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		© MOSHE IDEL
		 
											
											  
											
											
											Partenio rimase molto impressionato 
											da Arsenio e Nicola e dal loro modo 
											di celebrare la Messa e riferì: 
 
 
											
											«Mentre 
											l'uno sta in lacrime davanti al 
											Trono di Dio e, per il copioso 
											pianto non può quasi pronunciare 
											parola, l'altro, davanti al leggio, 
											piange egli pure» 
											
											  
											
											Come i mistici di altre religioni, i 
											cabalisti fecero uso di varie 
											tecniche per suscitare stati di 
											coscienza paranormali. Malgrado la 
											notevole importanza di queste 
											pratiche, la loro storia e la loro 
											descrizione hanno ricevuto solo una 
											scarna e sporadica attenzione nei 
											recenti studi di mistica giudaica. 
											
											La 
											stessa esistenza di sistemi 
											elaborati di pratiche mistiche 
											costituisce la prova 
											dell’attendibilità delle confessioni 
											dei mistici ebrei. Il fatto che i 
											cabalisti, nel narrare le loro 
											esperienze mistiche, descrivessero 
											anche le tecniche impiegate, rende i 
											loro testi particolarmente preziosi 
											per la conoscenza degli aspetti 
											pratici delle tecniche e della 
											natura esperienziale della loro vita 
											mistica. 
											
											A 
											differenza della terminologia 
											unitiva, profondamente influenzata 
											da fonti esterne, le descrizioni 
											delle tecniche mistiche combinano 
											elementi ebraici antichi con ogni 
											probabilità autentici, con pratiche 
											derivanti da fonti estranee. 
											
											In 
											questo capitolo mi occuperò di 
											quattro delle principali tecniche 
											mistiche. Le prime due - il pianto e 
											l’ascensione dell’anima - 
											esemplificano la continuità della 
											tradizione mistica giudaica, 
											indipendentemente dai mutamenti 
											delle concezioni teologiche 
											verificatisi nel corso dei secoli; 
											le ultime due - combinazione di 
											lettere e visualizzazione di colori 
											- rappresentano i generi di tecniche 
											«intensive» più caratteristiche del 
											periodo medioevale. Ho 
											deliberatamente ignorato una lunga 
											serie di altri mezzi utilizzati per 
											conseguire stati paranormali di 
											coscienza, quali le tecniche 
											oniriche, l’isolamento o la 
											concentrazione mentale; che ho 
											trattato in altri contributi (Inquires 
											pp. 201-226; Hitbodedut; The 
											Mystical Experience). 
											
											  
											
											
											Inizierò la mia descrizione delle 
											tecniche focalizzando l’attenzione 
											su una pratica - fino ad oggi 
											ignorata - che può essere ricondotta 
											attraverso tulle le fasi principali 
											della mistica ebraica per un periodo 
											di oltre due millenni. Mi riferisco 
											alla raccomandazione del pianto come 
											mezzo per ottenere rivelazioni - 
											principalmente di carattere visivo - 
											e/o per svelare segreti. 
											
											Prima 
											di introdurre il materiale relativo 
											al tema in questione, presenterò un 
											excursus del ruolo del pianto in 
											ambito giudaico. All’interno della 
											cornice nomica, piangere per uno 
											spazio di tempo determinato era una 
											manifestazione obbligatoria da 
											compiersi nel quadro del periodo di 
											lutto tributato ad uno dei membri 
											della famiglia o ad un saggio 
											eminente. Appare evidente dalle 
											normative halakiche che, quantunque 
											il pianto fosse obbligatorio nel 
											periodo di lutto, non era 
											considerato comportamento 
											conveniente alla vita di tutti i 
											giorni. Il pianto era raccomandato 
											anche nelle celebrazioni connesse 
											con il lutto per la Distruzione del 
											Tempio, come parte del rito di 
											Tiqqun hassot, o come componente 
											basilare dell’osservanza del 9 di 
											Av. Erano particolarmente apprezzate 
											le lacrime versate in quest’ultima 
											circostanza: Dio stesso veniva 
											immaginato in lacrime per la 
											Distruzione del Tempio. Oltre a 
											questi casi di lamentazione per una 
											perdita personale o nazionale, il 
											pianto era considerato parte del 
											processo di pentimento. 
											
											Tutte 
											queste circostanze di pianto erano 
											rivolte al passato, indirizzate cioè 
											ad un evento o ad alcuni eventi che 
											si erano già verificati. Le pratiche 
											di pianto rivolte al futuro erano 
											più limitate; il pentimento e il 
											pianto potevano contribuire 
											all’avvento del Messia: per 
											affrettare l’evento venivano 
											costituiti gruppi di lamentatori. 
											Secondo un’altra versione il pianto 
											faceva parte del processo di 
											pentimento che avrebbe dovuto 
											favorire la salvaguardia degli ebrei 
											dagli eventi terribili che avrebbero 
											caratterizzato il periodo 
											immediatamente precedente la venuta 
											del Messia. Questi tipi di pianto, 
											rivolti al passato o al futuro, 
											erano associati a concezioni 
											midrashico-talmudiche della vita e 
											della storia. Pur non essendo 
											obbligatoria la partecipazione a 
											queste pratiche rivolte al futuro, 
											il loro ruolo aveva un’evidente 
											finalità nazionale. Prenderò in 
											esame due pratiche di pianto rivolte 
											al presente, così come esse sono 
											documentate nei testi mistici 
											ebraici. Il primo genere è il pianto 
											mistico, cioè lo sforzo di ricevere 
											visioni e informazioni su segreti 
											come risultato diretto di pianto 
											autoindotto. Il secondo genere, di 
											carattere teurgico, intendeva 
											provocare il pianto «superiore»: 
											secondo questa concezione le lacrime 
											umane possono innescare processi a 
											livello divino. L’attività teurgica 
											rivolta al presente sarà analizzata 
											nel capitolo dedicato alla teurgia 
											cabalistica; è tuttavia necessario 
											osservare fin d’ora le principali 
											differenze tra questi due generi di 
											pianto. Il secondo è essenzialmente 
											una reinterpretazione teurgica delle 
											raccomandazioni nomiche al pianto; i 
											processi superiori costituivano 
											l’obiettivo da perseguire mediante 
											questa tecnica; il cabalista è 
											strumento e non fine ultimo di tale 
											attività Il pianto mistico, al 
											contrario, aveva, quale fine ultimo, 
											l’acquisizione di una presa di 
											coscienza paranormale da parte del 
											cabalista. Quantunque considerato 
											interpretazione spirituale di 
											pratiche nomiche, esso può essere 
											altrettanto facilmente definito 
											attività anomica, dal momento che 
											non si assiste a nessuna rivelazione 
											di segreti né si discutono tematiche 
											esoteriche, fatta eccezione per le 
											visioni di Dio, ereditate dalla 
											tradizione midrashico-talmudica. 
											Inoltre il rinvenimento delle prime 
											attestazioni di questa pratica in 
											testi pre-talmudici o midrashici è 
											una prova importante della sua 
											indipendenza dalle classiche regole 
											halakiche. D’altro canto, esistono 
											solo scarsi riferimenti a questa 
											concezione del pianto nelle fonti 
											classiche rabbiniche: su tale 
											problema mi soffermerò più a lungo 
											al termine di questo paragrafo. 
											
											La 
											prima attestazione del pianto 
											mistico è riscontrabile nella 
											letteratura apocalittica. In una 
											versione di 2 Enoch si afferma a 
											proposito di questo patriarca che 
											«piangevo e mi addoloravo con i 
											(miei) occhi. Quando mi sono steso 
											sul letto, mi sono addormentato e 
											due grandi uomini sono apparsi di 
											fronte a me». Un interessante 
											parallelo è attestato in 4 Ezra; 
											l’angelo che in precedenza ha 
											rivelato alcuni segreti al profeta 
											conclude il suo discorso con queste 
											parole: «se tu pregherai ancora, 
											piangerai come stai facendo adesso e 
											digiunerai per sette giorni, 
											ascolterai cose ancora più grandi di 
											queste». Successivamente Ezra 
											scrive: «Ho digiunato per sette 
											giorni, lamentandomi e piangendo, 
											come mi ha ordinato l’angelo Ariel»; 
											in seguito egli riceve una seconda 
											visione. Anche la terza visione è 
											preceduta da una simile sequenza di 
											eventi: «Ho pianto ancora e ho 
											digiunato per sette giorni come 
											prima». Simili affermazioni 
											ricorrono nell’Apocalisse di Baruk. 
											Baruk e Geremia seguono la stessa 
											pratica: «abbiamo strappato i nostri 
											abiti, abbiamo pianto e ci siamo 
											lamentati per sette giorni e dopo 
											sette giorni accadde che la Parola 
											di Dio venne a me» Una 
											caratteristica comune del pianto 
											«apocalittico» è lo stato di 
											desolazione, associato al motivo 
											della Distruzione del Tempio o ad 
											altri segni della decadenza 
											religiosa; il senso di disperazione 
											si esprimeva nel pianto, seguito da 
											rivelazioni confortanti. La 
											connessione tra il pianto e le 
											percezioni paranormali che si 
											manifestano nei sogni appare 
											evidente anche in un racconto 
											midrashico: 
											
											Uno degli studenti di Šim'on bar 
											Yoha'y aveva dimenticato quanto 
											aveva appreso. Si recò al cimitero 
											in lacrime. A causa del suo grande 
											pianto, egli (Šim'on) venne a lui in 
											sogno e gli disse: «Quando ti 
											lamenti, getta nel fuoco tre fascine 
											di legna e io verrò». Lo studente 
											andò da un interprete di sogni e gli 
											chiese che cosa gli fosse accaduto. 
											Quest’ultimo gli rispose: «Ripeti il 
											tuo capitolo (cioè qualsiasi cosa tu 
											impari) tre volte ed esso ti tornerà 
											alla memoria». Lo studente così fece 
											e in effetti così accadde. 
											
											  
											
											La 
											connessione tra il pianto e la 
											visita ad una tomba sembra associata 
											ad una pratica volta a provocare una 
											visione. Ad essere esatti, si tratta 
											di una concezione connessa con la 
											diffusa credenza secondo la quale 
											era possibile ottenere una visione 
											nei cimiteri. Addormentarsi 
											piangendo, come si legge nel brano 
											riportato, sembra ugualmente far 
											parte della sequenza: visitare il 
											cimitero - piangere - addormentarsi 
											piangendo - ottenere la rivelazione 
											in sogno. Come avremo modo di 
											osservare, questa sequenza, con 
											l’eccezione della visita alle tombe, 
											si ripete nell’esperienza di Ḥayyim 
											Vital. É evidente che l’aneddoto 
											citato era stato conservato nel 
											testo midrashico perché offriva un 
											rimedio – la tecnica mnemonica della 
											ripetizione – a chi dimentica la 
											Torà. Ancora una volta ricorre la 
											connessione tra il pianto e il 
											miglioramento della propria 
											conoscenza della Torà. 
											
											
											Muovendomi in tale contesto, 
											analizzerò un passo dei Midraš 
											hallel, un testo tardo che elabora 
											un tema già trattato nell’Avot 
											de-Rabbi Natan : 
											
											  
											
											«Che 
											muta la rupe in un lago, la roccia 
											in una fonte d’acqua». Abbiamo 
											insegnato che 'Aquiva e Ben ‘Azzai 
											erano aridi come questa roccia, ma 
											poiché si tormentavano per amore 
											dello studio della Torà, Dio aprì 
											loro uno spiraglio per (comprendere) 
											la Torà e quegli argomenti che la 
											scuola di Shammai e la scuola di 
											Hillel non potevano comprendere 
											(...) e soggetti che erano oscuri al 
											mondo venivano interpretati da 
											'Aquiva, come è scritto: «Lega le 
											sorgenti dei fiumi in modo che non 
											versino e quel che vi è nascosto 
											porta alla luce»,” ciò che mostra 
											che l’occhio di 'Aquiva aveva visto 
											la Merkaḅah, allo stesso modo in 
											cui l’aveva veduta il profeta 
											Ezechiele; perciò sta scritto: «Che 
											muta la rupe in lago». 
											
											  
											
											La 
											metamorfosi da roccia in fonte 
											d’acqua è una metafora che indica la 
											trasformazione di Rav 'Aquiva da 
											uomo limitato a fonte di conoscenza 
											halakica ed esoterica: tale 
											metamorfosi fu determinata dal suo 
											tormento interno, accompagnato dal 
											pianto. Giobbe 28,11 attesta il 
											termine ebraico beki («piangere» 
											secondo il testo masoretico), 
											generalmente tradotto col valore di 
											«gocciolare, versare». 
											Evidentemente, secondo l’anonimo 
											interprete, il versetto indica che 
											Dio, mediante il «pianto», avrebbe 
											manifestato le cose nascoste; prova 
											decisiva del ruolo svolto dal pianto 
											nel determinare il nuovo status di 
											'Aquiva è la menzione del suo 
											«occhio». L’intero passo può essere 
											interpretato secondo un duplice 
											livello di lettura: il pianto ha 
											trasformato 'Aquiva da roccia in 
											fonte; il suo occhio, che ha portato 
											a tale mutazione, ha avuto una 
											visione del carro divino. Seguendo i 
											due versetti del libro di Giobbe, 
											possiamo riassumere i soggetti 
											indicati nel Midraš hallel; la 
											sofferenza e il pianto aprono la 
											strada: 
											
											  
											
											1- alla 
											rivelazione, cioè alla visione («e 
											su quanto è prezioso posa il suo 
											occhio»), o alla visione della 
											Merkaḅah; 
											
											2 - 
											alla comprensione di argomenti 
											esoterici: «e quel che vi è di 
											nascosto porta alla luce». 
											
											  
											
											Questi 
											due effetti della sofferenza e del 
											pianto ricorrono in alcuni testi 
											cabalistici che saranno analizzati 
											in seguito. Sarebbe necessario 
											sottolineare che la combinazione 
											della visione e dei segreti della 
											Torà indica che tali segreti non 
											rappresentano solo un’informazione 
											ignota e celata agli occhi delle 
											generazioni precedenti; ritengo che 
											proprio in virtù della loro 
											comprensione sia stata prodotta la 
											trasformazione di 'Aquiva in 
											«fonte»: quest’ultimo termine è 
											presumibilmente da intendere in 
											connessione con gli insegnamenti 
											della Torà. 
											
											  
											
											Prima 
											di procedere nella nostra 
											trattazione, mi sembra opportuno 
											analizzare brevemente la 
											combinazione del pianto con la 
											posizione della testa tra le 
											ginocchia, generalmente nota come 
											«posizione di Elia». Si tratta della 
											posizione che il profeta avrebbe 
											assunto sul monte Carmelo e che 
											probabilmente era parte integrante 
											della sua preghiera; nel Talmud essa 
											viene presentata come parte della 
											preghiera di Hanina ben Dosa per la 
											salvezza del figlio di Yoḥanan ben 
											Zakkai. In un altro passo talmudico 
											viene descritto il tentativo di El’azar 
											ben Dordia di pentirsi: in tale 
											contesto egli pone la testa tra le 
											ginocchia e piange. Il risultato del 
											dolore e del pianto di El’azar è la 
											morte, interpretata dall’autorità 
											talmudica come acquisizione 
											improvvisa della beatitudine del 
											mondo avvenire. Questo racconto non 
											può servire di per sé come prova 
											decisiva dello status tecnico del 
											pianto; tuttavia, la sua 
											associazione con la posizione di 
											Elia è notevolmente suggestiva, 
											poiché sia nei testi degli 
											Heikháloth, sia in una narrazione 
											posteriore delle pratiche descritte 
											in questo genere letterario, si 
											dimostra la possibilità di ottenere 
											la visione mistica dei palazzi 
											superiori mediante la posizione di 
											Elia.” Come già abbiamo avuto modo 
											di osservare, 'Aquiva riceve la 
											visione della Merkaḅah mediante il 
											pianto; tuttavia le due pratiche non 
											sono combinate in nessun testo 
											connesso alla letteratura degli 
											Heikháloth. 
											
											Il 
											seguente brano rappresenta la sola 
											eccezione a me nota, nella quale si 
											avverte forse un’affinità casuale 
											tra un modello di attività e 
											un’esperienza rivelatrice; in esso 
											si afferma: 
											
											  
											
											Yishm'ā'ēl disse: mi sono dedicato 
											alla ricerca della conoscenza e al 
											calcolo delle feste, dei momenti e 
											delle date (escatologiche), dei 
											tempi e dei periodi (di tempi) e ho 
											rivolto il mio volto al Supremo 
											Santo Unico per mezzo della 
											preghiera e delle suppliche, 
											digiunando e piangendo. E ho detto: 
											«Dio, Signore di Çebaoth, Signore 
											d’Israele, fino a quando saremo 
											tenuti in così poco conto?». 
											
											  
											
											La 
											preghiera di Yishm'ā'ēl ha un fine 
											dichiaratamente messianico: 
											conoscere la data della redenzione, 
											cioè ricevere una rivelazione 
											attraverso qualsiasi indizio dal 
											quale poter trarre un’informazione 
											occulta al riguardo. Sembra di poter 
											dedurre che i metodi «matematici» 
											migliori per giungere alla 
											conoscenza della data segreta della 
											fine delle sofferenze d’Israele 
											fossero inappropriati o 
											raggiungibili unicamente per mezzo 
											di una tecnica mistica che includeva 
											il pianto, insieme ad altri generi 
											di pratiche ascetiche. 
											
											Ciò 
											nonostante, l’esistenza di tale 
											pratica combinata nell’antica 
											mistica giudaica è presumibile non 
											solo sulla base del racconto 
											talmudico di El’azar. In relazione 
											ad un’esperienza mistica, lo Zohar 
											descrive Šim'on bar Yoha'y che 
											piange nella posizione di Elia. Dopo 
											aver chiesto chi potesse rivelargli 
											i segreti della Torà, il mistico 
											«pianse, pose la testa tra le 
											ginocchia e baciò la polvere». I 
											suoi amici lo incoraggiavano: 
											«allietati nella gioia del Signore». 
											Egli allora mise per scritto tutto 
											ciò che aveva ascoltato quella notte 
											e lo apprese senza dimenticare 
											niente. Šim'on rimase in questa 
											posizione tutta la notte e la 
											mattina alzò gli occhi ed ebbe una 
											visione di luce che rappresentava il 
											Tempio. Così per Šim'on come per 
											'Aquiva nel Midraš hallel, il pianto 
											è connesso sia con la rivelazione di 
											segreti della Torà sia con una 
											visione; benché la Merkaḅah non sia 
											identica al Tempio, è sorprendente 
											l’affinità tra il Midraš hallel e il 
											brano dello Zohar. Possiamo forse 
											dedurre che l’autore dello Zohar 
											disponesse di una fonte nella quale 
											il pianto e la posizione di Elia 
											erano già combinate nel testo 
											talmudico? Un importante esempio nel 
											quale il pianto appare nel quadro di 
											un più ampio sistema culminante in 
											un’esperienza mistica è attestato in 
											un trattato giudeo-arabo del XIII 
											secolo, Peraqim be-haslahà, 
											attribuito pseudo epigraficamente al 
											Maimonide. L’autore orientale 
											descrive con queste parole l’atto 
											della preghiera: 
											
											  
											
											L’orante si volgerà a Dio, sia 
											benedetto, dritto sui suoi piedi, 
											compiacendosi nel cuore e sulle 
											labbra (!). Le sue mani saranno 
											stese e i suoi organi vocali 
											mormoreranno e parleranno (mentre) 
											le altre membra tremeranno e saranno 
											scosse; non cesserà di cantare dolci 
											melodie, umiliandosi, implorando, 
											inchinandosi, prostrandosi (e) 
											piangendo, poiché egli si trova alla 
											presenza del Re Grande e Maestoso e 
											(allora) sperimenterà un’esperienza 
											estatica e resterà stupefatto, 
											finché troverà la sua anima nel 
											mondo degli intelletti. 
											
											  
											
											Senza 
											dubbio l’anonimo autore propone qui 
											un disegno intenzionale di preghiera 
											ideale che si conclude con 
											un’esperienza mistica. 
											
											La 
											tecnica del pianto è egregiamente 
											spiegata da Avraham ha-Lewi Berukim, 
											uno dei discepoli di Yiṣḥāq Luria. 
											In uno dei suoi programmi per 
											raggiungere «la saggezza», dopo aver 
											specificato che «il silenzio» è la 
											prima condizione, scrive quale sia:
											 
											
											  
											
											La seconda condizione: in tutte le 
											tue preghiere ed in ogni ora di 
											studio, in un luogo che sia stimato 
											difficile, in cui tu non possa 
											comprendere le scienze propedeutiche 
											o qualche segreto, suscita in te un 
											pianto amaro fin quando i tuoi occhi 
											non verseranno più lacrime; fa’ così 
											quanto più potrai piangere. E 
											accresci il tuo pianto, perché le 
											porte delle lacrime non restino 
											chiuse e affinché le porte celesti 
											si aprano di fronte a te. 
											
											  
											
											È ovvio 
											che, per Luria e Berukim, il pianto 
											è uno stimolo per superare le 
											difficoltà intellettuali e per 
											ottenere la rivelazione di segreti. 
											È plausibile interpretare la frase 
											finale del brano in riferimento ad 
											un’esperienza rivelatrice, durante 
											la quale si schiudono le porte 
											celesti. Questo testo viene 
											raccomandato per un fine pratico; 
											sembra che Avraham Berukim avesse 
											avuto effettivamente la possibilità 
											di mettere in pratica questi 
											propositi; si narra infatti che 
											Luria gli avesse rivelato che 
											sarebbe morto so non avesse pregato 
											davanti al Muro del Pianto e non 
											avesse visto la Šeķinah. Si racconta 
											che: 
											
											  
											
											Dopo 
											aver ascoltato le parole di Yiṣḥāq 
											Luria, il sant’uomo si isolò per tre 
											giorni e tre notti in digiuno, (si 
											rivestì) di un sacco e pianse 
											nottetempo. Poi si recò davanti al 
											Muro del Pianto, ivi pregò e pianse 
											un pianto possente. 
											
											
											All’improvviso alzò 
											gli occhi e vide sul Muro del Pianto 
											l’immagine di una donna, di spalle, 
											in abiti che è meglio non 
											descrivere, per usare misericordia 
											alla gloria divina. Quando l’ebbe 
											vista, egli subito cadde riverso a 
											terra, gridò, pianse e disse: «Sion, 
											Sion, guai a me che ti ho visto in 
											tale condizione!». E si lamentava 
											amaramente e piangeva e si 
											percuoteva il volto e si strappava 
											la barba e i capelli dal capo, 
											finché svenne e si addormentò 
											giacendo riverso sul volto. Allora 
											gli apparve in sogno l’immagine di 
											una donna che venne, posò le mani 
											sul suo volto e asciugò le lacrime 
											dai suoi occhi (...) e quando Yiṣḥāq 
											Luria lo vide, disse: «Vedo che hai 
											meritato di contemplare il volto 
											della Šeķinah». 
											
											  
											
											È chiaro che le due visioni della 
											donna - cioè della Šeķinah - sono il 
											risultato dell’aspro pianto di 
											Avraham: la prima è una visione, 
											ricevuta in stato di veglia, della 
											schiena della Šeķinah; la seconda è 
											una visione del suo volto, che si 
											manifesta solo in sogno. La prima 
											visione provoca ansia; la seconda, 
											sollievo. Simile alla storia di 
											Avraham Berukim è la confessione 
											autobiografica del suo amico Ḥayyim 
											Vital: 
											
											  
											
											Nel 1566, la vigilia di Shabbat, l’8 
											di Tevet, ho recitato il Kiddùsh e 
											mi sono seduto a mangiare; e i miei 
											occhi versavano lacrime e sospiravo 
											dolorosamente poiché (...) ero stato 
											legato da una stregoneria (...) e 
											piangevo anche per aver trascurato 
											lo studio della Torà negli ultimi 
											due anni (...) e a causa della mia 
											afflizione non mangiai niente, 
											giacqui nel mio letto riverso sul 
											volto, piangendo, finché, 
											addormentatomi, stanco di tante 
											lacrime, ebbi un sogno meraviglioso. 
											
											  
											
											Come 
											negli antichi testi apocalittici e 
											nella storia di Avraham Berukim, 
											Vital sembra aver combinato il 
											pianto, il dolore e, almeno in una 
											certa misura, anche il digiuno. 
											L’ultimo elemento è curioso, poiché 
											l’intera vicenda ebbe luogo la sera 
											di Shabbat, quando tutti gli ebrei 
											hanno l’obbligo di consumare un 
											pasto rituale. Il contenuto del 
											sogno successivo è complesso e 
											questo non e il luogo adatto per 
											descriverne i dettagli. Sarà 
											sufficiente notare che Vital ebbe 
											una rivelazione notevolmente 
											elaborata, parallela ad alcune 
											rivelazioni attestate in altre opere 
											cabalistiche: stando alla 
											descrizione riportata si tratta in 
											effetti di una rivelazione, non di 
											un sogno. Caratteristica certamente 
											innovativa del racconto del sogno 
											rivelatore di Vital è la sua visione 
											di una bella donna che egli ritiene 
											sua madre; essa gli chiede in sogno: 
											«‘Perché piangi, Ḥayyim, figlio 
											mio? Ho ascoltato le tue lacrime e 
											sono venuta in tuo soccorso” (...) 
											ed io invocai la donna: “Madre, 
											madre, aiutami, cosicché possa 
											vedere il Signore assiso su un 
											trono, l’Antico dei Giorni, con la 
											sua barba bianca come neve, 
											infinitamente splendente”». 
											
											I 
											riferimenti alle visioni profetiche 
											bibliche, riscontrabili solo nella 
											citazione di Safrin, sono 
											estremamente importanti per la 
											nostra trattazione. Inizialmente 
											Vital, almeno in apparenza, piangeva 
											per ricevere una risposta a due 
											problemi che lo assillavano: la sua 
											impotenza sessuale e la sua 
											interruzione dello studio della 
											Torà. Nel sogno rivelatore, egli 
											vede se stesso nell’atto di piangere 
											per ottenere una visione di Dio. La 
											richiesta di vedere Dio, formulata 
											da Vital in versi profetici, ne 
											richiama alla mente una simile, 
											attestata alla fine del passo nel 
											Midraš hallel, nella quale la 
											visione di 'Aquiva della Merkaḅah è 
											confrontata con quella di Ezechiele. 
											
											
											Altrettanto importante per il nostro 
											studio è il seguente passo di Natan 
											di Gaza in cui egli descrive una sua 
											visione. Dopo un’estesa sezione in 
											cui il profeta sabbatiano vanta la 
											sua perfezione religiosa, egli 
											scrive: 
											
											  
											
											
											Al compimento dei 
											miei venti anni ho iniziato a 
											studiare lo Zohar e alcuni degli 
											scritti di Luria. (Secondo il 
											Talmud), chi desidera purificare se 
											stesso riceve aiuto del cielo; così, 
											Egli mi ha mandato alcuni dei suoi 
											santi angeli e dei suoi spiriti 
											benedetti, che mi hanno rivelato 
											molti dei misteri della Torà. Nello 
											stesso anno, poiché la mia forza si 
											era accresciuta a seguito delle 
											visioni degli angeli e delle anime 
											benedette, mi sono sottoposto ad un 
											digiuno prolungato durante la 
											settimana che precede la festa di 
											Phurim. Mi sono chiuso in una stanza 
											isolata, in  santità e purità; ivi 
											ho recitato le preghiere 
											penitenziali del servizio mattutino  
											piangendo a calde lacrime; (allora) 
											lo spirito è disceso su di me, i 
											miei capelli si sono drizzati, le 
											mie ginocchia hanno iniziato a 
											tremare e ho scorto la Merkaḅah; ho 
											avuto visioni di Dio per tutto il 
											giorno e tutta la notte e mi è stata 
											concessa la vera profezia come ad 
											ogni altro profeta, appena la voce 
											mi parlò, iniziando con le parole: 
											«Così parla il Signore» (...) Anche 
											l’angelo che mi apparve in una 
											visione diurna era vero; egli mi 
											rivelò misteri terribili. 
											
											  
											
											La 
											visione della Merkaḅah, del tutto 
											insolita nel periodo medievale, è 
											qui rappresentata a seguito di un 
											periodo di digiuno prolungato 
											culminante in un pianto con 
											effusione di lacrime. É interessante 
											che a Natan sia stata concessa non 
											solo un’esperienza visiva, ma anche 
											la rivelazione di «misteri 
											terribili». Così nell’esperienza del 
											cabalista seicentesco ricorrono 
											entrambe le tematiche attestate nel 
											Midraš hallel, databile ad epoca 
											alto-medievale. Ancora una volta, 
											come nella fonte midrashica, la 
											visione della Merkaḅah è 
											evidentemente associata ai 
											«terribili misteri», che in questo 
											caso saranno da riferire al 
											messianismo di Shabbĕtay Sevi: Natan 
											ha potuto infatti vedere l’immagine 
											di Sevi incisa sulla Merkaḅah. 
											
											Il 
											pianto mistico sembra essere stato 
											impiegato anche da alcuni circoli 
											hasidici. Prima di trattare 
											dettagliatamente le testimonianze di 
											questa pratica, vorrei citare un 
											passo che narra l’interessante sogno 
											di Yosef Falk, il cantore del Besht: 
											
											  
											
											Nel suo 
											sogno vide l’immagine di un altare 
											al quale stava ascendendo il morto; 
											lo vide porre la sua testa tra le 
											ginocchia e iniziare a gridare la 
											Selihà: «Rispondici, Dio, 
											rispondici. Rispondici Padre nostro» 
											e così di seguito per tutto 
											l’alfabeto. Dopo aver detto: 
											«Rispondici, Dio dei nostri padri, 
											rispondici. Rispondici, Dio di 
											Abramo, rispondici. Rispondici, 
											riverito d’Isacco, rispondici. 
											
											
											Rispondici, potente 
											di Giacobbe, rispondici. Rispondici 
											misericordioso, rispondici. 
											Rispondici, re dei carri, 
											rispondici», egli ascese al cielo. 
											
											  
											
											Questa tecnica d’implorazione - la 
											posizione di Elia e le alte grida - 
											sembra riflettere il più antico 
											motivo del pianto nella posizione 
											seduta di Elia. Yiśra'el Baʿal Shem 
											Tov lo interpretava come un 
											tentativo di ascendere ad un livello 
											superiore per mezzo della 
											recitazione della formula 
											«rispondici». Sembra che per i primi 
											chasadim il clamore delle grida e, 
											suppongo, anche le lacrime 
											costituissero gli elementi basilari 
											di una tecnica mistica. 
											
											Anche 
											un contemporaneo più giovane del 
											Baʿal Shem Tov, Eliyyà, gaon di 
											Vilna, coltivò probabilmente la 
											pratica del pianto. Il suo discepolo 
											più importante, Ḥayyim da Volozhin, 
											raccontò al nipote di Eliyyà che suo 
											nonno molto spesso soffriva grandi 
											dolori, digiunava e non dormiva per 
											uno o due giorni, piangendo 
											copiosamente perché Dio gli aveva 
											tenuto nascosto un determinato 
											segreto della Torà. Tuttavia - 
											continuava - quando il segreto gli 
											veniva rivelato, il suo volto 
											risplendeva di gioia e i suoi occhi 
											si illuminavano. Il racconto di 
											Ḥayyim mostra un modello 
											comportamentale volto al 
											conseguimento della conoscenza dei 
											segreti celati della Legge. La 
											frequente attestazione dell’uso di 
											tale modello ne mostra l’evidente 
											natura  tecnica. Possiamo osservare 
											che nel ḥasidismo delle origini e 
											nella pratica dei suoi oppositori, i 
											Mitnaggedim, il pianto era 
											utilizzato come una delle componenti 
											della tecnica mistica. 
											
											Un 
											esempio interessante della relazione 
											tra il pianto e la rivelazione è 
											riportato da Yiṣḥāq Yehiel Safrin, 
											nella sua Megillat setarim e nel suo 
											Netiv Miswoteka, nei quali egli 
											narra le sue esperienze mistiche. 
											Propongo di seguito una versione di 
											questa confessione mistica, basata 
											sul racconto combinato dei due 
											testi: 
											
											  
											
											
											Nel 1845, il 
											ventunesimo giorno di ‘Omer, mi 
											trovavo nella città di Dukla. Vi 
											giunsi a tarda notte; era buio e non 
											c’era nessuno che mi ospitasse, 
											eccetto un conciapelli che venne e 
											mi condusse alla sua casa. Volevo 
											recitare la preghiera della sera e 
											contare 1’‘Omer, ma, non potendo 
											farlo lì, mi recai da solo al Ber 
											Midraš, ove rimasi a pregare fin 
											oltre la mezzanotte. Mi resi conto, 
											in tale situazione, della triste 
											condizione della Šeķinah in esilio e 
											delle sue sofferenze quando si trova 
											nel mercato dei conciatori. Piansi 
											molte volte davanti al Signore del 
											mondo, dal profondo del mio cuore, 
											per la sofferenza della Šeķinah. A 
											causa della mia sofferenza e del mio 
											pianto, venni meno, mi addormentai 
											per qualche tempo ed ebbi una 
											visione di luce, splendore e grande 
											fulgore: (ed ecco mi apparve) 
											l’immagine di una giovane donna 
											adorna di ventiquattro ornamenti 
											(...) Ella disse: «Sii forte, figlio 
											mio», e così di seguito. Mi 
											addoloravo di non poter avere la 
											visione della sua schiena e di non 
											essere in grado di ricevere il suo 
											volto. Mi fu detto allora che (ciò 
											accadeva perché) sono vivo; è 
											scritto infatti «perché nessun uomo 
											può vedermi e restare in vita». 
											
											  
											
											La visione dell’apparizione 
											femminile dotata di caratteristiche 
											materne - essa chiama Yiṣḥāq «figlio 
											mio» - rientra nell’ambito delle 
											immagini tradizionali del pianto 
											cabalistico insieme alle visioni di 
											Avraham Berukim e Ḥayyim Vital. 
											Anche Lewi Yiṣḥāq da Berditchev deve 
											aver sperimentato tale visione. 
											Nell’opera Netiv Miswoteka, nel 
											passo precedente a quello 
											summenzionato, dopo aver citato il 
											racconto di Ḥayyim Vital tratto dal 
											Sefer ha-hesiyonot, Yiṣḥāq scrive: 
											
											  
											
											
											E accadde al santo 
											Lewi Yiṣḥāq che la sera di Shavuòt 
											ebbe la visione della Šeķinah 
											nell’immagine di (...) e gli disse 
											«Figlio mio, Lewi Yiṣḥāq, sii forte, 
											perché molti problemi ti 
											affliggeranno, ma sii forte, figlio 
											mio, perché io sarò con te». 
											
											  
											
											Dunque 
											anche Lewi Yiṣḥāq sperimentò una 
											visione della Šeķinah che gli 
											apparve nelle vesti di una giovane 
											donna: si osservi come Yiṣḥāq Safrin 
											abbia censurato questa parola, così 
											come nella narrazione della sua 
											propria visione riportata poco 
											oltre. Particolarmente 
											significativa, per due ragioni, 
											anche la circostanza cui l’evento 
											viene associato: la sera di Shavuòt 
											è vicina temporalmente al periodo in 
											cui Safrin sperimentò la sua 
											visione, il ventunesimo giorno di 
											‘Omer; a ciò si aggiunga che proprio 
											nella notte di Shavuòt due noti 
											cabalisti ricevettero la loro 
											rivelazione della Šeķinah. Mi 
											riferisco alla veglia di Yosef Caro 
											e di Shelomò ha-Lewi Alqabes. Dunque 
											Lewi Yiṣḥāq tentò di imitare 
											l’esperienza dei cabalisti suoi 
											predecessori. È strano che Safrin 
											non menzioni neppure indirettamente 
											l’esperienza di queste due grandi 
											personalità del XVI secolo, benché 
											sia impossibile supporre che egli 
											non ne fosse a conoscenza dal 
											momento che fu pubblicata a stampa 
											nel famoso Shene luhot ha-berit. 
											L’assenza di tale menzione è tanto 
											più inspiegabile quando si consideri 
											che egli cita i casi meno noti di 
											Avraham Berukim e Ḥayyim Vital. 
											
											La 
											soluzione del problema è semplice e 
											molto interessante per la 
											comprensione delle concezioni di 
											Safrin. I brani precedentemente 
											riportati sono introdotti dalle 
											seguenti parole: «La rivelazione 
											della Šeķinah (si compie) per mezzo 
											e a seguito di una sofferenza - 
											sopportata volontariamente - per 
											mezzo della quale si avverte la 
											sofferenza della Šeķinah; il fatto 
											che questa rivelazione si rivesta di 
											una forma e di un’immagine è dovuta 
											alla sua essenza corporea». Questa 
											premessa postula una rivelazione 
											della Šeķinah come immagine 
											femminile derivante dalla 
											sofferenza, due elementi assenti 
											nelle veglie di Caro e Alqabes. 
											Nell’esperienza di questi ultimi, la 
											Šeķinah poteva essere ascoltata per 
											bocca di Caro, ma rimaneva 
											invisibile. Safrin e le citazioni da 
											lui addotte descrivono 
											esclusivamente rivelazioni visibili 
											della Šeķinah. Inoltre, nella veglia 
											di Shavuòt, la tecnica utilizzata 
											dai cabalisti richiedeva lo studio 
											di vari passi tratti da fonti 
											ebraiche classiche. La 
											partecipazione e l’afflizione 
											associate alla sorte della Šeķinah 
											erano il risultato e non la causa 
											della rivelazione. Nei casi di 
											Avraham Berukim, Ḥayyim Vital, Lewi 
											Yiṣḥāq e Safrin, il pianto precedeva 
											l’apparizione della Šeķinah. In 
											altri termini, Safrin considerava le 
											sofferenze autoindotte culminanti 
											nel pianto come una tecnica per 
											contemplare l’immagine della 
											Šeķinah. Sembra che egli avesse 
											dovuto lottare per avere la visione 
											del volto della Šeķinah; lo stesso 
											desiderio viene espresso da Vital: 
											tuttavia al primo tale visione 
											sarebbe stata impedita dalla sua 
											condizione umana.” 
											
											
											L’attivazione dell’occhio si 
											conclude con un’esperienza visiva. 
											Nel caso di Caro e 
											
											Alqabes, l’organo attivato sono le 
											labbra; la Šeķinah parla per bocca 
											di Caro. È sorprendente la 
											correlazione tra la tecnica e la 
											natura della rivelazione; Safrin 
											considera il pianto uno stimolo 
											all’esperienza mistica. Possiamo 
											proporre tuttavia una spiegazione 
											ancor più elaborata: il suo 
											soggiorno notturno in una piccola 
											città doveva essere un espediente 
											premeditato volto a provocare uno 
											stato di profonda malinconia 
											culminante nel pianto. Il suo 
											viaggio a Dukla può essere letto 
											come una sorta di esilio 
											autoimposto, una Galut che imita 
											l’auto-esilio della Šeķinah è la 
											ricompensa di questa “partecipazione 
											mistica”. Poiché il fatto si 
											verifica nel periodo tra Pesah e 
											Shavuòt possiamo supporre che il 
											viaggio costituisca un esercizio 
											propedeutico alla sofferenza e al 
											pianto, il cui scopo sarebbe stata 
											la rivelazione durante la vigilia di 
											Shavuòt; è interessante osservare 
											che la Šeķinah si manifesta prima 
											del previsto. 
											
											Sulla 
											base di un altro passo di Safrin si 
											deduce che la preghiera 
											penitenziale  accompagnata da pianto 
											e contrizione di cuore può produrre 
											la manifestazione della  luce divina 
											ed una «seconda nascita». Nella 
											raccolta di esempi proposti 
											nell’opera Netiv miswoteka manca 
											tuttavia il caso più importante: il 
											pianto utilizzato per provocare 
											un’esperienza della Šeķinah. Mi 
											riferisco alla pratica di Sevi 
											Hirsch di Zhidachov, il più 
											autorevole maestro di dottrine 
											cabalistiche di Yiṣḥāq Safrin; nel 
											suo commento allo Zohar, Safrin 
											narra un avvenimento che ha tutti i 
											requisiti per essere citato nella 
											nostra trattazione: 
											
											  
											
											Riguardo alla sacralità, egli (Sevi 
											Hirsch) era solito pregare ogni sera 
											di Shabbat nell’intento di causare a 
											se stesso uno stato di sofferenza, 
											un senso di disagio e di afflizione. 
											Questo egli faceva per annichilarsi 
											completamente prima di Shabbat, in 
											modo da essere in grado di ricevere 
											la sua luce, sia benedetto, durante 
											la preghiera e il pranzo della sera 
											di Shabbat, con un cuore puro, santo 
											e schietto. Questa era la sua usanza 
											riguardo alla sacralità, motivata 
											dal suo costante timore che pensieri 
											arroganti ed estranei potessero 
											penetrare nel suo cuore. Una volta, 
											in occasione della festa di Shavuòt, 
											centinaia di persone si erano 
											raccolte intorno a lui. Prima della 
											preghiera (del mattino), alla 
											(prima) luce dell’alba, io entrai in 
											una delle sue stanze, ma egli non mi 
											vide, perché stava percorrendo la 
											stanza avanti e indietro a grandi 
											passi, piangendo e facendo piangere 
											cielo e terra insieme con lui di 
											fronte a Dio,” E impossibile 
											esprimere per scritto (tale 
											esperienza). Egli si umiliò di 
											fronte a Dio con un pianto possente, 
											implorando di non essere respinto 
											dalla luce del suo volto (...) 
											allora fui scosso da un grande 
											tremito, a causa del timore 
											reverenziale della Šeķinah, aprii la 
											porta e fuggii via. 
											
											  
											
											Stando 
											al racconto di Yiṣḥāq Safrin, le 
											procedure auto mortificanti di Sevi 
											Hirsch erano un mezzo per prepararsi 
											a ricevere la luce divina in 
											occasione della vigilia di Shabbat e 
											di alcune altre feste; è tuttavia da 
											osservare che il pianto è connesso 
											solo con il racconto di Shavuòt. 
											Inoltre Safrin manifesta una 
											sensazione di oppressione causata 
											dalla presenza del volto divino, 
											evidentemente causata dalla 
											mortificazione e dal pianto dello 
											zio. Benché non si tratti di 
											un’esperienza della Šeķinah vissuta 
											in prima persona, il fatto che 
											Safrin attesti tale esperienza 
											costituisce prova evidente che lo 
											stesso Sevi Hirsch intendeva 
											provocarla, che la circostanza 
											dell’evento è evidentemente 
											associata con la festa di Shavuòt e 
											infine che il maestro di Zhidachov è 
											l’erede di una tradizione 
											preesistente relativa alla 
											possibilità di sperimentare la 
											presenza della Šeķinah a Shavuòt. Ho 
											già menzionato i principali 
											predecessori - Caro, Alqabes e Lewi 
											Yiṣḥāq da Berditchev -; tuttavia da 
											questo brano apprendiamo per la 
											prima volta che il pianto 
											costituisce parte integrante di una 
											vera e propria pratica mistica. 
											La visione di Safrin della Šeķinah 
											può essere ora esaminata nel quadro 
											di una più estesa finalità mistica, 
											coltivata in seno ai circoli 
											hassidici per conseguire esperienze 
											della Šeķinah: è possibile pertanto 
											sostenere che tali tradizioni 
											discendessero da precedenti pratiche 
											cabalistiche. 
											
											  
											
											Passo 
											ora all’esame della relazione tra il 
											pianto e i segreti. Alla fine del 
											commento al primo libro dello Zohar, 
											Safrin confessa: 
											
											  
											
											Piangendo a calde lacrime, come un 
											pozzo, mi sono reso degno di essere 
											trasformato in un “torrente che 
											trabocca, una fonte di saggezza;” 
											non mi venne rivelato alcun segreto, 
											né mi fu concessa alcuna 
											straordinaria capacità intuitiva, ma 
											in seguito divenni come polvere e 
											piansi di fronte al Creatore 
											dell’universo come una fonte, per 
											non essere lontano dalla luce del 
											suo volto e per la volontà di 
											acquisire una perspicacia derivante 
											dalla fonte della saggezza; così 
											divenni un torrente traboccante di 
											lacrime. 
											
											  
											
											Questo 
											voluminoso commento allo Zohar, uno 
											dei più vasti nel suo genere, fu 
											composto, secondo la testimonianza 
											dello stesso autore, sulla base di 
											rivelazioni indotte anche mediante 
											il pianto. 
											
											Ancora 
											nella seconda metà del XIX secolo, 
											l’antica tecnica mistica del pianto 
											era praticata al fine di conseguire 
											gli stessi scopi cui si fa 
											riferimento nel Midraš hallel; la 
											rivelazione visiva e lo svelamento 
											di segreti. Sulle orme di suo padre, 
											Eli’ezer Sevi Safrin confessa 
											nell’introduzione al suo commento 
											allo Zohar che, raggiunta la 
											maturità: 
											
											  
											
											Una volta mi sono svegliato nel 
											(mezzo del)la notte e ho pianto 
											copiosamente, addolorato nel cuore, 
											davanti a Dio per l’esilio della 
											Šeķinah e della comunità d’Israele, 
											per i santi che soffrono (...) mi 
											sono svegliato dopo la mezzanotte 
											anche il giorno seguente e ho pianto 
											ancor più del giorno prima per gli 
											stessi motivi. Prima dell’aurora mi 
											sono addormentato circa mezz’ora, 
											per calmare la mia mente e quietarla 
											per la preghiera (del mattino). 
											Durante il mio sonno ho visto in 
											sogno che mi trovavo nella Terra 
											d’Israele” (...) ed è possibile che, 
											in virtù di questo sogno che ebbi 
											l’onore di avere, quel Vecchio mi 
											abbia dato la forza di interpretare 
											il sacro libro dello Zohar. 
											
											  
											
											Prima 
											di concludere la nostra trattazione 
											di questa pratica mistica, si 
											rendono necessarie alcune 
											osservazioni generali sulla natura 
											del materiale preso in esame. 
											
											  
											
											1.    
											
											
											In 
											tutti i casi analizzati, la tecnica 
											del pianto è attribuita a membri 
											dell’élite ebraica o da essi 
											praticata; in altri termini, in 
											nessun luogo si raccomanda di 
											utilizzare il pianto come mezzo 
											popolare per indurre la visione 
											della Šeķinah. Tale pratica appare 
											invece destinata a un esiguo numero 
											di eletti ed è effettivamente 
											seguita solo da quei pochi individui 
											che hanno interesse di sperimentare 
											tale visione. 
											
											  
											
											2.    
											
											
											I passi 
											citati derivano da testi che non 
											appartengono alle correnti 
											principali della letteratura 
											talmudico-midrashica. L’assenza di 
											una considerazione halakica del 
											pianto mistico è solo casuale; il 
											pensiero rabbinico proponeva mezzi 
											alternativi per conseguire le stesse 
											finalità del pianto mistico. Secondo 
											un detto rabbinico, lo studio della 
											Torà è sufficiente per ottenere la 
											rivelazione dei suoi segreti; 
											un’affermazione midrashica 
											raccomanda lo studio della Torà in 
											Terra d’Israele a chiunque desideri 
											contemplare la Šeķinah.” Risulta 
											pertanto che il sistema nomico per 
											ricevere segreti o visioni della 
											Šeķinah non includeva il pianto e 
											indicava un metodo accessibile non 
											solo ad un élite, ma a tutti gli 
											ebrei. 
											
											  
											
											3.    
											
											
											Ancora 
											una volta, sulla base dei brani 
											citati, le rivelazioni sembrerebbero 
											conseguite in uno stato di 
											desolazione e dolore per amore della 
											Šeķinah e partecipazione alla sua 
											sofferenza causata dall’incapacità 
											umana di apprendere la Torà. Una 
											concezione talmudico-midrashica a 
											proposito della dimora della Šeķinah 
											afferma comunque che «la Šeķinah non 
											discende su nessuno che sia triste, 
											pigro o superficiale, ma solo su chi 
											sia lieto di adempiere i precetti». 
											Esiste dunque un’evidente 
											contraddizione tra i requisiti 
											talmudici e il pianto mistico 
											suscitato da uno stato iniziale di 
											desolazione. 
											
											  
											
											Queste 
											osservazioni confermano il carattere 
											anomico della tecnica del pianto; di 
											qualsiasi natura sia, tutto ciò che 
											tale tecnica promette può essere 
											conseguito anche rimanendo 
											nell’ambito delle attività halakiche 
											classiche, quali lo studio della 
											Torà o l’adempimento dei precetti. 
											Data l’antichità delle prime 
											attestazioni dell’esistenza di 
											questa tecnica, è possibile che la 
											pratica del pianto sia rimasta 
											estranea alle fonti rabbiniche e sia 
											ricomparsa solo all’epoca della 
											fioritura della Qabalah, 
											parallelamente al rinnovato 
											interesse per il conseguimento di 
											esperienze mistiche che trascendono 
											il «misticismo normale» del sistema 
											rabbinico. Un esame più attento dei 
											materiali antichi presenti nei brani 
											riportati sembra negare la 
											possibilità che le pratiche 
											medievali si propagassero solo sulla 
											base di una profonda conoscenza di 
											antiche testimonianze letterarie. È 
											difficilmente ipotizzabile che il 
											Midraš hallel, per esempio, sia la 
											fonte delle pratiche posteriori. 
											Pertanto, anche ammettendo che non 
											esistano testi rilevanti sfuggiti al 
											mio esame di questo genere 
											letterario, possiamo pensare ad una 
											trasmissione orale, probabilmente a 
											carattere elitario, di quest’antica 
											tecnica mistica. 
											
											Vorrei 
											richiamare l’attenzione del lettore 
											sul fatto che le primitive 
											tradizioni ascetiche cristiane 
											possono essere state influenzate da 
											antiche tradizioni giudaiche 
											relative alle potenzialità mistiche 
											del pianto; lo stesso vale, 
											direttamente o indirettamente anche 
											a proposito dell’ascetismo sufico. 
											Questi generi di pratiche ascetiche 
											sono stati presentati con grande 
											franchezza, dal momento che né il 
											cristianesimo né l’islam avevano 
											interesse a far sparire le tracce di 
											fenomeni ascetici radicali. La mia 
											interpretazione presenta per il 
											momento solo un’ipotesi, non essendo 
											stata condotta alcuna ricerca in 
											tale direzione. Tuttavia il fatto 
											stesso che questa pratica ascetica 
											sia attestata in antichi testi 
											ebraici e anche in periodi 
											posteriori può favorire un nuovo 
											approccio alla problematica 
											trattata. 
											
											
											Concludo con una breve osservazione 
											sul meccanismo psicologico alla base 
											delle esperienze prese in esame: il 
											pianto non è mai descritto come una 
											pratica a sé stante; esso fa sempre 
											parte di una sequenza elaborata di 
											esercizi ascetici - digiuno, 
											cordoglio, sofferenze autoindotte - 
											e ne costituisce in genere l’ultima 
											tappa. In alcuni casi, il mistico è 
											già esausto al momento in cui inizia 
											a piangere; un periodo di sopore, 
											talvolta svenimenti precedenti la 
											fase del sonno vero e proprio 
											rappresentano la prova concreta di 
											questo stato di esaurimento. 
											
											D’altro 
											canto, l’iperattività del sistema 
											visivo sta a testimoniare l’intensa 
											concentrazione sull’attimo in cui 
											tutti gli altri canali della 
											percezione sensoriale vengono ad 
											essere gradualmente ostruiti. Questo 
											nuovo equilibro degli stimoli 
											prepara la strada ad ulteriori stati 
											di presa di coscienza paranormali 
											incentrati esclusivamente su 
											esperienze visive. In tali casi, le 
											idee o i concetti sui quali viene 
											concentrata la propria attività 
											intellettiva ed emotiva tendono a 
											rivelarsi per mezzo del medium in 
											stato di sovreccitazione. Da un 
											punto di vista più strettamente 
											psicologico, le visioni conseguenti 
											ad uno stato mentale penoso e 
											doloroso possono essere associate a 
											quelle che Margarita Laski definiva 
											«estasi da desolazione». 
											
											. 
											  
											
											Il documento è tratto da:
											
											CABBALA', Nuove prospettive - Ed. 
											GIUNTINA, a cui si rimanda vivamente 
											per l'approfondimento. 
											 
											
											 
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