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La costruzione del sabha

A questo punto è bene che vi racconti i particolari di un episodio accaduto durante il grande incendio della foresta di Khandava. Tale avvenimento si sarebbe rivelato fondamentale per il proseguo della storia.
Mentre Arjuna combatteva contro Indra, Krishna scorse un demone che, tra le fiamme, cercava scampo nella fuga. Gli aveva appena lanciato il disco Sudarshana per ucciderlo, quando il danava, vista avvicinarsi l'infallibile arma del Signore, corse in direzione di Arjuna chiedendogli disperatamente aiuto. Impietosito dalle preghiere, il Pandava si rivolse all'amico.
 "Costui ha chiesto la mia protezione, ed io non posso rifiutargliela. Fa che abbia salva la vita."
 Krishna acconsentì e ritirò l'arma.
 Quando tutto fu finito, il demone andò da Arjuna.
 "Tu mi hai salvato la vita, quindi vorrei fare qualcosa per te. Dimmi come posso sdebitarmi. Io sono Mayadanava, l'architetto degli asura, e potrei costruire per te le città più belle."
 "Non importa," rispose il Pandava, "non devi sdebitarti di nulla. Salvare la vita di coloro che chiedono protezione è il primo principio di ogni kshatriya retto. D'altra parte non vedo proprio cosa potresti fare per me."
 "E invece c'è qualcosa che potresti fare," intervenne allora Krishna. "I Pandava non hanno un sabha all'altezza della loro fama e tu sei tra i pochi in tutto l'universo capace di costruirlo. Se davvero vuoi dimostrare la tua riconoscenza costruisci un sabha così bello come mai se ne sono visti in tutti i mondi."
Mayadanava sorrise e assentì.
I lavori di costruzione cominciarono dopo qualche settimana. Aiutato da numerosi rakshasa dalla forza straordinaria, Mayadanava andò a Kailasha, da dove tornò con inimmaginabili ricchezze in oro, diamanti e altri metalli preziosissimi che in tempi passati erano già stati utilizzati per svolgere cerimonie enormemente costose. Di ritorno dall'Himalaya, il danava inoltre regalò a Bhima una possente e pesantissima mazza e ad Arjuna un carro di guerra dalle proprietà magiche. Aiutato dagli asura, il sabha fu terminato in tempi prodigiosi.
Nei giorni precedenti l'inaugurazione, i Pandava incaricarono molti corrieri di recapitare gli inviti a tutti i monarchi di Bharatavarsha; e poichè costoro montavano cavalcature velocissime in tempi molto brevi poterono assolvere il loro compito.
Dopo poche settimane re e principi di ogni parte del mondo cominciarono a convenire a Indraprastha in gran numero. Il luogo più visitato della stupenda città fu la reggia costruita da Mayadanava, dove tutto era splendore a sé stante, in quanto le preziosissime gemme impiegate in larga misura emanavano una luce così intensa da illuminarne gli interni. Chiunque, entrando, aveva l'impressione che un sole posasse continuamente i suoi raggi sulle pareti delle innumerevoli sale. Ammirati e stupiti, milioni di persone tessevano le lodi del fantastico sabha dei Pandava.
 Il festival fu un momento di gioia per tutti, e in special modo per i figli di Pandu fu senz'altro il momento più felice della loro vita.
In quel periodo molti principi giovani e valorosi vennero ad apprendere le arti marziali da Arjuna; tra i tanti, colui che dimostrò di essere il migliore in assoluto fu Satyaki, della razza dei Vrishni, un cugino di Krishna.

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La storia di Jarasandha
Durante uno dei giorni lieti in cui stava svolgendosi il festival di inaugurazione, arrivò a Indraprastha il saggio Narada che fu condotto a visitare il sabha. Anch'egli rimase entusiasta dell'opulenza e della bellezza che permeavano ogni angolo della struttura.
"Io ho visitato tutti i sabha dell'universo," disse, "e posso assicurarvi che questo è il più bello, ancor più di quelli di Brahma, di Kuvera, di Yama, di Surya e di Indra."
Narada descrisse quei cinque sabha e di nuovo elogiò vivamente quello dei Pandava, raccontando nel contempo storie di valore e rettitudine riguardanti i loro antenati.
 Poi disse:
 "Non sono venuto qui solo per ammirare la vostra gloria, ma anche per portarvi un messaggio che vi riguarda. Recentemente ho incontrato vostro padre Pandu nei pianeti celesti. Egli è felice di ciò che state facendo, ma vorrebbe da voi qualcos'altro: "Dì ai miei figli che io avrei piacere che loro compissero quel grande e celebre sacrificio chiamato rajasuya," mi ha incaricato di riferirvi, "che conferisce ad ogni kshatriya grandi meriti e fortune." Se lo farete Pandu otterrà grande prestigio nel pianeta dove vive."
 Da quel giorno Yudhistira e i suoi fratelli non riuscirono a pensare né a parlare d'altro. Esso per di più avrebbe concesso al fratello maggiore il titolo di imperatore. Era un desiderio espresso direttamente dal padre, per cui dovevano farlo; ma si domandavano se ne sarebbero stati all'altezza. Alla fine decisero di chiamare a consiglio le persone più rispettate tra i loro alleati, amici, parenti e tutti coloro a cui stava a cuore il loro benessere. Per quell'occasione anche Krishna venne da Dvaraka, accompagnato da Satyaki e da altri Vrishni.
 La discussione, in quel conclave di santi brahmana e virtuosi monarchi, si protrasse per diverso tempo. Infine fu deciso che Yudhisthira avrebbe potuto sicuramente aspirare a quella che era considerata un'ambita meta.
 Ma Krishna sollevò a Yudhisthira un'obiezione.
 "Per rendere realizzabile questo sacrificio," disse, "bisogna innanzitutto risolvere un serio problema. Tu conosci il re Jarasandha e sai quanto egli sia un vostro acerrimo nemico. Lui sarà uno di quelli che mai accetteranno il tuo rajasuya, per cui sicuramente muoverà le sue truppe e quelle dei suoi alleati contro di te. Devi ucciderlo. C'è da riconoscere che possiede una potenza fisica impareggiabile e in battaglia potrebbe sconfiggerti. É meglio affrontarlo da solo, senza l'aiuto dei suoi soldati; dopodichè potrai svolgere il tuo sacrificio."
 "Jarasandha è un combattente formidabile," ribattè Bhima, "e la sua forza è paragonabile a quella di molti elefanti uniti insieme; dunque è un avversario temibile. Però si deve tenere conto che egli è malvagio, e di conseguenza non è benedetto dalla virtù e dagli dei. Io lo sfiderò in duello e lo ucciderò. Non dubitate di me."
 Krishna riflettè per qualche minuto, poi parlò ancora:
 "Non c'è alcun dubbio che Bhima è in grado di uccidere il monarca di Magadha, ma la cosa deve essere affrontata senza sottovalutarla, o potrebbe diventare pericolosa. É importante per tutti voi che sappiate la sua storia:
 "Non molto tempo fa il re di Magadha era il valoroso Brihadratha, che aveva ricevuto la benedizione di possedere tutte le cose che in questo mondo sono desiderabili. La sua vita era felice, il suo regno prosperava e il popolo era contento. Nonostante ciò non era privo di problemi, anzi ve n'era uno che lo assillava particolarmente: le sue due mogli non gli avevano ancora dato dei figli.
"Nel regno viveva un saggio che si chiamava Chandra Kausika il quale, venuto a conoscenza della questione, andò a trovare il re con l'intenzione di offrirgli una soluzione. Gli disse:
 'Prendi questo frutto: se la tua consorte lo mangerà ti darà un figlio.'
 "Il re, che era di animo giusto ed era ugualmente affezionato a tutt'e due le mogli, non volle fare torto a nessuna e divise il frutto in due. Così ne porse loro un pezzo a testa.
 "I mesi passarono e le due regine diedero alla luce un aborto di bambino tagliato verticalmente alla metà, allo stesso modo in cui il re aveva diviso il frutto. Credendolo senza vita, Brihadratha lo fece gettare via.
 "In quel giorno una rakshasi di nome Jara, che viveva cibandosi di carne e sangue umano, passando nei paraggi dei giardini reali, trovò l'aborto e lo prese con sé, convinta di essersi procurata il pasto del giorno. Ma quando fu arrivata alla caverna dove viveva, avvicinò casualmente le due porzioni e queste, come per magia, si riunirono dando vita a un normale bambino, che immediatamente cominciò a piangere per la fame. Allora la strega, sperando che l'avrebbero lautamente ricompensata, riportò il figlio del re a corte. Poichè era stato riunito da Jara, il bambino fu chiamato Jarasandha.
"Fin da bambino," continuò Krishna, "è sempre stato un grande devoto di Shiva, e si è sottoposto a dure austerità e impareggiabili sacrifici, per cui Mahadeva come ricompensa gli ha conferito una forza sovrumana. Negli anni ha sviluppato un profondo astio verso di me e verso tutti i Vrishni, e mi ha già dichiarato guerra per ben diciassette volte. Naturalmente non è mai riuscito a sconfiggermi, e pure mi sono trovato costretto ad abbandonare Mathura e a fondare il mio regno a Dvaraka, dove è più facile difendersi. Ora Jarasandha ha sposato la sorella di Duryodhana ed è diventato un suo fedele amico e alleato, cosicché da quel giorno l'ostilità che nutre nei miei confronti si è estesa anche contro di voi.
 "Siatene certi, cari amici: finchè vivrà, Jarasandha non accetterà mai la nomina di Yudhisthira a imperatore senza combattere. Egli ci odia tutti, ed effettivamente un nemico temibile come lui, unito a Karna e Duryodhana, può essere veramente pericoloso. Uccidiamolo, dunque; dopodichè Yudhisthira potrà svolgere senza nessuna preoccupazione il migliore degli yajna chiamato rajasuya."
 La discussione si protrasse a lungo e alla fine Krishna, Arjuna e Bhima decisero di andare a Magadha travestiti da brahmana. Presentatisi al cospetto di Jarasandha, chiesero di parlargli.
 "Cosa volete da me?" disse il re. "Sappiate che qualsiasi cosa mi abbia chiesto un brahmana finora ho sempre fatto in modo di accontentarlo."
 "Noi non siamo brahmana, ma kshatriya, tuoi nemici. Io sono Krishna, e questi due sono Bhima e Arjuna. Poichè hai promesso di soddisfarci in qualsiasi richiesta, accetta una sfida; scegli uno di noi e combatti."
 Jarasandha rise forte.
 "Volete battervi contro di me? Ma certo, come volete. Con te, Krishna, non combatterò perché la tua nascita non è nobile a sufficienza e neanche con te, Arjuna, poichè sei giovane e sicuramente meno forte di me. Ma contro Bhima sì, contro di lui combatterò, perché so che è abbastanza forte."
Il duello fra i due durò per giorni e giorni e solo dopo grande fatica e ansietà Bhima riuscì a uccidere Jarasandha, riuscendo a dividere il suo corpo proprio nel punto in cui era stato riunito da Jara.
 Ora che uno dei nemici più temibili era stato eliminato, Yudhisthira era libero di celebrare senza timori il prestigioso rajasuyayajna.

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Campagna militare dei Pandava

I preparativi iniziarono.
 Prima di tutto bisognava trovare un brahmana sufficientemente qualificato per guidare il complicato rituale, e su questo tutti si trovarono immediatamente d'accordo: nessuno come il grande Vyasa avrebbe saputo farlo con la giusta maestria.
 Il secondo passo sarebbe stato quello di far accettare da tutti i re Yudhisthira come imperatore e riscuotere i tributi tradizionali. Questa impresa richiedeva un grande valore in combattimento, per cui, chiamati i fratelli, il primo figlio di Pandu disse:
 "Andate per tutte le terre del mondo, e chiedete i tributi e la sottomissione ai monarchi dei vari regni. E solo se qualcuno si rifiuterà dovrete fronteggiarlo e assoggettarlo con la forza. Ma non cercate di creare nemici, piuttosto stringete amicizie e alleanze."
 Yudhisthira affidò la conquista del nord ad Arjuna, dell'est a Bhima, dell'ovest a Nakula e del sud a Sahadeva.
 Scortato da un poderoso esercito di guerrieri veterani e privi di paura, Arjuna procedeva in direzione delle vette himalayane, e riduceva all'obbedienza i governanti delle terre visitate, usando a seconda dei casi diplomazia o forza militare.
 Arrivato a Prajyotisha volle conoscere il grande Bhagadatta, del quale si dicevano cose favolose circa la sua rettitudine e il suo valore in battaglia; il Pandava stesso potè constatare quanto quelle voci non fossero infondate: rifiutandosi di pagare i tributi senza prima essere stato sconfitto in duello, Bhagadatta impegnò Arjuna in uno strenuo combattimento. Uscitone vincitore, quest'ultimo conferì grandi omaggi all'anziano e nobile guerriero.
 Continuando la sua marcia, attraversò e conquistò molti altri regni, fermandosi anche a visitare stupendi luoghi santi e meravigliosi eremi nelle foreste più disertate dall'uomo. Tra gli altri assoggettò i fratelli Trigarta, da sempre grandi amici di Duryodhana e nemici giurati dei Pandava.
 Giunto alla montagna Meru, si deliziò alla vista delle bellezze delle alte quote himalayane.
 Infine tornò a Indraprastha, portando con sé incalcolabili ricchezze.
 Allo stesso tempo Bhima, al comando delle sue truppe, procedeva verso est, riportando non meno trionfi del fratello minore. Ovviamente senza essere stato costretto ad affrontarli in combattimento, ottenne l'assenso e i tributi del re dei Panchala, il suocero Drupada, e del re di Mithila.
 Arrivato a Chedi, Sishupala lo ricevette con tutti gli onori e accettò Yudhisthira come imperatore. Attraversati Koshala, Ayodhya e molti altri regni, riportò in battaglia solo grandi trionfi. Anch'egli ritornò portando con sé immense ricchezze.
 Nakula imperversò ad ovest, stringendo solide amicizia e riportando sonanti vittorie sui monarchi che non avrebbero voluto assoggettarsi al dominio dei Pandava.
 Sahadeva non fu da meno. Scontratosi con l'ostile Dantavakra, lo sconfisse e pretese enormi tributi, così come accadde con molti altri monarchi, fra i quali Nila, che tra l'altro era protetto dal deva Agni. Fra coloro che non lo osteggiarono ci furono il cugino Ghatotkacha e Vibhishana, l'anziano re di Lanka, con il quale fece amicizia. Circondato da un alone di gloria, il prode Sahadeva, ultimo tra i fratelli, ritornò a Indraprastha.
 Appena i Pandava furono rientrati alla capitale, grazie a tutte quelle ricchezze, i preparativi cominciarono a fervere. E come era accaduto per dell'inaugurazione del sabha, gli inviti per il sacrificio furono spediti con la massima sollecitudine. Nakula andò personalmente ad invitare Krishna, il quale partì pochi giorni dopo.
 Per la seconda volta in poco tempo Indraprastha fu un tripudio di persone, tutte ansiose di assistere al magnificente sacrificio. Usando grande attenzione a non causare contrasti, furono inoltrati inviti anche ai cugini. Lo stesso Duryodhana aiutò nello svolgimento del sacrificio, prendendosi cura della tesoreria; tale incombenza gli fece constatare personalmente le incalcolabili ricchezze che circolavano nelle casse degli odiati parenti. Un patrimonio che lui e i fratelli neanche si sarebbero mai sognati di possedere. Ma non fece commenti, e tenne tutto dentro.
 Il rajasuya fu un grande successo. Tutti i saggi presenti benedirono in continuazione il virtuoso Yudhisthira e i suoi fratelli, sostenendo che mai si era visto uno yajna tanto bello e opulento. Solo Narada taceva; il suo occhio profetico vedeva nel tempo i terrificanti eventi che sarebbero accaduti.

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Krishna e Sishupala 

Al momento culminante del rajasuya, Maharaja Yudhisthira fu incoronato imperatore e tutti lo applaudirono generosamente: nessuno provò astio o invidia. Il maggiore dei Pandava, conosciuto come il più virtuoso tra i re, era rispettato e amato da tutti, e nessuno, a parte ovviamente Duryodhana, si sentiva defraudato da lui.
 Subito dopo, secondo il cerimoniale, ebbe luogo l'arghya, durante il quale l'imperatore di norma elegge fra i presenti la persona più meritevole a sedersi sul seggio più alto per ricevere il puja. A quel punto il Pandava si sentì in imbarazzo: davanti a lui c'erano centinaia di rishi, brahmana, guerrieri senza macchia e senza peccato, e sarebbe stato difficile onorare uno senza offendere gli altri. Ognuno dei presenti avrebbe meritato l'arghya. Chi nominare, allora? Accorgendosi del suo imbarazzo, Bhishma suggerì:
 "Secondo la mia opinione non c'è nessuno qui presente che merita tanto rispetto e riconoscimento quanto Krishna. Ogni persona libera dalla collera e dall'invidia che sappia chi Egli è in realtà, sarà felice e onorata di porgergli omaggio."
 Yudhisthira fu lieto del consiglio e rivolgendosi a Sahadeva disse:
 "Il suggerimento di Bhishma è consono ai dettami delle scritture, per cui mi trova completamente d'accordo: nessuno come Krishna merita questo riconoscimento. Prendi ciò che è necessario e offri arghya al nostro amato amico."
 Gioiosamente il più giovane dei Pandava svolse la cerimonia, e al termine una pioggia di fiori proveniente dai pianeti celesti cadde su Krishna e Sahadeva.
 Durante la cerimonia nessuno aveva proferito parola, ma l'aria si era impregnata di un silenzio strano, pesante, tombale, che aumentò quando questa fu compiuta. Si avvertiva una forte tensione. Era chiaro che molti non avevano gradito la scelta di Yudhisthira. Poi, ad un certo punto, si levò un forte mormorio e molti re cominciarono a parlottare fra di loro e a farsi cenni d'intesa. Ma nessuno osava dire niente. Fu Sishupala, il re di Chedi, a rompere il silenzio.
 "Yudhisthira, noi siamo venuti qui di nostra spontanea volontà per tributarti omaggio, poichè abbiamo sempre riconosciuto in te grandi qualità di rettitudine e un forte senso di giustizia. Tuttavia dopo questa scelta dobbiamo ricrederci e pensare di averti sopravvalutato. Guardati intorno: qui presenti ci sono saggi meritevoli di rispetto assoluto e re anziani e ricchi di ogni qualità. Qui, davanti a loro, come hai potuto preferire Krishna? Come hai potuto ascoltare il consiglio di Bhishma, il quale evidentemente per via dell'età ha perso la ragione? Non ti sei accorto che hai commesso un insulto imperdonabile nei riguardi di tutte le più importanti personalità viventi? Come hai potuto farlo? Sicuramente Krishna non merita questo onore."
 "Caro Sishupala," rispose Yudhisthira, "chi ha una visione spirituale e non è vittima della gelosia e della lussuria, sa che Krishna non è un uomo comune, ma l'incarnazione sulla terra del Signore Supremo Narayana. Io sono pienamente consapevole del fatto che qui davanti a me ci sono gli uomini più meritevoli del mondo, ma Krishna non è un uomo, è molto di più: Egli è Dio incarnato, quindi merita l'adorazione di tutti noi, e non solo in questo frangente ma in ogni momento della nostra vita."
 Le parole di Yudhisthira infiammarono ancora di più gli animi. Sishupala cominciò a inveire con grande violenza contro Krishna e Bhishma, che dal canto loro osservavano con calma la scena senza intervenire.
 Ma i Pandava, nell'udire le offese rivolte al loro più caro amico e oggetto di devozione, cominciarono a fremere per la rabbia e, afferrate le rispettive armi, gridavano minacce in direzione di Sishupala. Il tumulto crebbe e alcuni re prendendo le parti di Krishna e altri schierandosi a difesa di Sishupala, iniziarono a gridare e a insultarsi, brandendo spade, archi e mazze.
 A quel punto Sahadeva si fece avanti con un'espressione di furia tale da lasciare sbigottito chiunque lo guardasse e gridando più forte degli altri fece in modo che tutti l'ascoltassero.
 "Coloro che non riescono a sopportare di vedere Keshava, l'uccisore di Keshi, che possiede incommensurabili energie, adorato da me, sappia che sarò ben felice di porre il mio piede sulle loro teste, dopo averli sconfitti in duello.
 "E voglio che si facciano subito avanti.
 "Al contrario, chi possiede una vera intelligenza spirituale dia la sua approvazione alla scelta di Yudhisthira. Io desidero che tutti sappiano che per noi Krishna é allo stesso tempo il nostro precettore, il nostro padre, il nostro guru, e che merita pienamente l'arghya e l'adorazione che gli ho appena conferito."
 Quando in segno di sfida Sahadeva mostrò a tutti il piede, non uno fra quei potenti monarchi ebbe il coraggio di rispondere. Allora una pioggia di fiori dai pianeti celesti cadde sulla sua testa e una voce incorporea disse: "Eccellente, eccellente."
 Senza tuttavia raccogliere la sfida di Sahadeva, Sishupala, ormai privo di ogni tranquillità d'animo, vittima della sua perfida invidia, continuò a offendere Krishna, che era ancora seduto sul seggio elevato.
 Nell'udire quegli insulti, il petto di Bhima si gonfiava per l'agitazione mentre la sua mano stringeva con terribile furia la mazza.
 "Non posso più tollerare di ascoltare queste infamità nei riguardi di Krishna," disse a Bhishma; "dammi il permesso di schiacciare la testa di quella serpe velenosa."
 Ma Bhishma, nonostante una buona dose di offese fossero dirette anche a lui, non si scompose nè disse nulla.
 "No, Bhima, non intervenire. Il tempo concesso alla vita di Sishupala sta volgendo al termine e non c'è alcuna necessità del tuo intervento. Non vedi che Krishna stesso, sebbene potrebbe ucciderlo con un solo gesto della mano, non dice niente, anzi rimane seduto senza fare il minimo movimento? Non ti chiedi il perché? Ascolta la sua storia, e riacquisterai tranquillità.
 "Dopo che Jaya e Vijaya, i guardiani di Vaikuntha, furono maledetti dai figli di Brahma a nascere tre volte come demoni in questo mondo materiale, in satyayuga si incarnarono come Hiranyakashipu e Hiranyaksha, in tretayuga come Ravana e Kumbhakarna e ora, al termine di dvaparayuga, come Sishupala e Dantavakra.
 "Appena nato aveva un aspetto mostruoso, con tre occhi e quattro braccia e i suoi genitori, terrorizzati alla vista di quel figlio deforme, avevano deciso di sopprimerlo, quando una voce misteriosa disse loro che appena il neonato fosse stato tenuto sulle ginocchia della persona che in futuro l'avrebbe ucciso, l'occhio e le braccia in eccedenza sarebbero scomparsi. Sua madre, che da un lato si era tranquillizzata per la speranza che al più presto suo figlio avrebbe preso un aspetto normale, d'altra parte si sentiva in ansia per il suo futuro, e si chiedeva a ogni poco chi mai potesse essere l'artefice della morte del figlio. A questo scopo prese a viaggiare ovunque, chiedendo a ogni re di Bharata varsha di prendere il neonato fra le braccia. Ma i suoi tentativi risultarono vani.
 "Così un giorno che Krishna e Balarama si erano recati in visita di cortesia a Chedi, la capitale del re Damaghosha, la regina chiese anche a Krishna di prendere Sishupala fra le braccia. Appena questi lo ebbe toccato, il bambino diventò normale. Così la regina era venuta a conoscere colui che in futuro avrebbe tolto la vita al figlio. Volle rivolgergli una preghiera:
 'Ti prego, Signore, è destino che Sishupala sia ucciso da te; perciò, ti prego, non prendere sul serio le offese che ti rivolgerà.'
 "Poichè la madre di Sishupala era sua zia, una delle sorelle di Vasudeva, Krishna rispose:
 'Perdonerò fino a cento delle sue offese.'
 "Fin dai primi anni della sua vita, il bambino provò istintivamente un forte odio verso qualsiasi cosa riguardasse Krishna, nè riuscì mai a sopportare di ascoltare la minima lode rivolta a lui. Ecco perché ha reagito in questo modo all'arghya offerta a Krishna.
 "Bhima, sappi che il Signore non può mancare alla promessa fatta, ma che il numero di cento insulti è già stato superato, cosicché presto libererà Sishupala dalla pena in cui lo hanno imprigionato la sua stessa rabbia e invidia."
 E mentre Bhishma raccontava la storia, il Chedi continuava a insultare il divino Krishna, fino a che, accecato dall'ira, perse il lume della ragione e, afferrata la spada, gli si scagliò contro.
 In quel momento il disco Sudarshana apparve nella mano di Krishna e subito dopo guizzò contro l'avversario. La testa di Sishupala saltò in aria e una scintilla luminosa come il sole sorse dal suo corpo ed entrò in quello di Krishna. Tutti videro lo straordinario avvenimento: nonostante tanto odio, Sishupala aveva ottenuto la liberazione.
 La morte di Sishupala placò gli animi, e anche se molti erano rimasti contrariati dalla piega che aveva preso la situazione, il sacrificio terminò senza ulteriori incidenti.

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Duryodhana umiliato

Dopo aver offerto sommi rispetti ai rishi, i re presero commiato e tornarono ai loro regni. E man mano che partivano i Pandava a loro volta onorarono tutti secondo i rispettivi meriti. Nei giorni che seguirono anche Krishna partì per Dvaraka.
 Yudhisthira invitò a rimanere a Indraprastha Duryodhana con Karna, Dusshasana e Shakuni, intendendo tributare loro dei speciali trattamenti al fine di raddolcire la loro invidia nei suoi confronti. I Kurava, affascinati dalla magnificenza del fantastico sabha che Mayadanava aveva costruito, accettarono di visitarlo con più calma.
 E giunse anche il giorno della partenza di Vyasa.
 "Yudhisthira," disse il saggio, "state attenti a come trattate Duryodhana. Non mancategli di rispetto in nessun modo. Dopo la morte di Sishupala sono apparsi presagi che preannunciano tanto sangue, e anche il mio guru Narada mi ha confermato che tempi terribili si stanno apprestando.
 "Le pagine del libro della storia del mondo si riempiranno di morte. Il destino ha preordinato la distruzione di tutti gli kshatriya della terra. La malvagità di Duryodhana e la forza di Bhima, il valore di Arjuna e la bellezza di Draupadi saranno la causa di una sterminata carneficina.
 "State in allarme, quindi, e fate in modo che se ciò accadrà, non debba essere a causa di una vostra negligenza ma per volere del Signore."
 Nei giorni che seguirono Duryodhana visitò accuratamente il sabha. Non aveva mai visto nulla del genere. Che splendore! Quali divine bellezze! Man mano che osservava quelle meraviglie mai viste in tutto il mondo diventava sempre più consapevole del fatto che dal niente i Pandava erano riusciti a costruirsi una fortuna ben più grande della sua, che pure era un'eredità di millenni. Ancora una volta l'insopportabile invidia di sempre divampò nel suo cuore.
 E destino volle che mentre se ne stava assorto in simili pensieri, questi non s'avvedesse che ciò che sembrava un pavimento di marmo era in realtà un laghetto interno, e vi cadesse dentro, bagnandosi completamente. A nulla servirono le premure di Yudhisthira, che immediatamente mandò degli attendenti ad asciugare il cugino schiumante di rabbia. Ma le pessime figure di Duryodhana non erano ancora finite: mentre infatti continuava la visita, credendo che nel mezzo di un giardino vi fosse un laghetto, si tirò su il vestito per attraversarlo, ma poi s'accorse che si trattava solo di un gioco di riflessi creato dalle gemme. E non accorgendosi di una porta di cristalli così trasparente da essere difficilmente individuata, vi sbattè contro. E cercò di aprire una porta che in realtà era solo un effetto di luci.
 Invano Yudhisthira aveva proibito a Bhima e Draupadi di commettere qualsiasi mancanza di rispetto nei confronti del cugino perché essendo stati testimoni di queste sue disavventure essi avevano riso di lui davanti a tutti. L'umiliazione di Duryodhana era stata cocente; così si era ritirato nella sua abitazione senza voler più vedere altro.
 Durante la notte Duryodhana non era riuscito a dormire, torturato dal pensiero della grande fortuna dei cugini. Oramai pensava a una sola cosa: a come distruggerli, a come fare per vederli in disgrazia, e sofferenti nella maniera più intensa possibile. Oramai l'odio era diventato così forte da non poter più essere controllato.
 Il giorno seguente tornò ad Hastinapura.
 
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Il piano diabolico 
Nei mesi che seguirono il rajasuya di Yudhisthira, Duryodhana cadde in uno stato depressivo tale da preoccupare tutti i suoi amici e familiari. Shakuni ne aveva capito subito le ragioni e, non tollerando di vedere il nipote in quello stato, aveva deciso ancora una volta di intervenire in suo favore.
 "Oramai conosco bene le ragioni che non ti fanno essere di buon umore, e io che sono tuo zio ti voglio vedere felice. Vuoi sbarazzarti dei tuoi nemici una volta per tutte? Allora ascoltami bene. Tu sai che posseggo dei dadi dalle virtù magiche e che ho imparato alla perfezione la scienza di lanciarli in modo da vincere sempre. Tu sai anche che a Yudhisthira questo gioco piace molto, sebbene non sia particolarmente abile. Sfidiamolo a una partita, dunque, che presenteremo come un gioco innocente mentre invece porteremo via ai Pandava tutto ciò che posseggono. Resi schiavi i cinque fratelli, avrai avuto finalmente la tua rivincita. Naturalmente Yudhisthira potrebbe anche rifiutarsi di giocare contro di me, anche se non credo che lo farà; uno dei suoi voti è quello di non ritirarsi mai di fronte a una sfida, di qualsiasi tipo essa sia. Io credo che questa possa essere la soluzione ai tuoi problemi."
 "Convinci tuo padre," continuò il vile Shakuni, "a costruire un sabha e poi insisti nell'invitare i tuoi cugini all'inaugurazione e a un gioco di dadi. Se ci riuscirai, i tuoi avversari saranno rovinati e tutta la loro fortuna diventerà tua."
 Duryodhana fu immediatamente entusiasta all'idea e il giorno stesso convinse il padre a far cominciare i lavori per la costruzione di un sabha a Jayanta.

Appena Vidura, Bhishma, Drona e gli altri anziani furono a conoscenza della sua intenzione di sfidare Yudhisthira a un gioco di dadi capirono immediatamente le sue vere mire, proiettando nel futuro i disastri che ne sarebbero potuti scaturire. Nessuno si risparmiò ogni tentativo di convincere Dritarashtra a far cessare i lavori del sabha o almeno a non permettere la sfida dei dadi, ma non ci fu nulla da fare.
 "Si tratta solo di una innocente partita ai dadi," dichiarava candidamente Duryodhana, "non capisco proprio le ragioni di tanto allarmismo per un semplice gioco di società."
 Così i lavori continuarono, e quando il grande palazzo fu ultimato, il re cieco chiese a Vidura di andare a Indraprastha per invitare i Pandava.
 "E riferisci," fu il messaggio di Dritarashtra, "che per festeggiare il nuovo sabha mio figlio Duryodhana desidera giocare a dadi contro di loro."
 Vidura sapeva bene che l'innocente gioco nascondeva in realtà un tranello e aveva il timore che quell'ennesimo tentativo di Duryodhana di rovinare i Pandava, quella volta avrebbe causato una catastrofe. Così disse:
 "Caro fratello, il gioco d'azzardo è sempre stato fonte di discordie e spesso di odi. Fra tuo figlio e i cugini non è mai corso buon sangue, per cui credo sia saggio evitare ogni situazione che possa provocare ulteriori fratture. Questa partita a dadi è una pessima idea: io ti consiglio di non permettere che venga fatta."
 "Ma è solo un gioco fra amici," ribattè Dritarashtra, "e non credo che possa causare alcunchè di grave. Non temere, Vidura."
 Egli continuò ad avvalersi di mille altre ragioni, ma inutilmente. Il re cieco era fin troppo cosciente delle intenzioni del figlio, ma il desiderio di vederlo finalmente appagato era più forte di tutto, persino di sentimenti di giustizia e onestà.
 Con una profonda tristezza nel cuore, Vidura partì alla volta della capitale dei Pandava.

42
L'invito
Appena i messaggeri che precedevano Vidura arrivarono a Indraprastha, Yudhisthira e i suoi fratelli uscirono dalla reggia per riceverlo con tutti gli onori e dimostrargli l'affetto che sentivano per lui. In quell'occasione i Pandava ricordarono di come egli li avesse salvati da tanti pericoli e di come fosse sempre stato il loro benefattore.
 Quando Yudhisthira gli chiese le ragioni della sua visita, Vidura, vergognandosi profondamente, ripeté il messaggio che Dritarashtra gli aveva consegnato: non fu difficile per nessuno capire che dietro la sua apparente innocenza si celava un grave pericolo. Come abbiamo già avuto modo di dire, a Yudhistira piaceva giocare a dadi, lo sapevano tutti, e sapevano anche che non era molto abile in quel gioco.
 "Se è vero che io non sono un campione, neanche il mio malvagio cugino lo è; sono sicuro che non giocherà lui in persona, ma delegherà qualcun altro ad affrontarmi in sua vece," disse Yudhistira. "Contro chi pensi che dovrò giocare?"
 "Ci sono tanti bravi giocatori nella nostra corte," rispose Vidura, "ma qualcosa mi dice che di fronte a te troverai Shakuni. É il migliore di tutti e ti odia quanto Duryodhana stesso."
 Ci fu un momento di silenzio. Se Yudhisthira avesse affrontato il Gandhara, per lui non ci sarebbe stato nulla da fare: avrebbe perso tutto. Il piano del cugino era chiaro, ora.
 "Il consiglio che posso darti," continuò Vidura, "é di trovare qualche scusa per non accettare l'invito. Il gioco d'azzardo deve essere evitato ad ogni costo da tutte le persone sane, che conoscono i principi della spiritualità: provoca sempre discordia tra i giocatori, cagionando ansietà senza fine e conflitti. E quando l'uomo perde il senno e la tranquillità e causa inimicizie, ogni sorta di catastrofe è possibile. Yudhisthira, non accettare l'invito. Questo piano è stato partorito dalla mente diabolica di Shakuni ed è stato subito accolto con grande gioia dal vile Duryodhana, il quale nel libro della sua vita ha scritto che avrebbe causato morti e distruzioni: quindi non ne può uscire niente di buono. So che giocare ti piace, ma non devi soccombere all'intossicazione del gioco e non devi accettare quest'invito."
 Yudhistira rifletté a lungo. Poi rispose.
 "Vorrei tanto poter seguire i tuoi buoni ammonimenti che, come sempre, contengono tanta saggezza ma, come sai, uno kshatriya non può rifiutare una sfida sia a un duello di armi che a un gioco di dadi: per di più questo è un mio personale voto; inoltre bisogna anche riflettere sul fatto che se devo governare un regno così vasto non posso mostrare codardia, altrimenti ne risentirebbe la stima e la fiducia che la gente nutre nei miei confronti. Dunque devo andare. Se perderò tutto, sarà stato destino, e contro di esso che possiamo fare? L'unica cosa che posso promettere è che cercherò con tutte le mie forze di non farmi prendere troppo la mano, e di non puntare forte."
 Il giorno dopo, accompagnati dalla moglie Draupadi, i Pandava partirono per Hastinapur.
 
43
Il gioco dei dadi
Inondato da un folla immensa accorsa per l'inaugurazione, il sabha dei Kurava era veramente stupendo.
 Tra gli invitati vi furono ad accogliere con calore i Pandava i re che avevano partecipato al rajasuya. Anche i Kurava li accolsero bene, nascondendo i loro veri propositi. Accompagnati nei loro appartamenti, i fratelli trascorsero una notte serena.
La mattina seguente Duryodhana andò personalmente a invitarli.
 "Venite ad ammirare il mio nuovo sabha, che ho fatto costruire a Jayanta per l'occasione. Vi piacerà sicuramente."
 Un pò tesi e innervositi dall'evidente falsità malcelata dalla cortesia del cugino, i Pandava visitarono la reggia, elogiandola con frasi gentili e piene di ammirazione.
 Dopo che ebbero terminato la visita, Shakuni disse:
 "Ora che abbiamo visto il mirabile sabha dei Kurava, per festeggiare direi di cominciare il gioco dei dadi."
 "Io credo che il gioco dei dadi sia come il vino e che porti via all'uomo ogni capacità di buon giudizio," disse Yudhisthira, tentando di evitare ciò che irreparabilmente avrebbe portato al disastro. "L'azzardo è veleno per ogni uomo virtuoso e perciò preferirei evitarlo."
 "Yudhistira," ribattè con tono ironico Shakuni, "ho sentito dire che la tua ricchezza é così grande che mai nessun monarca ne ha avute di simili, e capisco che il denaro per te, abituato alla vita di foresta, sia una cosa così nuova da farti diventare avido; ma ti prego, cerca di controllare l'avarizia. Giocando con noi non sei forzato a puntare tutto; noi vogliamo farlo per divertirci, e non per portare via i tuoi averi."
 Con queste parole Shakuni lo aveva beffeggiato davanti a tutti; ma Yudhisthira cercò di mantenere la calma e di non raccogliere la provocazione.
 "Il gioco uccide l'amicizia e attrae le disgrazie più nere," rispose. "É per questo che non voglio; non certo per paura di perdere i miei beni."
 Shakuni incalzò e lo ridicoleggiò pubblicamente.
 A quel punto il Pandava non potè più tirarsi indietro.
 "Visto che mi hai sfidato non mi rifiuterò. Che il gioco abbia inizio."
 E Duryodhana disse:
 "Non giocherò io personalmente, ma incarico mio zio Shakuni di rappresentarmi."
 Yudhisthira protestò perché avrebbe dovuto giocare lui e non altri, ma alla fine dovette sottostare a tale decisione.
 E il gioco cominciò.
 Si mise subito male: Yudhisthira iniziò col puntare grandi tesori, ma Shakuni rispondeva con lanci infallibili: e più la posta in palio saliva, più si facevano forti i mormorii che accompagnavano le vittorie del Gandhara. E ancora il figlio di Yamaraja puntò e Shakuni, implacabile, vinse ancora.
 Si giocò per svariato tempo. Oramai tutti avevano compreso il piano diabolico di Duryodhana, e così poco alla volta le grida erano andate scemandosi fino a interrompersi del tutto. Il silenzio era totale. Nella sala si udiva solo una voce, quella di Shakuni che diceva con entusiasmo: "Ho vinto".
 Man mano che il gioco procedeva, i re presenti sentivano gelarsi il sangue nelle vene. Tutti erano consapevoli che quel gioco avrebbe causato una reazione a catena di odi e sangue.
 Il gioco continuava e Yudhisthira sembrava essere pervaso da una follia suicida: più perdeva più aumentava la posta in palio. Sembrava che ormai l'intossicazione del gioco d'azzardo lo avesse sopraffatto. Nel gelo della sala le parole che Shakuni continuava a gridare, "ho vinto", suonavano come frustate, o ancora meglio condanne a morte per migliaia di kshatriya e lacrime per tutti gli altri. Quando Yudhisthira ebbe ormai perso tutte le sue ricchezze, Vidura intervenne.
 "Questo gioco deve essere interrotto qui," gridò, "e deve essere tutto restituito, o neanche immaginate cosa potrà accadere."
 Ma Dritarashtra, oramai preso dall'eccitazione febbrile della vittoria, continuava a chiedere, "cosa ha vinto mio figlio? quali tesori ha vinto?" e non degnò neanche di una risposta il fratello minore. Gli rispose invece Duryodhana.
 "Caro zio," disse in tono ironico, "sebbene anche noi siamo tuoi nipoti, non sei mai stato imparziale negli affetti e hai sempre preferito i figli di Pandu a noi, figli di Dritarashtra. Tutti lo sanno, ma ora mi sembra che tu stia esagerando. Noi non stiamo facendo nulla di male, stiamo solo giocando, e Yudhisthira ha accettato liberamente di partecipare. Sta perdendo, d'accordo, ma avremmo potuto perdere noi e allora io sono sicuro che in tale frangente non avresti detto che tutto doveva essere restituito. Queste sono le regole del gioco, e certamente non daremo indietro ciò che abbiamo vinto. E per quanto riguarda la continuazione, noi lo sfidiamo ancora, però se Yudhisthira ha paura può ritirarsi quando vuole."
 Ma questi disse:
 "No, continuo a giocare."
 A quel punto, avendo già perso tutto, la sua puntata fu Nakula. Ma perse ancora.
 Poi giocò Sahadeva, poi Arjuna e Bhima, e poi sé stesso, e il risultato fu sempre uguale. Allora, in un silenzio glaciale, il lancio dei dadi si fermò: avevano perso tutto, i Pandava erano diventati proprietà di Duryodhana.
 "Yudhisthira," disse Shakuni con voce squillante, "sembra che non ti sia rimasto proprio niente; ma se vuoi andare avanti hai ancora qualcosa di tuo: Draupadi. Gioca anche lei, e se questa volta vincerai riavrai tutto ciò che hai perso finora."
 A quella proposta forti mormorii di disapprovazioni salirono dalla folla. Bhima ebbe un impeto di furia e strinse la mano possente sul manico della mazza, pronto ad uccidere Shakuni con un colpo solo. Tuttavia in quella circostanza non poteva reagire senza il permesso del fratello, così si controllò.
 La sorprendente risposta di Yudhisthira raggelò tutti molto più della proposta.
 "E sia. Draupadi è ora la mia puntata," disse.
 E per l'ennesima volta i dadi furono lanciati, e ancora si udì la voce di Shakuni che diceva: "ho vinto!"
 A quel punto si levarono parole frementi di rabbia e il tutto in pochi secondi sfociò in forti tumulti. Draupadi ora era una schiava: i Pandava avevano perso proprio tutto.
 Cosa sarebbe successo ancora?
 
44
Gli insulti a Draupadi 
Appena il clamore si fu placato, tutti guardarono i Pandava, e Duryodhana, e Dritarashtra, in attesa di nuovi eventi. Una gelida sensazione di morte circolava fra i presenti e le espressioni di Arjuna, di Bhima e dei gemelli non promettevano nulla di buono: Bhima soffiava come un toro infuriato, il figlio di Indra brandiva l'arco e la faretra in chiaro atteggiamento di minaccia, mentre Nakula e Sahadeva avevano le mani sull'impugnatura delle spade, pronte a scattare.
 Consapevoli della piega terribile che gli avvenimenti avevano preso, Bhishma, Kripa, Vidura, Drona e tutti gli altri re e saggi si sentirono costernati, preoccupati per ciò che sarebbe potuto accadere. La storia era a una svolta allarmante. Solo Dritarashtra e suo figlio erano visibilmente felici: il Kurava infatti si alzò dal seggio e abbracciò con trasporto lo zio.

Sempre più infuriati, i Pandava aspettavano solo un cenno del fratello maggiore per scatenarsi in battaglia; dentro di loro non desideravano altro che il massacro di quei malvagi. I dadi erano truccati e loro sapevano bene di essere stati ingannati; ma Yudhisthira non diceva niente, guardava sconsolato il pavimento e si muoveva appena.
 Ad un tratto si udì la voce di Duryodhana, per nulla impressionato dall'aspetto minaccioso dei cugini.
 "Mio caro zio," disse rivolgendosi a Shakuni, "ti ringrazio a nome della mia famiglia per le ricchezze che sei riuscito a guadagnare e non dobbiamo preoccuparci se i nostri cugini ci minacciano con gesti e frasi pronunciate a denti stretti. Noi abbiamo conquistato con piena legittimità i loro tesori, ed è ora che anch'essi imparino a perdere. Ma non pensiamo più a loro: godiamoci questo momento di gioia. Piuttosto chiamate Draupadi e fatela venire qui, in modo che possiamo dirle che non è più una regina ma la moglie di cinque schiavi. Affidiamola oggi stesso alle nostre istruttrici, cosicché possa imparare presto i suoi doveri di servitrice."
 "Duryodhana," gridò Vidura, "Draupadi non è la tua schiava. Quando Yudhisthira ha giocato per l'ultima volta, aveva già perso sé stesso e non poteva più disporre di nulla. Inoltre devi considerare che è anche la moglie dei suoi fratelli, ai quali Yudhisthira non aveva chiesto il permesso di metterla sul tavolo delle puntate. Dunque Draupadi non è stata vinta.
 "Inoltre, Duryodhana, ti avverto: non provocare ulteriormente i Pandava, la loro pazienza può finire. Guardali, una sola parola in più e distruggeranno in pochi istanti te, i tuoi parenti e i tuoi amici. Non insultare Draupadi chiamandola schiava. Un atto simile potrebbe significare la tua fine."
 A quelle parole Duryodhana ghignò e non degnandolo di una risposta si rivolse a Pratikami.
 "Amico mio, va da Draupadi nei suoi appartamenti e dille di venire immediatamente. Il suo nuovo padrone, Duryodhana, il figlio di Dritarashtra, le ordina di presentarsi al suo cospetto."
 Osservando le espressioni dei Pandava, questi esitava, dubbioso sul da farsi.
 "Hai paura dei figli di Pandu?" gli disse allora il Kurava con tono di derisione. "Non averne. Sono nostri schiavi. Sono come dei serpenti il cui veleno è stato asportato. Non possono fare più male a nessuno, oramai."
 A quelle parole Pratikami raggiunse velocemente le stanze della regina e le raccontò l'accaduto.
 Questa, stupefatta, disse:
 "Torna da mio marito e chiedegli se ha perso prima sé stesso o me."
 Pratikami tornò alla sala e si rivolse a Yudhisthira, che se ne stava a capo chino, senza più guardare in viso i suoi oppressori.
 "O re, la tua consorte vuole sapere se hai perso prima lei o prima te stesso."
 Ma poichè questi non rispondeva, Duryodhana si alzò e con voce tonante ordinò:
 "Amico, Yudhisthira non se la sente di dare spiegazioni. Torna subito da lei e dille che suo marito si rifiuta di risponderle. Dille di venire di persona a porre la questione."
 Quando Pratikami uscì di nuovo dalla sala, l'atmosfera di tensione era cresciuta a dismisura: negli occhi di Bhima, Arjuna, Nakula e Sahadeva si poteva leggere la rabbia frustrata di chi vorrebbe distruggere un pianeta intero. Però Yudhisthira, che era pur sempre il fratello maggiore, non si muoveva ancora nè diceva niente.
 Intanto Draupadi, a quel nuovo messaggio, disse:
 "Non posso presentarmi davanti agli altri. Oggi è cominciato il mio ciclo mestruale e di conseguenza indosso un solo lembo di stoffa per coprire il mio corpo. Presentarmi così davanti ai brahmana e agli anziani non è rispettabile. Torna ancora da mio marito e chiedigli cosa devo fare."
 Pratikami, palesemente nervoso, si recò un'altra volta nella sala dov'erano riuniti gli uomini e ripetè le parole della regina. A quel punto Yudhisthira alzò il capo:
 "Dille così: le vie del dharma sono spesso estremamente diramate e di difficile comprensione. Io non so se ho agito bene in questo frangente, ma ho sempre cercato di comportarmi secondo i dettami delle leggi divine che ci sono state tramandate. Posso aver fatto bene, o forse ho sbagliato tutto; non lo so. Ma qui ci sono tanti saggi e monarchi dalla vasta conoscenza, che hanno sicuramente compreso queste leggi meglio di me. Vieni tu stessa qui, e domanda a loro cosa sia giusto fare."
 A quelle parole gli altri Pandava divennero ancora più furibondi e cominciarono a muoversi febbrilmente sui loro seggi brandendo le armi in aria con forsennata energia. A quel punto Pratikami, spaventatissimo, si rifiutò di tornare ancora da Draupadi.
 Così Duryodhana, ridendo forte, si rivolse al fratello.
 "Dusshasana, fratello mio, il nostro Pratikami ha paura. Vai tu dalla nostra schiava e conducila qui da noi. Mostra come nessuno deve temere nulla dai nostri nemici."
 Intossicato dall'atmosfera ebbra del gioco d'azzardo, sghignazzando, il Kurava irruppe con foga nella stanza della regina e le gridò:
 "Sei stata vinta da Duryodhana, e ora sei al suo servizio. Non tardare ancora ad obbedirgli. Egli vuole che tu lavori alla sua corte, ma se ciò non ti aggrada puoi evitarlo accettandolo come marito. In tal modo potrai continuare a vivere da regina."
 A quelle parole ingiuriose Draupadi si alzò di scatto e lo guardò con occhi collerici, poi, rendendosi conto dell'evidente intenzione di Dusshasana di afferrarla, cercò di fuggire nelle stanze di Gandhari per trovare protezione. Ma prima che potesse arrivarci Dusshasana la raggiunse, la gettò in terra e, afferratala per i capelli, la trascinò con sé.
 La figlia di Drupada, nata direttamente dal fuoco del sacrificio, con i capelli santificati durante il rajasuya, era trascinata al pavimento come una vile serva: un insulto così grave a una regina non era mai stato perpetrato. Succube della rabbia e dell'intossicazione della vincita al gioco, Dusshasana non riflettava, neanche sospettava che in realtà in quel momento non aveva afferrato i capelli di una donna, ma un serpente di fuoco che lo avrebbe distrutto.
 Così l'infame si presentò nella sala, trascinando la piangente Draupadi per i capelli. A quella scena empia tutti costernati si alzarono in piedi, gridando improperi e condanne al secondogenito di Dritarashtra.
 Draupadi tremava per la paura e piangeva. I Pandava fremevano come se fossero stati scossi da una tremenda corrente.
 
45
Insulto dopo insulto
"Mi rivolgo agli anziani della rispettabile corte Kurava," disse lei fra i singhiozzi, "e a tutti gli uomini retti che sono presenti qui. Non avete forse visto cosa mi ha fatto questo vile mascalzone? E se avete visto, come potete tacere e non intervenire in mia difesa? O forse la rettitudine non conta più nulla per voi? Questo gioco di dadi è stato un tranello, un inganno progettato dalla vergogna della razza Kurava: Duryodhana. Costui per tutta la sua vita non ha fatto altro che odiare i miei mariti, i quali in questo momento non possono intervenire come vorrebbero per difendermi. Ma guardate in viso il possente Bhima: credete che qualcuno possa mantenersi in vita davanti a lui sul campo di battaglia? E Arjuna, guardatelo: chi di voi sa usare le armi come lui? E Nakula? E Sahadeva? Non conoscete i nostri alleati, che sono gli invincibili Vrishni, e i Panchala con mio padre e mio fratello alla loro testa? Non sfidate ancora la buona sorte. Fate giustizia, e liberatemi da questa tremenda ansietà."
 Ma Bhishma e Drona e Vidura e tutti gli uomini giusti non poterono dire niente. Sembrava che nessuno fosse in grado di aiutarla.
 A quel punto si udì un ruggito terribile che scosse i cuori di tutti gli uomini: era Bhima, incapace di contenere la sua rabbia.
 "Fratello, e anche tutti voi presenti, osservate queste mie braccia e questa mia mazza; quanto pensate che impiegherei per impartire la giusta punizione al vile Duryodhana? E se qualcuno si opponesse, quanto pensate che ci metterei per sterminare i suoi amici e parenti, Dusshasana e i suoi fratelli, e il baro Shakuni, e Karna che tanto si vanta della sua bravura militare? Se tu, fratello, dicessi solo una parola, io massacrerei immediatamente tutti coloro che si sono prestati a questo vile inganno e all'oltraggio di nostra moglie; ma tu taci, non proferisci parola, neanche quando vedi Draupadi trascinata sul pavimento al pari di una villana, come se avesse dei mariti incapaci di proteggerla. Come puoi tollerare tutto ciò? Sei stato tu, a causa del tuo attaccamento al gioco a metterci in questa situazione e se non puoi risolverla, almeno permetti che lo faccia io. Tu sai che con Arjuna e i due gemelli posso sconfiggere gli stessi dei. Non cedere a quella letargia che sembra averti colto."
 "Fratello, ascolta," intervenne allora Arjuna. "Non devi parlare in questo modo. Nella gloriosa storia del nostro casato ci sono molti esempi di re santi che hanno preferito abbandonare anche per sempre le ricchezze e gli onori pur di non cedere sui principi fondamentali che regolano le nostre vite. Uno di questi è il rispetto incondizionato verso i superiori: i nostri padri, i nostri maestri e anche il nostro fratello maggiore. In questo momento a noi può sembrare che Yudhisthira abbia sbagliato a giocare, ma poichè ignoriamo cosa il destino abbia in serbo per noi, non possiamo sapere se ciò che ci è successo si rivelerà un bene o un male.
 "E non dimenticare che noi siamo servitori di Dio, nessuno è completamente indipendente nel costruire il proprio destino. Dunque dobbiamo accettare sempre ciò che ci accade con serenità.
 "Ma è anche vero," continuò Arjuna, "che questi empi dal cuore più duro di una pietra hanno peccato gravemente, e che uno dei doveri dello kshatriya è quello di punire severamente coloro che disobbediscono alle leggi divine. Devi solo attendere, fratello mio, e sii sicuro che presto Duryodhana e i suoi accoliti raccoglieranno ciò che hanno seminato. Non rispondiamo all'empietà con altri peccati. Attendiamo che giunga il momento opportuno per ristabilire la giustizia, e allora avremo ottenuto anche la nostra vendetta."
 Terminato che fu il discorso del savio figlio di Indra, il pubblico si levò, pronunziando accorate parole di condanna contro Duryodhana. Persino uno dei suoi fratelli, il giusto Vikarna, cercò di difendere Draupadi, affermando che essendo lei la moglie di tutti e cinque i Pandava, Yudhisthira non avrebbe potuto giocarla senza il consenso degli altri. Nel tumulto si distinse ad un tratto la voce di Karna che gridava contro Vikarna e lanciava tremende offese nei confronti di Draupadi.
 Intanto tutti parlavano o disputavano fra di loro, cercando di stabilire cosa fosse giusto e sbagliato. A un certo punto, al culmine della follia, Dusshasana afferrò il sari di Draupadi e cominciò a tirarlo, tentando di spogliarla davanti a tutti. A quella vista i rishi presenti si coprirono gli occhi, gli anziani inorridirono, gridandogli di non farlo. Ma il vile non si fermò. Mai in un discendente di stirpe aryana s'era vista tanta malvagità.
 Draupadi piangeva disperatamente e si teneva la veste con tutt'e due le mani. Guardava uno dopo l'altro i mariti cercando aiuto, pur sapendo che non potevano fare niente per lei.
 In quel momento pensò che il solo che potesse aiutarla era l'incarnazione del Signore Supremo, Shri Krishna; quando la povera anima spirituale in questo mondo soffre ed è in pericolo, e finalmente comprende che nulla e nessuno può proteggerla, si rivolge alla Suprema Personalità di Dio, che può metterla al riparo da ogni minaccia. E la devota Draupadi, mentre Dusshasana tirava vigorosamente la sua veste, rinunciò a proteggersi con le proprie forze.
 Così, abbandonata la presa, a voce alta pregò:
 " O Govinda, Tu che risiedi a Dvaraka, o Krishna, Tu che prediligi i pascoli di Vrindavana, o Keshava, non vedi come i Kurava mi stanno umiliando? O Signore, o Marito di Lakshmi, o Signore di Vraja, Tu distruggi tutte le afflizioni, o Janardana, sto annegando nell'oceano dei Kurava. O Krishna, o Krishna, Tu sei il più grande fra gli yogi. Tu sei l'anima dell'universo. O Creatore di tutte le cose, o Govinda, salvami, io sto soffrendo, sto perdendo i sensi nel mezzo dei Kurava."
Afflitta e piangente, Draupadi pregò il Signore con profondo amore spirituale e Krishna, avendo udito quell'invocazione, intervenne a favore della sua devota. E più Dusshasana tirava più il sari, come per miracolo, si allungava. In un attimo decine e decine di metri di stoffa scaturiti dal corpo della regina ricoprirono il pavimento, e tutti gridarono al miracolo, proferendo lodi al Signore.
 Visti inutili i suoi sforzi, il Kurava si sedette, stremato dalla fatica.
 A quel punto Bhima gridò con furia:
 "Ascoltatemi tutti: se non ucciderò quel malvagio peccatore di Dusshasana, che io non possa mai vedere i pianeti celesti, meritati grazie alla pratica delle leggi kshatriya. Io giuro che strapperò il cuore dal suo petto e che berrò il suo sangue."
 Dusshasana, che aveva oramai la ragione completamente ottenebrata, lo derise. E ancora proruppe un coro di voci discordanti.
 "Portate Draupadi nelle stanze delle regine perché possa conoscere i suoi futuri doveri di serva," gridò Karna.
 Si udì ancora la voce di Vidura che cercava invano di difenderla, ma quella di Duryodhana la sovrastò.
 "Ora che i tuoi mariti sono degli schiavi, scegli uno di noi e vivi ancora da regina."
 "Se non fosse stato per il rispetto che porto a mio fratello," urlò Bhima, "tu non saresti più vivo da tanto tempo. Se non avessi le mani legate dalle leggi del dharma, pensi forse che tu e il tuo maledetto fratello Dusshasana sareste ancora vivi?"
 Bhima, con la possente mazza in mano che Mayadanava gli aveva regalato, aveva il petto che gli si gonfiava e sgonfiava a dismisura, e incuteva terrore solo a guardarlo. Tuttavia Duryodhana, per nulla intimorito dalla minacce di quest'ultimo, in tono scherzoso chiese a Yudhistira:
 "Tu hai giocato e perso. Dicci, dunque: è corretto che noi consideriamo Draupadi di nostra proprietà?"
 Il figlio di Dharma non rispose. Allora il Kurava mostrò la coscia a Draupadi e le rise in faccia. A quell'ennesimo insulto, Bhima alzò la mazza verso di lui e con voce solenne gridò:
 "Che io non possa mai vedere i pianeti celesti se non romperò con questa mazza quella coscia che hai mostrato a Draupadi. Se non riuscirò a farlo che io sia condannato a dimorare per l'eternità nel più basso degli inferi."
 "Io vi dico che ucciderò Duryodhana," gridò poi, "e quando costui giacerà nella polvere alla mia mercè, spingerò con disprezzo il piede sulla sua testa. Inoltre siate certi che Arjuna ucciderà Karna e mio fratello Sahadeva eliminerà lo sleale Shakuni."
 A quel punto, avendo perduto ogni calma, gli altri Pandava si alzarono e proferirono i loro voti. Arjuna affermò che avrebbe ucciso Karna, Sahadeva che avrebbe tolto la vita a Shakuni e Nakula che avrebbe soppresso Uluka, il figlio più caro di Shakuni. In quel frangente Arjuna incuteva ancora più terrore del terribile Bhima e i presenti furono presi da un tremore incontrollabile. Scagliate come macigni, quelle parole furibonde suonarono come sicure condanne a morte.
 Poi tutti uscirono dal sabha maledetto di Jayanta.
 Ora il re cieco non era affatto tranquillo; anzi si sentiva preso da brividi irrefrenabili di paura non appena gli si presentava davanti agli occhi la scena di poc'anzi. E quando nel pomeriggio terribili presagi evidentemente sfavorevoli apparvero nella reggia dei Kurava, e Gautama e Vidura e Bhishma e Drona lo misero in guardia del tremendo pericolo che tutti loro stavano correndo, Dritarashtra, terrorizzato, realizzò la gravità della situazione e restituì tutto ai nipoti.
 La sera stessa i Pandava, per nulla chetati dal gesto dello zio, ripartirono per Khandavaprastha.
 
46
Si gioca ancora
La loro partenza non passò inosservata; Dusshasana, vedendoli partire in libertà, capì che il padre aveva avuto paura e aveva dato ascolto ai consigli di Bhishma e degli altri. Immediatamente corse dal fratello e gli raccontò quello che era accaduto.
 "Oramai non si tratta più di un gioco," disse Duryodhana, spaventato, "i Pandava hanno giurato di ucciderci tutti e non avranno pace finchè non l'avranno fatto. Oramai ci conviene sin da ora giocare le nostre carte apertamente contro di loro, o avranno tutto il tempo di organizzarsi. Dobbiamo convincere nostro padre a richiamarli e a giocare ancora. Sono sicuro che vinceremo di nuovo e allora li costringeremo ad andare in esilio."
 Non fu affatto facile convincere Dritarashtra ad agire in quel modo, ma anch'egli convenne che i nipoti liberi in quel momento costituivano una minaccia sicura ed così costui, con l'intelligenza confusa dalle trame del destino, non poté rifiutare.
 E si giocò ancora.
 Sconfitti, i Pandava avevano perduto il loro regno ed erano stati condannati a trascorrere dodici anni nella foresta e un anno in incognito. Senza dire una parola, Yudhisthira era uscito dal sabha.
 Il giorno stesso, accompagnati dalla loro moglie, i Pandava si prepararono per la partenza.
 A quel punto i Kurava erano di nuovo padroni di tutto il regno e di vaste ricchezze, ma da quel giorno Dritarashtra, spaventato dal pensiero della vendetta dei Pandava, non ebbe più un solo istante di pace.