Lo scritto che si presenta ai nostri Ospiti, è opera d'ingegno di Vittorio Tom Novelli ed ha trovato ospitalità sul periodico "Rivista Massonica" Volume LXVIII XII della nuova serie numero 5 maggio 1977. Edizioni Erasmo.

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Che la Verità vi farà liberi, lo dice San Giovanni.

E lo dice pure la filosofia moderna.

Sennonché il concetto di libertà è confuso, oscuro; se ne parla tanto come entità ovvia, ben conosciuta e risaputa da tutti, con il risultato desolante che se ne capisce poco.

Manca la consapevolezza di che cosa sia esattamente la libertà. Sembra un'aspirazione utopistica irraggiungibile....

 

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Lo dice San Giovanni.

E lo dice pure la filosofia moderna.

Sennonché il concetto di libertà è confuso, oscuro; se ne parla tanto come entità ovvia, ben conosciuta e risaputa da tutti, con il risultato desolante che se ne capisce poco.

Manca la consapevolezza di che cosa sia esattamente la libertà. Sembra un'aspirazione utopistica irraggiungibile.

La libertà sfugge ad ogni dimostrazione teoretica e a ogni definizione; non potendola trarre né dall'esperienza empirica, né dalla natura, viene il sospetto che debba sorgere da qualcosa di supernaturale fuori da argomentazioni logiche.

«Il concetto di libertà, che comprende due differenti significati, cioè "libertà da" e "libertà di", nessuno dei quali ammette definizioni se non generiche, è alquanto vago. Lo stesso vale per la latina libertas». Così il Wirszubski. Ed Arnaldo Momigliano: «Della parola libertas sono state presentate due interpretazioni differenti che, a mio parere, si escludono a vicenda. Secondo la prima, libertas è una nozione giuridica che, quando sia analizzata con cura, si dimostra identica alla nozione del civis romano... Secondo l'altra traduzione, libertas è una parola vaga che di solito cela interessi egoistici. Per dirla col Syme, «la libertà e le leggi sono parole suggestive, ma debbono essere spesso tradotte, alla luce della fredda ragione, come privilegio e interessi costituiti». E ancora: «Libertas è una nozione imprecisa e negativa, libertà dal governo di un tiranno o di una fazione. Ne segue che libertas, come regnum e dominatio, è un utile termine di frode politica».

Si fa distinzione tra «libertà da» e «libertà di»; sono due libertà diverse o due aspetti di un'unica libertà che si è scissa? Bisognerà cominciare col «liberarci» di queste sottigliezze, le quali aprono la via ad una molteplicità di libertà distinte (in psicologia, in etica, in diritto, in politica, in economia, in sociologia, ecc.) buone per tutti i gusti e che portano, alla fine, allo sminuzzamento della enigmatica libertà in tanti minuti frammenti di «licenza». Si presume che la libertà non debba avere né moventi, interni o esterni che siano, né scopi, che la condizionerebbero e la solleciterebbero verso direzioni predeterminate e non sarebbe, quindi, più libertà; ma, così, sfuggirebbe pure al principio di causalità, che, a sua volta discutibile (periodicamente in crisi o addirittura inconsistente come mostrò Nicola d'Autrecourt) resta necessario ed è tuttora generalmente accettato nel mondo dell'esperienza determinata meccanicisticamente per la sperimentazione e l'indagine. La libertà, oltre il privilegio di essere fuori della causalità, per essere tale, dovrebbe esplicarsi addirittura fuori da tutte le leggi della natura che conosciamo; ciò sembra, per una critica razionale, assurdo, e, per il momento, riteniamolo assurdo anche noi. Kant lo capì e, con la sua libertà trascendentale e con l'imperativo etico, cercò di rimediare; ma i suoi tre postulati della ragion pratica, alla fine ci obbligano ad ammettere l'esistenza della sconosciuta libertà come esigenza che, per quanto trascendentale, per quanto pratica, ha tutta l'aria, sia pure sornionamente travestita, di un dogmatismo, e il libero arbitrio bisogna accettarlo sulla parola rivelata del dio Kant... con tanti saluti al rigore del metodo critico.

Hannah Ereudt, «una delle maggiori studiose di filosofia della politica che ci siano oggi nel mondo» secondo la definizione di Augusto del Noce, ha analizzato brillantemente il concetto di libertà, ed è senz'altro da accogliere la sua tesi per cui la libertà è essenzialmente termine ambiguo, necessariamente ed insostituibilmente immesso nella prassi politica, giuridica e morale, come fondamento per edifici che non potrebbero reggersi se gli uomini non fossero ritenuti liberi di scegliere e di agire e, così, resi responsabili delle loro scelte e inchiodati alle conseguenze delle loro azioni.

Questo è parlar chiaro, pratico, di esigenza del sistema sociale che deve difendere la sua organizzazione politica, senza ipocrite giustificazioni teoretiche.

Anche il saggio di Erich Fromm (che sarebbe stato più appropriato, però, intitolare «Fuga della libertà», anziché «Fuga dalla libertà») non chiarisce il concetto: Fromm lo accetta e se ne serve pragmatisticamente come lo trova nebuloso in circolazione, considerandolo universalmente evidente e chiaro, e ammette la convivenza di più libertà fino a dire: «... ha accresciuto la libertà e ha creato nuovi tipi di subordinazione». Lungo il suo libro di proposizioni simili ve ne sono parecchie. Un concetto, divenuto così invadente ed importante da investire l'insieme delle strutture della civiltà nella quale viviamo, che si presta, però, a troppe distinzioni, a troppe opinioni e contraddizioni, che sembrano aver tutte una loro piccola parte di arzigogolata logica, deve essere in se stesso costituzionalmente deboluccio. Distinzioni, opinioni, contraddizioni sembrano sfiorare la libertà, ma non l'afferrano; è un problema che nessuno risolve, benché tutti, per conformismo, per pigrizia mentale accettano come assioma indiscutibile, autosuggestionandosi di essere perfettamente d'accordo sul significato e sul contenuto. Si finge che il problema sia risolto, benché qualcuno abbia detto: « Con tanto spreco di libertà, non possiamo nemmeno attraversare la strada, se non ce lo permette il semaforo!».

La libertà è assimilata alla volontà e confusa col potere volitivo del comportamento umano; ma la volontà è manifestazione autoritaria, imposizione, sprone ad agire da parte dell'energia psichica, sia all'interno di noi stessi che all'esterno, mossa da passioni e desideri, e, secondo Epitteto, la libertà dovrebbe svincolarsi anche dalle passioni e dai desideri.

Se la libertà significasse il poter optare, scegliere tra più cose o più azioni, poiché il flusso della vita «impone» di scegliere e di agire in ogni momento, sembrerebbe, così, di essere, non liberi, ma costretti a dover scegliere obbligatoriamente, e ciò non sarebbe libertà, ma coercizione. Dal punto di vista tradizionale, A. K. Saran dice: - Ad analizzarla accuratamente si vedrà che l'idea di un atto di scelta non si può sostenere logicamente. - D'accordo in ciò con Kierkegaard, con A. Coomaraswamy e, come vedremo, con alcune correnti cristiane. Se la verità rendesse liberi, occorrerebbe prima conoscere la verità, impresa ardua, se non impossibile per la cultura profana, e, la libertà, ricevendone il proprio essere, la propria struttura, la propria derivazione, ne risulterebbe una graziosa concessione, poiché la verità ne costituirebbe la condizione, cioè un rapporto di dipendenza. Se, per esser liberi, cercassimo prima la verità e, riusciti, per ipotesi, a trovarla, essa ci dicesse che dobbiamo tagliarci le orecchie, per dovere di coerenza, dovremmo effettivamente tagliarcele, non saremmo affatto liberi di non obbedire. Ahimè, la verità è un'autorità intransigente: chi crede di possederla diventa dogmatico ed intollerante. Ed «autorità» è concetto oggi tanto ambiguo quanto la libertà, dacché ha perduto il normale collegamento con la tradizione. Abbiamo ormai troppe pseudoautorità a cui obbedire, arbitre del nostro comportamento e della nostra presunta libertà; pseudo-autorità di cui non sappiamo, né c'interessiamo di indagare da chi o da che cosa traggono i poteri coercitivi che esercitano su di noi e che ci impongono. Si sostiene che l'autorità venga dalle leggi. Bene; ma da quali leggi? Oggi le leggi da dove scaturiscono? Sono emanate in parlamento dai rappresentanti del popolo. «Ora un istituto così fatto, composto da incompetenti scelti da incompetenti, ha purtroppo ancora il potere incondizionato di fare le leggi che ci governano» (Ugo Spirito, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?).

E il popolo, a sua volta, da chi o da che cosa trae la facoltà di eleggere i suoi legislatori? Il popolo, ormai livellato a massa informe, se l'è autoattribuita in virtù di una sua ipotetica sovranità, che non si può pensare di riallacciare assolutamente a niente, nemmeno, come qualcuno potrebbe opinare, risalendo per il medioevo e il cristianesimo, ai Romani; una sovranità così sospesa sul vuoto, manca di quel «religare», che la legittimerebbe riallacciandola alla perennità del passato di cui diverrebbe l'erede per diretta continuità. Se ne deduce che leggi, potere, autorità sono stabiliti arbitrariamente e semplicemente da comuni mortali e, non avendo nessun collegamento legittimo, non vengono presi sul serio da nessuno, in quanto gli uomini disdegnano di assoggettarsi all'arbitrio dei propri simili.

Qui sarebbe impossibile ed anche inutile seguire, oltre, dall'antichità, lungo i secoli, le metamorfosi del sempre più ingarbugliato concetto di libertà, divenuto ormai indispensabile e quotidiano condimento delle ideologie moderne, che lo mettono in giro con l'abbondanza con cui circola la moneta svalutata.

Tuttavia la libertà, «un fatto indubitabile, per quanto inesplicabile», deve essersi rifugiata in qualche luogo sicuro, si deve essere appartata, lontano dagli interessi e dagli intrallazzi umani, per esempio, nell'irrazionale altezza della supercoscienza dell'uomo, da cui si sottrae ostinatamente ad ogni indagine e dove nemmeno il pensiero può raggiungerla e trarla fuori.

Il problema va affrontato da un punto di vista più alto, dal quale, allargandosi l'orizzonte, sarà facilitato, con la vista interiore, il vedere e lo svelare il senso esoterico delle parole di S. Giovanni: - La verità vi farà liberi. - Con quali sue intrinseche possibilità, con quali mezzi la verità potrà farsi «autrice» della nostra libertà?

Se accettiamo che la parola autorità derivi da autore, troviamo confermato quanto abbiamo asserito poc'anzi: la verità è un'autorità intransigente, ma, come ogni autentica autorità, non emana leggi di sua iniziativa, limitandosi a confermare, a garantire la retta interpretazione e l'applicazione di leggi preesistenti, che ebbero origine, in un passato remotissimo, da un Principio, da un Dio, da un'Unità trascendente, o magari da un Eroe archetipo; in ogni caso, però, il Principio, il Dio, l'Origine delle leggi sono sempre posti di sopra della autorità della verità stessa; separati, fuori di questo mondo, nel regno dei cieli.

La verità, quindi è autorità solo in quanto funziona da medium, da tramite, da continuum del Principio, garantendolo come genuino, «VERO», senza travisarlo, agli uomini, che a quel Principio devono informarsi e uniformarsi. Questo impegno, questo compito autoritario della verità ne fa la guardiana della superumanità della Legge. Risulta evidente che, in una società tradizionale, gli uomini saranno disposti ad uniformarsi e a seguire leggi e norme che la verità garantisce sacre, perché conformi ai disegni del G.A.D.U. e non dettate da particolari interessi di legislatori profani.

Si comincia così ad intravvedere la concatenazione logica di autorità, verità e libertà negli intendimenti di S. Giovanni, e perché la libertà, al singolare, ci attesti la sua realtà con la presenza del Vangelo di Giovanni sull'ara dei nostri templi, dove la tradizione sopravvive ininterrotta.

L'uomo nasce originariamente condizionato fin dall'inizio, per il fatto stesso di non essere libero, in termini di intenzione e di deliberato proposito, di scegliere se nascere o non nascere; ma si trova, suo malgrado, «gettato nell'esistenza», come dicevano gli Gnostici, senza consapevolezza, senza coscienza, cioè senza l'esercizio della volontà e della libertà di fare ciascuno da sé e per sé la prima fondamentale ed essenziale scelta, quella che lo porta dal non-manifestato al manifestato, dal non-essere all'essere, senza potervisi eventualmente opporre. Una volta immesso a forza in questo mondo, dove gli sembrerà di esserci capitato per puro caso o per inesplicabile sentenza di fato ignoto (la necessità della propria esistenza individuale non è consapevole contenuto di coscienza) e vi deve rimanere inesorabilmente obbligato a dover scegliere continuamente in ogni circostanza ed assumere, altrettanto di continuo, per tutto il corso della sua vita, responsabilità di cui farebbe a meno, senza avere nemmeno l'alternativa in molte occasioni di esser libero di «scegliere di non scegliere»; inoltre, qualunque scelta faccia, se la può trovare invalidata dal dubbio che possa essergli stata imposta e suggerita da un determinismo di ordine superiore, da una predestinazione metafisica, da necessità inconscie, da forze e da impulsi di cui ignora la provenienza, il significato ed il fine. Il libero arbitrio, intimamente connesso con la libertà di scelte, può essere ottimisticamente affermato o pessimisticamente negato. Questa ambiguità è sospetta ed ha turbato anche la Chiesa.

Il pensiero occidentale, influenzato e imbevuto di cristianesimo, costringe a dare uno sguardo fugace a questo aspetto della questione, cioè l'antitesi grazia-libertà.

S. Paolo, per esempio, e S. Agostino affermano che l'uomo non può far nulla di buono per la sua natura corrotta, solo la grazia, costituendo il «primum» della salvezza, lo può soccorrere; la predestinazione è parte della provvidenza. V'è chi nega la grazia ed afferma la libertà (Pelagiani, Molinisti) e v'è chi nega la libertà ed afferma la grazia (Luterani, Calvinisti).

L'antitesi, mai risolta dialetticamente, resta il tallone di Achille della Chiesa: la ragione non riesce a dipanare la matassa di questo mistero, che viene scavalcato con un compromesso irrazionale: si può anche essere giusti, ma solo «speciali auxilio Dei». Pascal, agostiniano quasi più di S. Agostino, mette in evidenza l'aspetto irrazionale della complicata questione: «Chi perde la grazia, la perde perché la vuole perdere, ma la vuole perdere, perché Dio, con decisione giusta, anche se incomprensibile, vuole che la perda; chi chiede la grazia, la chiede perché la vuole chiedere, ma la vuole chiedere, perché Dio vuole che la chieda». Ignazio da Loyola, diplomaticamente, accantona la questione: «Benché sia verissimo che nessuno si può salvare senza essere predestinato e senza aver fede e grazia, si deve fare molta attenzione nel modo di discutere e parlare di questi argomenti». Qui è forse la premessa della lotta dei Gesuiti contro i Giansenisti, che parlavano dei suddetti argomenti senza la «molta attenzione» raccomandata da S. Ignazio, mandando all'aria con le ossa rotte libertà e libero arbitrio, che, per ragioni pratiche, politiche e morali, la Chiesa voleva invece salvaguardare, sia pure a scapito della grazia. D'altra parte la catena della causalità non lascia molte scappatoie in proposito, basti ripensare al simbolismo del Burattinaio e del burattino.

La nascita e la morte, tra cui è limitata la vita terrena, come è limitato il cammino apparente del sole tra i due solstizi (le due colonne d'Ercole o le due colonne del tempio) sono ritenute distinte, fuori delle determinazioni, delle ipotetiche libere scelte di ogni burattino vivente che le subisce senza poter esercitare su di esse nessuna intenzione o proposito. Appaiono e sono considerate dualità, termini antitetici, opposti: dov'è l'una, per lo stesso individuo, non può esserci contemporaneamente l'altra; l'una è nello spazio e nel tempo; l'altra esce dal tempo e sembra dissolversi nello spazio. La morte pare più illogica della nascita. L'una e l'altra condizionano l'uomo lungo l'intera sua esistenza, perché, non potendo scegliere né la propria nascita, né la propria morte, anche l'intervallo tra questi due termini che l'imprigionano, ed entro i quali, giorno per giorno, ora per ora, egli muore continuamente un poco alla volta, termini che sono gli imperativi categorici dai quali non si può assolutamente evadere, l'uomo non potrà mai nulla veramente scegliere, se pure possa sembrargli di poterlo fare, scegliere è illusione, aspirazione, desiderio, che confermano l'esistenza del gravame dei due eventi estremi, dei confini limitativi in mezzo ai quali si gode appena di una minima possibilità di movimento sempre in diminuzione, un margine vago di autonomia, quasi un intervallo come il gioco, la tolleranza di un perno calibrato nel suo foro fatto su misura.

Caricato a forza sul treno del divenire che corre dal passato verso la mortale certezza del futuro, se pure gli pare di potersi muovere tra i compagni di viaggio, rimane, con gli altri, sempre sul treno, senza poterne modificare la corsa e la destinazione. Il margine della sua attività è fatalmente circoscritto, quasi come riflesso condizionato. Tuttavia chi viaggia conosce il fenomeno per cui, chiudendo gli occhi, si può provare l'impressione che il treno inverta la marcia. L'antitesi nascita-morte si può risolvere riassorbendo questa dualità nella sua logica e naturale unità da cui è scaturita, facendo rientrare la nascita, anzi la vita intera, con un simbolico ritorno indietro, quasi invertendo la marcia del divenire, nell'utero da cui è sorta ed, eliminata l'antitesi, si smantella anche il potere coattivo che ci tiene schiavi tra questi due punti fissi, tra queste due colonne: nascita e morte.

Serviamoci del rito dell'iniziazione.

Con l'iniziazione il profano, convinto di essere venuto in massoneria di sua spontanea volontà (egli ignora di aver solo risposto alla chiamata dello spirito) è convinto pure di aver voluto intenzionalmente rinunciare alla sua vita profana, evadendo dalla banalità quotidiana del mondo del suo io, e piglia coscienza di esser morto davvero e di essere rinato; si convince pure di poter solo ora, finalmente, cominciare ad esercitare libere scelte, non sentendosi più condizionato dalla inesorabile fatalità della nascita fisica, do

vuta al caso, ed alla quale egli ha rinunciato, e dalla morte corporale, che ha attraversato, svincolandosi dai due accidenti fatali che gli erano stati imposti suo malgrado e che doveva passivamente subire.

Egli, attuando il «morire prima di morire», si sente fabbro attivo del proprio destino; comincia ad avere la sensazione ancora vaga di potersi proiettare, per un misterioso impulso centripeto che gli nasce nel cuore, dalla estrema circonferenza delle contingenze e della molteplicità, verso un centro che ancora non riesce a discernere, ma di cui intuisce la realtà, l'esistenza.

È lui, proprio lui stesso, adesso comincia, sia pure confusamente a rendersene conto, che come l'Evangelista Giovanni, può stabilire un mutato e nuovo rapporto tra nascita e morte, invertendole: mortenascita.

Muori e divieni.

Egli, da profano aspirante neofita, allorché, prima di assentire di entrare definitivamente tra noi, viene lasciato riflettere per alcuni istanti, sente di essere veramente proprio lui, solo lui, che decide l'affermazione della paternità e insieme della maternità del concepimento della sua stessa nuova esistenza di massone. Egli potrebbe, paradossalmente, addirittura provare l'emozionante esperienza di una possibilità assurda, impensabile in qualunque altro ambiente e in qualunque altra occasione: potrebbe, come dire? appena pena abbozzo di embrione, autoabortire, se per ipotesi, pusillanime intimidito dinanzi alla solennità del mistero iniziatico che lo aspetta, si ritirasse.

Per gli uomini, dice Coomaraswamy, non vi sono che le vie dell'obbedienza e della ribellione; ma oggigiorno, nel sovvertimento di tutti i valori tradizionali e di ogni vero significato dottrinale, gli uomini ne hanno perduto il ricordo e la cognizione e non seguono di deliberata vocazione né l'una né l'altra; con l'apatica indifferenza di coloro che «non sanno quello che fanno», si agitano a vuoto come bruti senza scopo e senza meta in un atteggiamento d'ignavia e di scepsi. Le due vie rimangono valide e aperte per chi sia ancora sensibile ad intendere il profondo simbolismo e l'ineffabile importanza: ad esempio, per l'iniziato massone; ammettendo che la sua iniziazione da virtuale divenga effettiva, ed egli possa, così, per il suo progredire interiore, al solstizio d'estate, passando per la «porta degli uomini», pervenire realmente nel tempio, tra le colonne, che lo condizioneranno, s'intende, ma da cui piglierà l'aire per arrivare fino al conseguimento dei piccoli misteri, per i quali sarà come Adamo nel Paradiso Terrestre, al cospetto di Dio, del Principio, e, come ad ogni nuovo livello raggiunto, gli si ripresenterà l'illusione, ripetuta via via, per ognuno degli scalini che supera, sempre più chiara ed efficace, di aver acquisito, ognora per la prima volta, la facoltà di poter liberamente scegliere; facoltà adesso, però, limitata a potersene servire solo in merito all'alternativa sopra indicata: obbedienza o ribellione, non essendovi per lui una terza via. Esse gli si presenteranno in tutta la loro drammaticità di prova, di ordalia, ed egli, simile ad Ercole al bivio, dovrà decidersi per la sua unica e fondamentale scelta una volta per sempre.

 

È il momento dell'autorealizzazione.

La rivolta degli ksatrya, o, in termini biblici, il peccato di Adamo, tentativo irregolare di volersi sottrarre dalla soggezione alla potenza del divino rendendosene indipendenti, il cercare di rendersi autonomi dai vincoli che il macrocosmo proiettato nel microcosmo comporta, si risolve negativamente in un regresso: l'allontanamento da Dio, il distacco dal Principio, la Cacciata. L'ambiguità della libertà sorge proprio da questa scelta sbagliata, che si rivela una trappola, un azzardo, come tutte le prove, perché ferma l'ulteriore sviluppo di chi ne sia protagonista: uno « scacco », nel senso esistenzialista della parola: ne risulta una rinunzia al pleroma dell'immortalità e sospinge di nuovo tra le colonne, nel mondo esiguo della necessità e dell'inquietudine, fermi nella storia e nel tempo della individuale finitezza. È l'arresto spirituale al livello raggiunto: la morte più vera, una definitiva impossibilità a sperare di proseguire.

La via dell'obbedienza, al contrario, è, per l'iniziato «attento», il procedere, dopo aver riconosciuto e preso possesso in pieno della propria qualificazione, ora non più latente, assecondandola e realizzandola in conformità della propria più intima natura, ed arrivare ad adeguarsi completamente al destino che riconosce essergli stato assegnato (perciò ciascuno è artefice della sua fortuna) seguendolo fino in fondo, secondo il retto intenderlo e l'esatto svolgerlo, ottenendone di superare per davvero la dualità che lo ha accompagnato da quando era apprendista, di morte e rinascita che, a differenza della nascita e morte terrene distanziate nel tempo, risulteranno unificate nell'autentico «atto puro» del completamento del rito iniziatico finalmente divenuto effettivo, e in cui non vi sarà più alcuna cesura, né intervallo.

Morte e rinascita iniziatiche non avranno più soluzione di continuità, coincideranno; non vi sarà più una vita esaurentesi, giorno per giorno, in un assiduo processo di logorio e di consunzione verso l'estinzione finale, ma una vita che, avendo già superata la morte, si svolgerà come un arricchimento senza sosta, giorno per giorno, verso l'eternità; rinascita che sarà sviluppo spirituale indefinito.

L'iniziato sulla via dell'obbedienza si sentirà veramente ormai rinato dalla matrice universale, nuovo se stesso e diverso, e penserà una volta di più di esserci riuscito per virtù propria, per la sua sola volontaria determinazione, avendo per la prima volta potuto optare di venire dalla potenza all'atto, dal non-essere all'essere, dalle tenebre alla luce; non immagina di trovarsi, sia pure su un piano molto più alto, ognora nel mondo effimero delle apparenze, sempre asservito a possibilità che, benché difficilmente accessibili, sono però accessibili. Morto e rinato nello stesso spazio di tempo dell'eterno presente del rito, rimane tuttavia nello spazio e nel tempo siano pure sacri, e li dovrà scavalcare con uno sbalzo che pare quasi impossibile. Cose che conoscerà appieno più tardi, quando una nuova dignità gli deriverà dal sentirsi coinvolto in un fine superiore con una particolare funzione non più a suo beneficio, perché avrà trasceso se stesso e il suo io empirico, mutandosi nel SE cosmico, fuso e non confuso con la solenne unità dell'opera universale in cui si troverà inserito e consacrato, riscattato da un netto distacco dal suo individualismo umano, ed infine arriverà a sentire di avere intera libertà di scegliere e di scegliere sempre bene, secondo giustizia, perché giunto a tal punto di attuazione completa di autocompimento interiore ed impersonale, potrà abbattere le colonne, questi limiti estremi (abbattimento che corrisponde alla platonica definitiva uscita dalla caverna) e sconfinare, al solstizio d'inverno, dal NON OLTRE all'OLTRE, uscendo per la «porta degli dèi» verso la luce dei grandi misteri, fuori di ogni manifestazione e di tutte le necessità, fuori persino degli influssi zodiacali, nel regno supremo del Padre, di cui sarà l'immagine e la somiglianza, anzi il figlio diletto; sceglierà sempre bene in quanto non sceglierà mai in base a quel suo presuntuoso libero arbitrio, del quale ora riconoscerà l'inconsistenza, ma sceglierà sempre e soltanto in conformità di quella sopraterrena eterna legge dell'eterno Principio; di quel Principio trascendente che avrà raggiunto ed al quale si sarà intimamente identificato, immedesimato ed indissolubilmente unito.

Fatto puro intelletto e intuizione, sarà del tutto senza «impedimenta»; sopra di ogni stato, di ogni immanenza e schiavitù, non sarà più legato da nessuna e a nessuna cosa e, facendo con il Principio tutt'uno, saprà trasporre e assommare nell'intimo del suo cuore, insieme la via, la verità, la giustizia e, parafrasando Gesù, potrà dire: «Chi vede me, vede il Principio; io e il Principio siamo Uno» e, fatto simile al Logos, ripeterà le opere del Padre; e le parole di S. Giovanni gli si sveleranno: coincidendo con l'essenza suprema dell'essere, con la verità primordiale e perenne, sarà finalmente libero, perché assolutamente incondizionato; libero anche, paradosso massimo, dal legame più greve: dal concetto di libertà, che avrà superato.

Fermo al centro della ruota degli eventi, permetterà ogni rotazione, mantenendosi estraneo al vortice affannoso del movimento che gli si volge d'intorno.

 

 

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