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La ripresa economica del dopoguerra subì, verso la fine degli anni Venti, un brusco arresto causato dalla politica di Mussolini di rivalutazione della moneta e di autarchia.
Molti settori produttivi registrarono in quel periodo un brusco calo, mentre turismo e commercio iniziarono a manifestare difficoltà disastrose.
In effetti, nonostante le enunciazioni trionfalistiche del regime, era impossibile per l'economia italiana svincolarsi dalla dipendenza dalle importazioni dall'estero, che per prodotti di primaria importanza come cotone, petrolio e carbone raggiungevano la percentuale del 99% del fabbisogno complessivo.
Inoltre, l'immenso apparato burocratico instaurato dal regime fagocitava cifre incredibili, pesando in maniera determinante sul già pericolante bilancio.
Nel 1930 l'Ufficio Internazionale del Lavoro indicò, nei suoi dati annuali, che il salario reale degli Italiani era il più basso dell'Occidente - eccezion fatta per la Spagna -, suggerendo l'errore di valutazione insito nella riduzione degli stipendi decretata da Mussolini per ridurre il deficit pubblico fin dal 1927. Endemicamente carente di una coordinata e pertinente politica economica, il fascismo reagì a questo stato di cose cercando di scaricare le responsabilità della crisi su fattori esterni, accusando gli Stati Uniti - e successivamente tutti i Paesi fornitori dell'Italia - di comprimere deliberatamente il potenziale espansivo dell'economia italiana con provvedimenti daziari intollerabili e con l'insistente richiesta del pagamento dei debiti di guerra.
In più, attraverso i propri strumenti propagandistici, mirò ad accreditare l'opinione che non solo l'Italia, ma tutta l'Europa si trovasse sotto il pesante giogo statunitense.
In realtà le cose andavano ben diversamente e l'ultimo decennio di potere del fascismo smaschererà agli occhi di tutti l'inettitudine di coloro che erano preposti alla politica economica del Paese.


"Guerin Meschino", 29 giugno 1930