20
Le realizzazioni di Dasaratha

Gli anni passarono. Come sempre accade, pochi si accorgono del trascorrere inesorabile del tempo che trascina via dalle mani le cose o le persone che più si amano. Il tempo porta via principalmente la gioventù, la vita, che è la cosa più importante, visto che tutto il resto vi si inserisce. Dasaratha era una persona intelligente e spiritualmente avanzata, ma neanche lui si accorse che la vecchiaia si avvicinava, finché la prime infermità cominciarono a minare il suo corpo, non più possente come una volta. I primi dolori cominciarono a farsi sentire. Un vago senso di stanchezza nei confronti della vita politica e familiare cominciò ad affiorare e pensò che fosse arrivato il momento di rinunciare a tutto per andare a passare gli ultimi anni della vita nella foresta.

Un giorno riunì i suoi consiglieri. C'era una certa gravità nell'aria.

“Cari amici,” esordì. “Sto diventando vecchio. Non ve ne siete accorti? Nessuno di voi me lo ha mai detto. Le prime infermità cominciano a minare l'efficienza del mio corpo. A questo punto credo che la cosa più saggia da fare sia quella di nominare Rama principe ereditario e fra breve ritirarmi nella foresta in meditazione. É sempre stata, questa, la maniera migliore di passare gli ultimi anni della vita. É l'eterno sentiero, il dovere di ogni re. Rimanere attaccati agli agi e alle opulenze di corte fino all'ultimo è un disonore che non desidero. Che cosa ne pensate?”

“É sempre un momento doloroso quello in cui un re virtuoso come te lascia il trono,” rispose per tutti Sumantra, “ma è perfettamente vero che questo è il dovere religioso dello kshatriya, e noi pensiamo che la tua decisione sia corretta. Riguardo a Rama, il popolo lo ama incondizionatamente e saranno tutti molto contenti di salutarlo come futuro re.”

Contento di sentire quelle parole, lo stesso giorno Dasaratha dette le disposizioni per preparare la cerimonia dell’investimento di Rama. Quando i cittadini lo vennero a sapere, la loro gioia esplose in mille festeggiamenti, in attesa dell'incoronazione. La città fu ripulita e lavata con acqua di rose e addobbata a festa con bandiere, manifesti e ogni altra decorazione. Si respirava un'aria di felicità quasi frenetica. Ma le strade del destino sono spesso imponderabili, e in quei momenti nessuno poteva immaginare cosa riservasse il futuro.

 

21

Il piano crudele – Dasaratha esilia Rama  

Molti anni prima la regina Kaikeyi aveva adottato una bambina gobba e orfana, incontrata nella casa del suo zio materno. Il suo nome era Manthara e le era stato dato il compito di accudire le stanze private della regina. Nonostante il carattere talvolta aspro e spesso invidioso della sua governante, Kaikeyi si era affezionata a lei. Quel giorno Manthara vide il fermento caratteristico delle occasioni di festa e immaginò che qualcosa di importante stesse per accadere. La gente era particolarmente felice e rideva e scherzava per le strade anche per ragioni futili. Si chiese cosa stesse per succedere. In un momento in cui si trovava con Kaikeyi, glielo chiese.

“Vedo che tutti si stanno preparando per qualche grande evento, ma non sono ancora riuscita a sapere cosa si festeggerà. Mia cara regina, tu ne sarai al corrente: di cosa si tratta?”

Kaikeyi la guardò con espressione gentile.

“Ma come, non sai nulla? Oggi per noi è un giorno di grande gioia. Dasaratha sta per proclamare Rama principe ereditario. Presto l'amato Rama diventerà il re di Mithila.”

Sentendo questo, Manthara s'incupì e strinse le labbra, presa da una violenta rabbia.

“Rama sarà incoronato principe ereditario?” quasi gridò. “E dovrei esserne lieta? Ma come fai tu a essere felice in un giorno cosi funesto per te? Hai tutte le ragioni per essere infelice, invece.”

Kaikeyi pensò che stesse scherzando.

“Via Manthara,” le rispose cercando di sdrammatizzare. “É un giorno così bello, perché mai dovrei essere infelice?”

Manthara, goffa nella sua deformità, sembrava arrabbiata davvero e la regina capì presto che non stava scherzando.

“Un giorno così bello? Ma cosa pensi che succederà a te e a tuo figlio Bharata il giorno in cui il re lascerà il corpo? Ragiona. Questo è il giorno della tua sconfitta. Quando Rama sarà incoronato tu sarai certa di non poter mai essere la madre di un re, e mai nessuno ti mostrerà rispetto.”

Kaikeyi non prendeva ancora molto sul serio le parole della sua governante.

“Ma tu sai bene,” rispose, “che Rama è nato prima di Bharata e quindi, secondo le consuetudini, è l'erede di diritto. Inoltre non credo che nessuno mai mi mancherà di rispetto. Rama è un giovane nobile e premuroso e mi ha sempre amata alla stessa maniera di come ha amato la sua stessa madre.”

Manthara divenne rossa in viso, ora gesticolava.

“No, non sarà più così nel futuro. Rama ti tratterà come una serva e cercherà di uccidere Bharata perché sa che un fratello minore valoroso è un pericolo costante. Questa è la politica del potere, è sempre successo così. E poi, dopo aver ucciso tuo figlio, ti caccerà dalla corte e ti esilierà.”

Kaikeyi non credeva che Rama avrebbe mai potuto comportarsi in un modo tanto atroce, ma Manthara era così insistente e portò così tanti argomenti che alla fine la regina si convinse. Pensò che avrebbe dovuto fare qualcosa per il suo bene e per quello di Bharata. Il pensiero del figlio seduto sul prestigioso trono di Ayodhya aveva acceso in lei uno strano fervore.

“Sì, è vero. Dobbiamo impedire l'incoronazione di Rama. Io voglio vedere mio figlio sul trono. Ma cosa possiamo fare? Rama ha il diritto per nascita. Non vedo una soluzione.”

Manthara, a quelle parole, ebbe una smorfia di trionfo.

“Devo forse ricordarti ciò che accadde tempo fa? Tu stessa me lo hai raccontato. Ricordi quando accompagnasti tuo marito in quella battaglia dove i Deva combatterono contro gli Asura? Ricordi che il re fu ferito e che tu gli salvasti la vita guidando il carro fuori del campo di battaglia? Allora il re ti promise di soddisfare due tuoi desideri, qualunque fossero. Tu a quel tempo non avevi particolari desideri, ma lui insistette, così tu dicesti:

“Ora non ti chiedo nulla per me, ma nel futuro potrei avere qualche desiderio da soddisfare: promettimi che in qualsiasi momento te li chiederò tu me li concederai.”

“Dasaratha promise. E tu finora non gli hai mai chiesto nulla. Kaikeyi, questo è il momento. Chiedi al re due cose: che mandi in esilio Rama nella foresta per quattordici anni e che nomini Bharata principe ereditario.”

La regina rimase turbata a quel pensiero. Esitò un istante. Non era sicura che quella fosse la cosa giusta. Ma l'ambizione e l'insistenza di Manthara ebbero la meglio e cedette al piano diabolico.

Cosa successe nel cuore di Manthara? E in quello virtuoso di Kaikeyi? Chissà. Certo l'ambizione è una cattiva consigliera quando non controllata. Bharata stesso, pur nel suo dolore, riconobbe che Manthara e Kaikeyi erano solo gli strumenti di un destino imperscrutabile.

“Vai subito nella stanza dove ci si chiude quando si hanno dei crucci e spargi in terra i tuoi gioielli. Quando Dasaratha verrà a cercarti deve trovarti lì, e vedrai che ti chiederà il motivo della tua afflizione. Allora tu digli cosa vuoi da lui. Va’, presto, il re potrebbe arrivare.”

Kaikeyi andò nella stanza della collera e si sdraiò sul pavimento, fingendosi in preda alla disperazione.

Poco dopo Dasaratha andò a trovare la moglie. Aveva appena finito di dare istruzioni per la cerimonia imminente, il suo cuore era pieno di gioia e voleva condividerla con lei. Entrò nella sue stanze private, ma stranamente non c'era. La cercò ovunque, ma non riuscì a trovarla. Allora Dasaratha chiese alle ancelle se sapevano dove la regina fosse andata e fu informato che era nella stanza della collera.

Il buon re era sorpreso. Perché mai la sua moglie preferita era entrata in quella stanza? Cos'era successo? Kaikeyi aveva sempre avuto tutto ciò che voleva, non le mancava proprio nulla. Cosa la rendeva infelice? Dasaratha si affrettò ad andare nella stanza e la trovò lì, distesa in terra, con i gioielli sparsi ovunque, col volto incupito dal dolore. Dasaratha era sorpreso.

“Mia cara sposa, cosa fai in questa stanza e perché stai lì in terra? Cosa ti rende infelice? Lo sai che per te sarei pronto a fare qualsiasi cosa pur di vederti felice. Spiegami cosa è successo.”

Con la voce rotta dal pianto disse:

“Ricordi quando ti salvai la vita? In quel giorno tu mi promettesti di concedermi due desideri.”

Dasaratha sorrise.

“Ma certo che ricordo. Io ho sempre mantenuto le mie promesse, e sicuramente farò così anche con te adesso. Se hai qualche desiderio chiedi, e ti soddisferò immediatamente.”

“Sì, ora ho due desideri da chiederti,” replicò lei. “Ma voglio che prima tu mi dica ancora che sei pronto a fare qualsiasi cosa per me.”

Il re rispose con tono affabile.

“Mia cara Kaikeyi, sono pronto proprio a tutto pur di vederti felice.”

Sentendo queste parole Kaikeyi si fece forza e indurì il suo cuore. Non le fu facile, perché Kaikeyi era una donna dolce e amorevole.

“Voglio che tu mandi Rama in esilio nella foresta per quattordici anni e che al suo posto nomini Bharata erede al trono.”

Il re non poteva credere a ciò che aveva ascoltato; forse non voleva crederci. Ma forse lei stava scherzando, pensò. Forse era un equivoco. Kaikeyi aveva sempre amato Rama e Rama era stato sempre affettuoso con Kaikeyi. Perché dunque doveva odiarlo tanto? Sul momento Dasaratha non riuscì a dire niente.

“Kaikeyi, cosa stai dicendo?” ansimò infine. “Non posso esiliare Rama. Cosa ti è successo? Perché mi stai chiedendo una cosa simile?”

La regina reagì con veemenza.

“Tu hai fatto una promessa. Le prime regole morali di un re sono la veridicità e l'onestà. Io ti chiedo di esiliare Rama e di nominare Bharata principe ereditario.”

Aveva quasi gridato, con rabbia, con furia, quasi con odio. Non era più la stessa dolce Kaikeyi, era un'altra persona. Chi era? Come fare per convincerla che stava chiedendo una cosa assurda? Vedendolo stupefatto e incapace di reagire e di accettare la realtà, Kaikeyi gli ripeté la richiesta diverse volte. E quando il povero monarca comprese che la moglie faceva sul serio, il dolore gli fece perdere la coscienza. Poi si riprese e cercò pazientemente di dissuaderla dal suo crudele proposito, ma non servì a niente. Kaikeyi era decisa. Quelli erano i suoi desideri.

Per tutta la notte Dasaratha cercò di convincere la moglie, ma il sole che si affacciò da dietro l'orizzonte trovò Dasaratha in preda alla disperazione. Vedendo che il marito non aveva il coraggio di farlo, Kaikeyi chiamò un'ancella e la incaricò di convocare Rama e di farlo venire nei suoi appartamenti, dicendogli che suo padre voleva vederlo.

Quando l'ancella gli riferì il messaggio, Rama rimase un poco sorpreso da quella chiamata a un'ora tanto insolita, tuttavia uscì subito e si affrettò dal padre.

Entrò nella stanza di Kaikeyi e subito si accorse che era successo qualcosa di grave. Dasaratha era sconvolto, aveva gli occhi cerchiati e arrossati dal pianto. Fissava il pavimento: non aveva il coraggio di guardare gli occhi del figlio, così simili ai petali del fiore di loto. Kaikeyi aveva una strana espressione di crudele trionfo negli occhi. Ma tutta l'atmosfera era strana, insolita. Rama era sorpreso e dispiaciuto dall'evidente dolore del padre.

“Ti vedo molto addolorato,” gli disse. “Cosa sta succedendo? Quali sono i motivi che ti rendono tanto sofferente? Nel tuo regno va tutto bene, la gente ti ama e ti rispetta. Cosa c'è che non va?”

Dasaratha non riusciva a parlare, teneva sempre gli occhi bassi e aveva un'espressione terrorizzata, quasi vedesse in quel marmo immagini mostruose che lo minacciavano di chissà quali pericoli. Il suo cuore era pieno di dolore. Senza alcuna pietà Kaikeyi rivelò tutto a Rama. Ma con grande sorpresa, il principe non batté ciglio, e anzi sorrise come se nulla fosse successo.

“Mio caro padre,” disse con voce dolce, “non addolorarti per me. Io accetto l'esilio con la stessa gioia con cui avrei accettato l'incoronazione. Non preoccuparti. Passerò questi quattordici anni nella foresta in compagnia di santi e asceti e mi arricchirò della loro conoscenza spirituale. Inoltre li proteggerò dagli esseri malvagi e così renderò loro un prezioso servizio. E quando saranno trascorsi questi anni tornerò da te, anche se non potrò essere il re. Sappi che non ho alcun attaccamento per le gioie di questo mondo, che spariscono più velocemente di quanto vengano e sono solo causa di ansietà. Sono felice lo stesso, padre, non angustiarti per me.”

Dasaratha conosceva bene suo figlio, si aspettava quella reazione, e la sua bontà lo addolorò ancora di più. Forse avrebbe preferito che Rama avesse reagito violentemente, o che l'avesse ucciso, vistosi privato del suo diritto. Dasaratha si chiese se avrebbe potuto vivere senza il suo figlio prediletto.

Con un sorriso, Rama uscì dalla stanza. Quando vide che si allontanava, Dasaratha svenne. Avrebbe voluto ribellarsi alla crudele moglie, avrebbe voluto correre da Rama e dirgli che rinunciava persino al suo onore, alla parola data, pur di non separarsi da lui, ma non se la sentiva. Sapeva che Rama stesso non avrebbe approvato un comportamento simile. Uno kshatriya non doveva mai venire meno alla parola data, a qualsiasi prezzo; queste erano le ingiunzioni dei Veda, e un re doveva dare l'esempio di obbedienza. Se non si fosse comportato così, nessuno avrebbe più seguito le leggi e tutto sarebbe sprofondato nel caos. Non doveva essere la causa dalla sofferenza di tanti innocenti; meglio soffrire da solo.

 

22
La partenza

Rama non aveva alcun attaccamento per la gloria o la felicità che si possono ottenere in questo mondo. Meditando sul mondo spirituale e sulla Suprema Personalità di Dio, si recò prima di tutto dalla madre e le comunicò la terribile notizia. Con il cuore affranto dal dolore, Kausalya lo abbracciò e gli augurò ogni fortuna. Poi Rama andò dal fratello Lakshmana e gli dette la notizia. Lakshmana non poteva credere alle sue orecchie.

“Tu in esilio? Non posso crederci.”

Rama gli raccontò i dettagli, di Kaikeyi e di Manthara, del complotto di cui era rimasto vittima. Lakshmana sentì il cuore esplodere dalla rabbia.

“Come puoi accettare una simile ingiustizia? Reagisci! Manda in esilio nostro padre Dasaratha, che si è dimostrato troppo debole e troppo succube di Kaikeyi. E che ci vada con lei in esilio. Se non te la senti, dammi solo un cenno e io, con la mia spada, li costringerò a partire immediatamente.”

Rama era infastidito dalle parole aspre del fratello.

“Lakshmana! Come puoi parlare di nostro padre in questi termini? E anche di Kaikeyi! Non parlare così di loro. Dasaratha non è attaccato al trono, né a nient'altro. Dimentichi che stava per incoronarmi e andarsene nella foresta? Anche se stanno commettendo un'ingiustizia noi dobbiamo sempre amarli e rispettarli. Nostro padre è costretto dalla sua etica di kshatriya e Kaikeyi agisce sicuramente sotto il volere supremo di Dio! Abbi fede, quindi, e non addolorarti.”

Ma Lakshmana era inconsolabile e ansimava, come chi non riesce a controllare la propria rabbia. Insistette molto per accompagnarlo nella foresta e alla fine Rama dovette accettare.

Poi si recò da Sita e raccontò anche a lei il drammatico avvenimento.

“Partirò oggi stesso. Io vado nella foresta, e tu non potrai accompagnarmi. Lakshmana verrà con me e mi aiuterà.”

Con un filo di voce, Sita disse:

“Tu sei mio marito e ho promesso di stare con te e di servirti in ogni circostanza. Io non posso vivere senza di te neanche per un giorno: come posso non vederti per quattordici anni? Cosa vuoi che mi importi delle gioie della vita regale se tu non sei qui a goderne con me? Non dubitare, io verrò con te. E se non mi vorrai io ti seguirò da presso e ogni volta che avrai bisogno di me io accorrerò.”

Rama cercò di far desistere Sita dalla sua decisione, ma non fu possibile. Infine acconsentì.

Dopo aver salutato i parenti e gli amici, i tre si tolsero sete e gioielli regali, si vestirono con i semplici abiti degli eremiti e uscirono dal palazzo. Destinazione: la foresta.

La terribile notizia dell'esilio di Rama si era già diffusa in tutta la città e quando uscì dal suo palazzo si trovò dinanzi una folla sterminata. I cittadini si erano riuniti alle porte della città per vederlo partire e per manifestare il loro dolore. Appena videro Rama e Lakshmana vestiti da eremiti e la dolce Sita che li seguiva fedelmente, tutti cominciarono a lamentarsi, addolorati da quella vista pietosa e ingiusta. C'era un forte brusio che, quando i tre passarono in mezzo alla folla, divenne un tumulto.

“Rama, noi non sappiamo perché questo crudele re Dasaratha ha voluto esiliarti nella foresta,” gridarono molti, “ma possiamo forse intuirlo. Siamo certi che è stata colpa della regina Kaikeyi, che è troppo attaccata a Bharata. E sappiamo anche che il re è troppo attaccato a lei. Ma noi non vogliamo vivere in un regno governato da un re troppo succube delle sue mogli, perché questo non è bene per la nostra evoluzione interiore. Permettici di venire con te nella foresta. Se noi tutti veniamo con te, la foresta sarebbe trasformata in un regno. E quello che ora è un regno diverrebbe una foresta. Noi vogliamo che sia Dasaratha ad andare in esilio e che tu regni con giustizia su tutti noi.”

Rama osservò questa patetica manifestazione di affetto e sorrise, ma si preoccupò che la pace continuasse a regnare anche dopo la sua partenza. Cosi parlò in modo che tutti potessero sentirlo.

“Non dovete pensare male del vostro re, di mio padre, che è solo lo strumento di un misterioso destino. E neanche della mia matrigna Kaikeyi che ha causato tutto questo. Noi tutti siamo nelle mani di un Dio supremo e benigno che muove tutto. Solo il tempo ci farà comprendere perché tutto ciò sta accadendo. Tornate nelle vostre case. Non seguitemi. Lasciate che io liberi mio padre dalla promessa che ha fatto a Kaikeyi. Terminato il periodo di esilio io tornerò e regnerò su di voi.”

Alla fine i cittadini di Ayodhya, col cuore rattristato dall'ingiustizia perpetrata, tornarono nelle loro case. Rama, Lakshmana e Sita si addentrarono nella foresta.

 

23
Primi tempi in esilio - Citrakuta

Scese la sera. Rama e i suoi fedeli compagni avevano camminato per tutto il giorno. E arrivarono nell'eremo del saggio Bharadvaja, il discepolo di Valmiki, non lontano dalla confluenza del Gange con lo Yamuna. Dopo aver offerto i dovuti rispetti al saggio, Rama gli parlò.

“La tua fama di saggio che ha i sensi sotto completo controllo è diffusa in tutto il mondo. Noi sappiamo che hai viaggiato molto e che conosci innumerevoli luoghi santi e incantevoli. Dove ci consiglieresti di andare a trascorrere i nostri quattordici anni di esilio? Qual'è la terra più bella che conosci?”

“Seguite le mie indicazioni,” replicò Bharadvaja, “e arriverete nei pressi di una collina chiamata Citrakuta. É un posto meraviglioso, ricco di tutte le bellezze della natura.”

I tre ripresero il cammino e in breve tempo scorsero Citrakuta. Era veramente bella come Bharadvaja l'aveva descritta. Lì c'era l'eremo di Valmiki e andarono subito a offrire i rispettosi omaggi al saggio. Poi decisero di costruire una capanna nelle vicinanze e Lakshmana si dette subito da fare. In poco tempo la capanna fu costruita e cominciò così un periodo di serenità.

 

24
La morte di Dasaratha

Sumantra aveva accompagnato Rama fino all'eremo di Bharadvaja e poi da lì ritornò ad Ayodhya per dare le ultime notizie al re. Dasaratha era cupo, triste, assorto in chissà quali pensieri. Ascoltò il racconto dell'itinerario del figlio senza dire una parola. Poi si alzò e si ritirò nelle sue stanze.

Non riuscì a chiudere occhio. Davanti a sé si susseguivano miriadi di immagini e fra tutte il viso di Rama era predominante. All'improvviso sussultò: un ricordo gli era balenato nella mente e gli strappò lacrime cocenti. Ecco, ora ricordava il motivo per cui stava soffrendo così amaramente. Si alzò e chiamò la sua prima moglie, Kausalya, la madre di Rama. La fece sedere sul letto e la guardò, quasi volesse scusarsi per ciò che aveva fatto. Lei lo guardò con affetto, senza rancore.

“Sento il bisogno,” le disse Dasaratha, “di raccontare a te e a nessun altro una storia che mi accadde in gioventù. Non riesco più a tenerla per me solo. In realtà questo episodio lo avevo quasi dimenticato, ma ciò che è accaduto in questi giorni maledetti me l'hanno reso ancora nitido nella memoria. Ascoltami.

“Nella mia giovinezza io appresi l'arte di tirare con l'arco. Imparai così bene che potevo colpire un bersaglio solo ascoltando il suono prodotto da esso. La gente mi chiamava ‘colui che colpisce il suono’. Durante quei giorni commisi un errore imperdonabile, del quale sto ora scontando le reazioni. Era la stagione delle piogge. Un giorno andai a caccia, e quando il sole tramontò io continuai a cacciare. La notte era scesa, e io vagavo in cerca di una preda. D'un tratto sentii un fruscio che proveniva dal ruscello, un rumore simile a quello della proboscide di un elefante che beve acqua. Così pensai che si trattasse di un animale e scagliai una freccia. Ma non fu il barrito di un elefante quello che mi rispose, ma il grido soffocato di un uomo. Corsi sul luogo e lì, mortalmente ferito, vidi un giovane eremita.

“O re,” mi disse lui con un filo di voce, “io non so perché tu mi abbia colpito, ma ora sto morendo. Non mi preoccupo della mia vita, che è comunque effimera, bensì per i miei anziani genitori che non potranno sopravvivere senza di me. Tu sei crudele perché hai ucciso un eremita indifeso, ma promettimi di andare da loro e di dargli la notizia della mia morte.”

“Così il giovane asceta morì. Io corsi a cercare i suoi genitori e non ci misi molto a trovarli. Inorridii quando mi accorsi che non solo erano molto vecchi, ma anche ciechi. Quando diedi loro la tremenda notizia non dissero nulla, ma il dolore traspariva visibilmente. Poi eseguirono i riti funebri per il figlio e presero la drammatica decisione di rinunciare alla loro vita suicidandosi nella pira funebre.

“Prima di entrare nel fuoco mi maledissero:

“Un giorno anche tu proverai il profondo dolore di essere separato da tuo figlio.”

“Ora, ora la maledizione degli asceti diviene tragicamente vera.”

Dasaratha singhiozzava. Poi guardando la moglie disse quasi in un rantolo:

“Kausalya, io non posso sopportare il dolore della separazione da Rama.”

In quella angoscia Dasaratha passò la notte, ma il suo cuore non resse a tanta sofferenza, e allo spuntare del giorno si fermò.

 

25
Bharata viene richiamato

La morte del re fu un duro colpo per i cittadini di Ayodhya, già provati dal dolore della separazione da Rama. Il re, nonostante l’accaduto, era molto amato dal popolo. Quel giorno stesso i ministri si riunirono per discutere della difficile situazione.

“Il re Dasaratha è morto questa mattina, Rama e Lakshmana sono già partiti per la foresta e a quest'ora saranno troppo lontani. Bharata e Satrughna sono a Kekaya. Un regno, e anche una città, che rimanga senza un governo anche per un solo giorno rischia la distruzione. Dobbiamo quindi trovare subito una soluzione, anche temporanea, al problema.”

La cosa più logica sembrò quella di richiamare con urgenza Bharata e Satrughna ad Ayodhya. Così furono inviati dei messaggeri.

Quel giorno Bharata si era svegliato depresso. Aveva avuto numerosi incubi e non si sentiva per niente tranquillo. Più di una premonizione lo avevano avvisato di qualche tragedia incombente.
Chiamò i suoi amici più intimi e si confidò con loro.

“Questa è stata una notte tremenda, piena di incubi e di segni premonitori malefici. Eppure sembra che tutto vada bene. Spero che anche ad Ayodhya tutto stia procedendo per il meglio, che il mio caro padre Dasaratha e il mio amato fratello Rama stiano bene e che non sia successo nulla di spiacevole.”

Proprio mentre diceva queste parole arrivò un messaggero che subito chiese di lui. Bharata lo ricevette immediatamente, allarmato da quell'arrivo così inatteso.

“Nobile Bharata,” disse l'inviato, “ho un messaggio per te da parte dei saggi di Ayodhya. Ti pregano di tornare subito alla capitale, senza perdere tempo.”

L'ignaro Bharata fu turbato da tanta premura. Allora era vero, quelle premonizioni non erano frutto della suggestione; qualcosa era successo.

“Perché tutta questa fretta?” chiese ansiosamente. “Cos'è accaduto? Ora sono certo che sta succedendo qualcosa di grave. Dimmi, non farmi stare in ansia.”

Al messaggero era stato ordinato di non dire nulla, ma Bharata insistette.

“É forse successo qualcosa a mio padre? O forse qualcosa a Rama? Non vedi come sono angosciato? Dimmi cosa è accaduto.”
Ma il messaggero aggirò il problema molto diplomaticamente e lo pregò solo di partire immediatamente. Dopo poche ore Bharata e Satrughna lasciarono Kekaya con grande urgenza.

Quando i due fratelli entrarono nella città, la trovarono misteriosamente deserta e triste. Si guardarono attorno e un profondo senso di tristezza li colse. Bharata guardò Satrughna. Anche lui era angosciato.

“Vedi?” disse Bharata. “Le strade sono vuote e quella poca gente che circola è triste e non ci saluta.
Sembra che tutti vogliano evitare i nostri sguardi.”

“Sì, vedo,” replicò Satrughna. “Non c'è dubbio: è accaduto qualcosa di grave. Facciamo presto.
Voglio sapere, non riesco più a tollerare il peso di questo mistero.”

Innanzi tutto Bharata cercò sua madre Kaikeyi e non trovandola nei suoi appartamenti andò nel salone delle riunioni del palazzo. La trovò là. Appena lo vide, lei si alzò, presa da una grande gioia e lo abbracciò con trasporto. Ma Bharata era troppo preoccupato. La respinse con gentilezza.

“Madre, cosa sta succedendo? Perché questa atmosfera cupa e triste? Perché nessuno mi ha salutato quando sono entrato in città? E dov’è mio padre? Dove sono i miei fratelli Rama e Lakshmana?
Sono in preda all'ansia e voglio sapere subito cosa sta succedendo.”

Senza alcun segno di rimorso, con un lampo di trionfo negli occhi, Kaikeyi rispose.

“Figlio mio, tuo padre ha lasciato le sue spoglie mortali ed è salito ai pianeti celesti. Tuo fratello Rama, invece, è in esilio nella foresta con Lakshmana e Sita.”

Non riusciva a credere a quelle parole. Suo padre morto? Rama, Lakshmana e Sita nella foresta? E perché? Appena si fu ripreso dallo sgomento pianse amaramente.

“Mio padre morto e Rama nella foresta con Sita e Lakshmana! Ma come è potuto accadere? Fino a poco tempo fa non era malato e tutto andava bene. Cosa è andato a fare Rama nella foresta? Spiegami tutto.”

 

26
La furia dei due fratelli

Kaikeyi raccontò tutta la storia, a cominciare dal giorno in cui Rama doveva essere incoronato, riferì i consigli di Manthara, le sue richieste a Dasaratha e narrò la partenza di Rama e la morte del re.  “Ora, figlio diletto,” concluse, “sei tu il re e puoi godere del regno senza alcun nemico. Tuo fratello non potrà insidiarti il trono per quattordici anni e l'esercito ti è fedele. Rallegrati, quindi.”

Mentre parlava, Kaikeyi si accorse che il figlio non era molto soddisfatto. Bharata ascoltava senza dire nulla, ma ad ogni parola la sua tensione cresceva, e sembrava sul punto di esplodere. Una collera sempre più grande e incontrollabile si impadronì del giovane principe. Satrughna alle sue spalle era furibondo. Poi la sua rabbia esplose.

“Kaikeyi, donna malvagia, tu non mi conosci per nulla. Io non ambisco a questo trono e non sono interessato né al regno né a nient'altro in questo mondo. Per tutte queste cose, che io reputo illusorie e indegne, tu hai ucciso mio padre e hai fatto soffrire Rama, che io adoro come un Dio.”

Kaikeyi tremò davanti alla rabbia violenta di Bharata. Anche Satrughna alle sue spalle aveva un aspetto sempre meno pacifico. La voce di Bharata era dura e tagliente.

“Dovrei ucciderti per ciò che hai fatto, ma sei una donna inerme e sei mia madre. Per questo ti lascio la vita, questa vita che passerai nei rimorsi più atroci. Io non accetterò mai questo regno. Sappi che dopo aver celebrato i funerali di mio padre andrò a cercare Rama nella foresta, lo riporterò indietro e gli consegnerò il trono che gli spetta di diritto. E per mantenere la promessa che Dasaratha ti ha fatto andrò io nella foresta al suo posto.”

 

27
Alla ricerca di Rama

Terminate le cerimonie funebri in onore di Dasaratha, Bharata si consultò con il fratello Satrughna e con i saggi di corte. Nel corso del colloquio Satrughna non riuscì più a contenersi e volle gettarsi su Manthara per ucciderla, ma Bharata glielo impedì.

Al mattino del quattordicesimo giorno dalla morte di Dasaratha, Bharata annunciò la sua partenza. Davanti alla folla riunita intorno al palazzo, comunicò a tutti che sarebbe andato a cercare Rama e che l'avrebbe riportato ad Ayodhya. I cittadini furono molto contenti di quella saggia e virtuosa decisione e sentirono rinascere la speranza. I preparativi per la partenza iniziarono immediatamente. Bharata portò con sé un imponente esercito e anche la madre, Manthara e le altre mogli di Dasaratha. Vennero i principali ministri e i saggi di corte.

Ripercorsero la stessa strada che Rama aveva fatto non molti giorni prima, finché arrivarono nell'eremo del Rishi Bharadvaja. Il saggio intrattenne l'intero esercito, provvedendo al cibo e all'alloggio grazie ai suoi poteri mistici. Dopo averli rifocillati, Bharadvaja volle conoscere le loro intenzioni.

“Giovane principe Bharata,” gli chiese. “Quali sono le tue intenzioni nei confronti di Rama? Spero che tu non abbia cattivi intenti, perché commetteresti un'azione empia.”

Con tono umile, Bharata raccontò tutto l'accaduto nei minimi particolari.

“O grande saggio,” concluse il buon principe, “non pensare che il complotto sia stato ordito con la mia approvazione. Io ero ignaro di tutto e lontano da Ayodhya. E non credere neanche che io sia venuto fin qui per distruggere colui che potrebbe diventare un pericolo per il mio potere. É il contrario. Io sono venuto per riportare il mio adorato Rama ad Ayodhya e restituirgli ciò che gli spetta di diritto. Gli autori del misfatto sono questa donna infida, mia madre, e dalla sua degna serva Manthara.”

“Sono contento di sapere che non hai cattive intenzioni nei riguardi di Rama,” disse Bharadvaja. “Puoi essere sicuro che in caso contrario io ti avrei maledetto. Rama è a Citrakuta, lo troverai lì. Per quanto riguarda tua madre, non serbarle rancore. Io posso assicurarti che è stata solo lo strumento di un destino che alla fine porterà benefici a tutti.”

Dopo aver conversato ancora un poco, Bharata salutò rispettosamente il saggio e si diresse verso Citrakuta.

  

28
L'incontro con Rama a Citrakuta

L'esercito si trasferì immediatamente sulla riva destra del Gange e presto Citrakuta divenne visibile. Bharata fece fermare l'esercito e decise di procedere a piedi, accompagnato da pochi altri.

In quel momento Rama si era accorto di una grande nube di polvere all'orizzonte e si allarmò.

“Lakshmana,” chiamò. “Guarda quella gigantesca nube di polvere e ascolta questo tumulto del tutto simile a quello dei cavalli e degli elefanti. Questo è un esercito che si avvicina. Forse è un re nemico. Sali su un albero e scopri l'origine di questa agitazione.”

Prontamente Lakshmana si arrampicò su un albero e scrutò l'orizzonte. Si accorse che si trattava veramente di un esercito e riconobbe le insegne delle milizie di Bharata.

“Rama,” gridò agitato, “è proprio un pericolo che si sta avvicinando! É l'esercito di Bharata. Ecco il suo piano diabolico: prima ha mosso la madre contro di te e ti ha derubato del regno, e ora vuole ucciderti per goderselo in pace.”

C'era quasi gioia nella voce di Lakshmana, la gioia amara della vendetta imminente.

“Prepariamoci a combattere. Oggi il fratello traditore conoscerà il prezzo che deve pagare chi commette azioni malvagie. Oggi è l'ultimo giorno della sua vita.”

Rama si era tranquillizzato; era sereno, quasi sorridente.

“Non pensare così male di Bharata. Sono sicuro che lui non ha colpa di ciò che è accaduto. Certamente è stata tutta opera di Kaikeyi.”

Bharata trovò la capanna dove viveva il fratello. Lo vide seduto con l'arco tra le mani, vestito di semplici stoffe da eremita, emanante una luce di gloria. La sua gioia nel rivederlo non aveva limiti: coloro che assistettero a quella scena patetica versarono calde lacrime.

I fratelli si sedettero.

“Cosa succede ad Ayodhya?” chiese Rama. “Spero che tutti godano di buona salute e che siano felici sotto il governo di un re così giusto come mio padre.”

A quelle parole Bharata si senti sopraffatto dal dolore e non poté replicare subito. Rama lo guardò ansiosamente. L'espressione disperata del fratello parlava da sé.

“Nostro padre, il virtuoso re Dasaratha,” rispose poi, “è asceso ai pianeti superiori, incapace di sopportare il dolore di essere separato da te.”

Rama fu folgorato da quella notizia. Nascose il viso fra le mani e pianse amaramente. Per lunghi istanti nessuno parlò.

“Ora il regno di Ayodhya è senza un re,” continuò Bharata, “e tu sei l'erede di diritto. Il popolo ha bisogno di te e non aspetta altro che il tuo ritorno. So che hai promesso a nostro padre di restare per quattordici anni nella foresta, ma ora lui è morto. Torna ad Ayodhya e io prenderò il tuo posto qui, cosicché nostro padre non dovrà soffrire per non aver potuto mantenere l’impegno.”

Negli occhi di Rama un lampo di decisione.

“No,” rispose. “Io ho promesso a nostro padre di restare nella foresta per quattordici anni e così farò. Torna tu ad Ayodhya e governa al mio posto. Quando il periodo sarà trascorso io tornerò a riprendere il trono.”

A nulla valsero le insistenze: Rama non voleva tornare.

“Sapevo che avresti voluto mantenere il voto,” disse Bharata alla fine. “Allora se proprio non vuoi tornare, almeno calza questi sandali che ho portato. Saranno posti sul trono e io governerò in tuo nome, abitando in una capanna alla periferia della città.”

Rama acconsentì e poco dopo Bharata prese il cammino del ritorno. Ma il suo cuore era gonfio di tristezza.

 

29
Il cambiamento

Gli asceti della collina, allarmati dall'arrivo di numerosi Rakshasa, partirono tutti, lasciando Citrakuta desolata. Senza quei saggi il posto non era più attraente come prima e anche per questo Rama decise di spostarsi.

Prima di partire andarono a trovare il saggio Kanva, che abitava nelle vicinanze. Poi chiesero le benedizioni al santo Atri che era fra i pochi rimasti a Citrakuta con la moglie Anasuya. Sita si appartò con la santa donna e le raccontò la storia della sua vita e del suo incontro con Rama. Poi il virtuoso principe decise di entrare in quella parte della foresta dove, a detta degli eremiti, vivevano numerosi e crudeli Rakshasa. Incuranti del pericolo Rama, Lakshmana e Sita entrarono nella foresta.

 

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