Lo scettro teocratico viene diviso: gli Ebrei si danno un re, e il loro impero, benché rinserrato tra potenti vicini, non rimane senza splendore. A questo punto, un nuovo scoglio si precisa. La prosperità farà quello che non aveva potuto il disastro. La mollezza, assisa sul trono,, si insinua fino agli ultimi ranghi del popolo. Alcune fredde cronache, alcune allegorie mal comprese, certi canti di vendetta e di orgoglio, certe canzoni di voluttà, decorate dei nomi di Giosuè, di Ruth, di Samuele, di Davide, di Salomone, usurpano il posto del Sepher. Mosè è dimenticato: le sue leggi misconosciute. I depositari dei suoi segreti, investiti dal lusso, in preda a tutte le tentazioni dell'avarizia, finiranno per dimenticare i loro giuramenti. La Provvidenza alza il braccio su questo popolo, indocile, colpendolo nel momento in cui meno se lo aspetta. Esso si agita in convulsioni intestine, si divide. Dieci tribù si separano e conservano il nome di Israele. Le altre due tribù prendono il nome di Giuda. Un odio irriconciliabile si eleva tra questi due popoli rivali; che alzano altare contro altare, trono contro trono; Samaria e Gerusalemme hanno ognuna un santuario. La sicurezza del Sepher nasce da questa divisione.

Tra le varie controversie suscitate da questo scisma, ogni popolo si richiama alla sua origine, invoca le proprie leggi misconosciute, cita il Sepher dimenticato. Tutto prova che i due contendenti non possedevano più il libro, e fu solo per un dono del cielo che esso venne ritrovato, molto tempo dopo. Questo avvenimento decise della sorte di Gerusalemme. Samaria, privata del suo palladio, piegata ormai da un secolo dalla potenza degli Assiri, era caduta; e le sue dieci tribù, fatte schiave, e disperse tra le nazioni dell'Asia, non avendo più alcun legame religioso o, per parlare più chiaro, non entrando più nelle vie conservatrici della Provvidenza, si erano fuse con gli Assiri: mentre Gerusalemme, che aveva ritrovato il suo codice sacro, proprio nel momento di maggior pericolo, vi aderì con una forza che nulla poté spezzare. Vanamente i popoli di Giuda furono fatti schiavi, vanamente la loro città regale venne distrutta come era stata distrutta Samaria; il Sepher, che li aveva seguiti a Babilonia, rappresentò la loro salvaguardia. Essi poterono anche perdere, durante i 70 anni che durò la cattività, persino la loro lingua madre, ma non furono mai separati dall'amore per le loro leggi. Per restituirla, era necessaria una sola cosa, un uomo di genio. Quest'uomo si trovò, perché il genio non manca mai là dove la Provvidenza lo chiama.

Quest'uomo si chiamava Ezra. Forte d'animo e di costanza a tutta prova, Ezra capisce che il momento è favorevole, che la caduta dell'impero assiro, rovesciato dalle mani di Ciro, gli offre l'opportunità di ristabilire il regno di Giuda. E ne profitta abilmente. Ottiene dai monarchi persiani la libertà per i Giudei; li riconduce sulle rovine di Gerusalemme. Ma anche prima della cattività, la politica dei re assiri aveva rianimato lo scisma samaritano. Alcune popolazioni cushite o scite, portate a Samaria, si erano amalgamate ai tronconi di Israele e persino ai resti dei Giudei che vi erano rifugiati. Babilonia aveva anche concepito il disegno di opporli ai Giudei, la cui fermezza religiosa inquietava. Babilonia aveva loro inviato una copia del Sepher ebraico, per mano di un sacerdote devoto agli interessi della corte. Onde, quando Ezra apparve, questi nuovi Samaritani si opposero con tutte le loro forze. Lo accusarono presso il grande re di voler fortificare una città, e di erigere una 'cittadella piuttosto che un tempio: Sembra anche che, non contenti di calunniarlo, si armarono per combatterlo.

Ma Ezra era difficile da intimidire. Non solamente respinge gli avversari e ne vanifica gli intrighi: ma, colpendoli di anatema, eleva tra di loro e i Giudei una barriera insormontabile. Ma fa di più: non potendo togliere loro il Sepher ebraico, di cui avevano ricevuto una copia a Babilonia, medita di dare un altra forma al suo e prende la risoluzione di modificarne i caratteri.

Mezzo tanto più facile in quanto i Giudei, a quell'epoca, non solo avevano denaturato, ma totalmente perduto l'idioma dei loro antenati, tanto da leggere i caratteri antichi con difficoltà, abituati com'erano al dialetto assiro e ai caratteri moderni di cui i Caldei erano stati gli inventori. Questa innovazione, che sembra rispondere unicamente a una sollecitazione di natura politica, ma che certamente finì per sortire un risultato molto positivo quanto alla conservazione del libro di Mosè, come dirò nella mia Grammatica, in quanto suscitò fra i due popoli un'emulazione che ha contribuito non poco a far pervenire fino a noi un libro al quale erano legati così alti interessi.

E, d'altra parte, Ezra non agì da solo in questa circostanza. L'anatema che aveva scagliato contro i Samaritani, nel momento in cui fu approvato dai dottori di Babilonia, gli fornì l'opportunità di convocarli e di tenere con loro quella grande sinagoga, così famosa nei libri dei rabbini. E proprio quella sinagoga ratificò il cambiamento dei caratteri; l'introduzione dei punti-vocali nell'uso volgare della scrittura, nonché l'inizio dell'antica mashora, che sarebbe gravissimo errore confondere con la massora moderna, opera dei rabbini di Tiberine, e la cui origine non risale oltre il 5° sec. dell'era cristiana (3).

 

Ezra fece anche di più. Volendo discostarsi dai Samaritani ma anche compiacere i Giudei, che la lunga abitudine e il soggiorno a Babilonia avevano abituato a scritture più moderne di quelle mosaiche, e molto meno autentiche, Ezra decise di ritoccare quelle scritture che gli apparivano difettose o alterate e compose una raccolta che fece seguire al Sepher. L'assemblea da lui preseduta approvò il suo lavoro, ritenuto empio dai Samaritani; poiché è utile sapere che i Samaritani riconoscono unicamente il Sepher di Mosè e rifiutano tutte le altre scritture come apocrife. Anche oggi gli Ebrei non tengono in uguale venerazione tutti i libri che compongono il corpus che noi chiamiamo Bibbia. Essi conservano gli scritti di Mosè con un'attenzione molto più scrupolosa, li imparano a memoria, e li recitano molto più spesso che non gli altri. Gli eruditi che sono stati in grado di esaminare i loro diversi manoscritti assicurano che la parte consacrata ai libri della Legge è sempre molto più esatta e meglio trattata del resto.

Questa revisione e queste aggiunte hanno fatto pensare in un secondo tempo che Ezra fosse l'autore di tutte le scritture della Bibbia. Non solo i filosofi moderni hanno fatto loro questa opinione , che sembrava favorire il loro scetticismo, ma molti Padri della Chiesa e molti eruditi l'hanno sostenuta con vigore, rendendola più conforme al loro odio contro gli Ebrei: e fondandosi soprattutto su un passaggio attribuito allo stesso Ezra. Ritengo di avere abbastanza provato con il ragionamento che il Sepher di Mosè non poteva essere una supposizione né una compilazione di materiale diverso; poiché non si suppone né si compila mai un'opera di tale natura: e quanto alla sua integrità ai tempi di Ezra, esiste una prova di fatto irrefutabile: il testo samaritano. Si comprende, per poco che vi si rifletta, come nella situazione in cui stavano le cose, i Samaritani, nemici mortali dei Giudei, colpiti di anatema da Ezra, non avrebbero mai riconosciuto un libro di cui Ezra fosse stato l'autore. I Samaritani si sono ben guardati dal riconoscere le altre scritture: il che potrebbe anche fare dubitare della loro autenticità. Ma non ho alcuna intenzione di entrare in una discussione a questo riguardo. É solo degli scritti di Mosè che io mi occupo; li ho designati espressamente sotto il nome di Sepher, per distinguerli dalla Bibbia in generale, il cui nome greco ricorda la traduzione dei Settanta, e comprende tutte le aggiunte di Ezra, nonché altre più moderne.

 

 

1. I Padri della Chiesa possono indubbiamente essere citati come gli altri scrittori, ma su argomenti di fatto, e secondo le regole della critica. Dire che essi ritengono che la traduzione dei Settanta sia opera ispirata da Dio: citarli in questo caso è inaccettabile, se invece si pretende che questa citazione corrobori la sostanza del fatto, la citazione è ridicola. Prima di addentrarsi in una discussione critica, occorre studiare le eccellenti regole poste da Féret, il più giudizioso. critico che la Francia abbia posseduto. (Vedi Acad. de Belles Lettr.,T.VI; Mémoir., p. 146; T.IV, p. 411, T. XVIII, p. 49, T. XXI, Hist., p. 7, sgg.).

2. Non mi soffermo a polemizzare con l'opinione di coloro che sembrano credere che il copto non differisce dall'egizio antico; perché, come immaginare che una simile opinione sia seria? tanto varrebbe sostenere che la lingua di Boccaccio e di Dante é esattamente quella di Cicerone e di Virgilio. Sostenendo un simile paradosso si può anche fare dimostrazione di spirito ma non si darà prova, certamente di critica o di semplice senso comune.

3. La prima mashora,il cui nome indica l'origine assira, come dimostrerò nella mia Grammatica, regola il modo in cui deve essere scritto il Sepher, sia per l'uso del tempio che per quello dei singoli; i caratteri che devono essere impiegati, le divisioni in libri, capitoli e versicoli che devono essere accettati nelle opere di Mosé; la seconda massora, che scrivo con diversa ortografia, per distinguerla dalla prima, oltre ai caratteri, i punti-vocali, i libri, i capitoli, e i versicoli di cui tratta a sua volta, entra nei più minuti dettagli che vanno fino al numero delle parole e delle lettere che compongono ognuna di queste divisioni in particolare, nonché dell'opera in generale: annota i versicoli in cui mancano delle lettere, e quelli in cui qualche lettera é superflua o é stata sostituita con un'altra; designa con il termine Keri e Chetib le diverse lezioni che si devono sostituire leggendo, nel mezzo o alla fine di un versicolo; indica quali lettere devono essere pronunciate, sottintese, anagrammate, scritte perpendicolarmente, ecc. É per non aver voluto distinguere tra di loro queste due istituzioni, che gli eruditi dei secoli scorsi si sono abbandonati a discussioni assai vive; gli uni, tra cui Buxtorff, non riconoscevano che la prima mashora di Ezra, non ammettendo che vi fosse stata una massora più moderna; atteggiamento ridicolo, considerate le sottigliezze cui ho fatto cenno; gli altri, tra cui Capella, Morin, Walton, lo stesso Richard Simon, non accettano che la massora dei rabbini di Tiberiade, e negano la mashora antica, cosa anche più ridicola, se si pone mente alla scelta dei caratteri, ai punti-vocali, e alle primitive partizioni del Sepher. Tra i rabbini, tutti quelli che vantano qualche nome, hanno sostenuto l'antichità della mashora: solo Elia Levita l'ha riferita a tempi più moderni. Ma forse intendeva solo riferirsi alla massora di Tiberiade. É raro che i rabbini dicano tutto quello che pensano.

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