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Accanto al costo in vite umane anche lo sforzo economico che l'Italia sostenne in guerra rischiò di esserle fatale.
Il deficit pubblico andò alle stelle, provocando una redistribuzione delle ricchezze che favorì alcune ristrettissime lobbies a svantaggio della gran parte della popolazione.
Secondo calcoli attendibili il costo della guerra fu, per il nostro Paese, calcolabile intorno ai 157 miliardi di lire, a totale carico di un debito pubblico giudicato da molti quasi insanabile.
Di questa cifra, allora iperbolica, una buona fetta finì nelle tasche dei potenti fornitori dell'esercito, i cui affari in quegli anni andarono a gonfie vele.
Oltretutto l'assegnazione di appalti e commesse poggiava su un sistema burocratico farraginoso del quale si poteva avere facilmente il controllo attuando un'opera massiccia di corruzione dei funzionari. È in quegli anni che nasce la figura del ‘pescecane', losco affarista maneggione il cui vanto principale consiste nell'ottenere, scavalcando ogni meccanismo di controllo, ghiotti appalti e nel ricavarne margini di utile addirittura faraonici.
Le conseguenze di questa situazione non si manifestarono solo in campo economico, con una massiccia concentrazione industriale e con uno sviluppo abnorme dell'industria siderurgica: in un Paese dissanguato dalla guerra, in cui la svalutazione e la diminuzione del reddito pro capite avevano ampiamente allargato la cerchia dei nullatenenti e dei poveri, l'ostentata ricchezza dei 'pescicani' fu un grave motivo di turbamento sociale, innescando una spirale di rivendicazioni che non tarderà a dare i suoi drammatici frutti. In questa vignetta e nella successiva la testata umoristica "Satana" pone l'accento proprio su questi problemi: la ricchezza dei pochi e, per contrasto, l'insostenibile situazione generale di caro-vita.


"Satana", 13 luglio 1919