La Loggia restava dunque la struttura portante del nuovo ordinamento, conservando tenacemente la propria identità di antica origine come ente indissolubile fondato sulla collettività e sulla forza naturale della unione fraterna.

Queste caratteristiche non resero facile la introduzione nel nuovo ordinamento di un criterio per determinare la legittimità di costituzione di una Loggia, pur essendo ciò inevitabile dal momento che la creazione della Gran Loggia comportava ormai un rapporto di carattere giurisdizionale e quindi necessariamente formale con le Logge particolari.

 

La Tradizione, come abbiamo visto, non era mai giunta ad adottare un procedimento formale per la costituzione di una nuova Loggia, pur praticandosi il criterio del rapporto di filiazione sul quale poggiava, come è noto, la figura della Loggia Madre, che di norma era appunto la Loggia di più antica esistenza dalla quale erano germinate altre Logge. Si trattava, però, come è evidente, di un rapporto di fatto, peraltro né tassativo né esclusivo, il quale non poteva sopravvivere al nuovo ordinamento. Venendosi a configurare, come si vedrà più avanti, nella Gran Loggia una Autorità territoriale, non si poteva evitare di riservare ad essa il potere di creare nuove Logge.

Muovendosi su questa linea i Regolamenti Generali (Art. VIII) prevedevano che ogni nuova Loggia che non fosse munita del «decreto» del Gran Maestro, da comunicarsi alle altre Logge, e non fosse iscritta «nell'elenco delle Logge», era da considerarsi «ribelle».

 

Nel «Post scriptum» degli stessi Regolamenti si stabilì, invece, che come praticato dal Duca di Wharton (Gran Maestro, come abbiamo visto, nel 1723, all'epoca della pubblicazione del Libro delle Costituzioni) «una nuova Loggia deve essere solennemente costituita dal Gran Maestro, coi suoi Deputato e Sorveglianti. ecc.».

Nel novembre del 1723, poi, la Gran Loggia adottò una deliberazione che non appare molto chiara, in quanto ordinò che le nuove Logge dovessero essere regolarmente costituite prima di essere de essa approvate, così configurando una duplice fase che non sembra abbia avuto poi riscontro nella pratica.

È indubbio, in ogni modo, che sul piano istituzionale restava affermato il principio della costituzione formale ad opera della Gran Loggia. C'è da chiedersi piuttosto come si esplicasse questo nuovo principio nei confronti delle Logge già esistenti.

 

Osserva il Vibert che «era chiaro desiderio della Gran Loggia non interferire con le Logge Particolari nel senso e nella misura che i Regolamenti di Anderson avrebbero comportato», e cioè di non irrigidire la concezione di «ribelli» che l'Anderson aveva impulsivamente introdotto.

Abbiamo già rilevato che i fondatori della Gran Loggia non intesero perseguire una politica di rigida contrapposizione; ed è conforme a questa linea che la Gran Loggia rifuggisse da atteggiamenti di intransigente discriminazione che avrebbero avuto l'effetto di scavare profondi fossati intorno alla nuova organizzazione; e questo, ripetiamo, non era a nostro avviso l'effetto voluto.

 

È molto significativo che, nella pur ampia elaborazione regolamentare di quel tempo, non si sia neppure affacciata una norma diretta a stabilire i criteri e i modi di riconoscimento e di affiliazione di una Loggia già esistente; eppure sarebbe stato quanto mai naturale, può pensarsi, che, una volta fondata la Gran Loggia, si dovesse definire la posizione delle Logge particolari rimaste fuori dalla nuova organizzazione.

Né si può semplicisticamente presumere che ciò risultasse superfluo per doversi considerare automatico lo stato di irregolarità di quelle Logge.

Al contrario non bisogna dimenticare il valore che, al di sopra di tutto, la Tradizione conservava, e che, pertanto, era inconcepibile o quanto meno assai problematico contestare la legittimità di una Loggia costituita secondo gli usi preesistenti alla istituzione della Gran Loggia, la quale, se aveva dato luogo certamente a una grossa questione giurisdizionale, non aveva affatto, a nostro avviso, posto in discussione il più ampio concetto di Fratellanza, che peraltro era e resterà non sucettibile di essere ristretto in schemi meramente legalitari.

 

I Liberi Muratori che non avevano aderito alla Gran Loggia non potevano, così, non mantenere indelebilmente in forza della Tradizione la loro qualità di Fratelli, e la Gran Loggia non poteva, sotto questo profilo, né ignorarli, né «scomunicarli» o dequalificarli.

In ultima analisi, per quanto non si possa escludere che la fondazione della Gran Loggia possa essere stata il portato di un «dissenso» di dimensioni complesse, la questione organizzativa e giurisdizionale fu necessariamente assorbente per l'ovvia ragione che qualsiasi altra controversia sul tappeto avrebbe trovato soluzione soltanto nel momento in cui fosse rimasta riconosciuta un'autorità capace di dettare norme obbligatorie nell'ambito della Fratellanza.

Tanto ciò è vero che la contestazione che dal 1723 si manifestò all'interno della Libera Muratoria nei confronti della Gran Loggia si articolò in questa logica, e cioè nella istituzione di organismi concorrenti sul piano giurisdizionale: così avvenne nel 1725 con la cosidetta «Gran Loggia di York» che si definì polemicamente «Gran Loggia di tutta l'Inghilterra», e nel 1751 con quella che si definì «Grand Lodge of England according to the Old Institutions».

 

Né è senza significato che tale contestazione si risolverà, sia pure dopo circa un secolo, con la riunificazione di tutta la Massoneria inglese. Anzi ciò può costituire la riprova che la fondazione della Gran Loggia di Londra, anziché rappresentare una frattura violenta, introdusse esclusivamente una dialettica interna alla Fratellanza di cui lo sbocco realizzato nel 1813 fu il naturale momento di sintesi, avendo infatti segnato definitivamente l'affermazione del principio di coordinamento e di unità organica patrocinato dai fondatori della Gran Loggia. Ciò dimostra altresì che Anderson e i suoi amici si erano fatti portatori di esigenze che erano reali e oggettive e non già create artificiosamente a fini contigenti.