Erasmo da Rotterdam la Ragione e la Storia

 

 

 

 

© Lia Correzzola

 

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Vengano resi i massimi onori a chi ha contribuito a tener lontano la guerra, a chi ha ristabilito la concordia con la sua intelligenza o il suo discernimento, e, per concludere, a chi si è prodigato senza risparmio non per allestire la massima potenza di schiere armate e di macchine belliche, ma per non doverne abbisognare.

Erasmo: "Il lamento della Pace"

 

Per i più Erasmo da Rotterdam è soltanto l’autore di una fortunatissima operetta, l’Elogio della follia, scritta quasi per gioco, durante uno dei suoi innumerevoli viaggi, nel 1509, tant’è che Stefan Zweig apre con toni quasi sconsolati una sua memorabile biografia: «Erasmo da Rotterdam, un tempo la gloria più alta e luminosa del suo secolo, è oggi, non possiamo negarlo, non più di un nome» (S. Zweig 1994, p. 7). Eppure, Erasmo è stato un fine letterato, un appassionato e infaticabile filologo, uno studioso dotato di straordinaria erudizione. Ma questo non basta a rendergli giustizia, perché fu soprattutto perspicace psicologo e moralista, pedagogo e politologo di rara lucidità e chiaroveggenza, benché senza dubbio lo si sia ritenuto il primo, vero teorico del pacifismo in Europa. Convinto sostenitore della misura e della conciliazione, egli rimane figura di sfondo nell’affresco grandioso della Riforma, ove altri rifulgono per sorte tragica, e dove tra i tumulti, le vampate di folle rabbiose, e le ceneri di roghi, il suo sguardo misto di sottile malinconia osserva libero e chiaro le lotte violente e «l’irragionevolezza del non saper cedere» (S. Zweig, 1994, p. 19). Ben consapevole di non essere in grado di portare i suoi contemporanei al dialogo e alla risoluzione dei conflitti, egli resta in attesa, conscio che necessariamente le passioni umane passeranno e la ragione vincerà le contingenze che l’affliggono. Il suo messaggio di pace, quindi, è rivolto anche ai posteri, anche a noi che, oggi, leggiamo e rileggiamo, la sua opera.

Nato nel 1466 (o 1469), Erasmo si trovò a vivere in un periodo di sconvolgimenti epocali per l’Europa, perché l’Umanesimo aveva mutato il modo di concepire il rapporto tra l’uomo e il mondo, ridefinendo gli equilibri tra creato, creatura e creatore. Le scoperte geografiche dilatarono – in modo inimmaginabile prima – i confini del mondo, mentre gli studi astronomici incrinarono la certezza che l’uomo vivesse al centro del cosmo: il relativismo investì tutti gli ambiti della conoscenza, fino a mettere in discussione le verità della fede e, in ultima analisi, Dio stesso. Il progresso della tecnica fu messo al servizio di un nuovo sapere, che utilizzava i sempre più precisi strumenti per la prima volta in modo moderno. E, così, queste nuove tecnologie incisero sull’assetto politico, fino a costituire un’economia prima ignota, basata su diversi giochi di forze tra le varie componenti sociali. Allo stesso modo, la Chiesa cattolica fu scossa fin nelle sue fondamenta: la scomunica, che aveva interdetto gli eretici e ricondotto i principi all’ordine sociale politico e religioso, era ormai inefficace strumento di potere, perché non solo i singoli, bensì le comunità e i loro principi agognavano non altro che affrancarsi dal giogo ecclesiastico. Il potere temporale della Chiesa si estendeva, oramai, solo sul Papato, Stato tra altri Stati.

Figlio illegittimo, e di un prete per giunta, Erasmo frequentò a Deventer la scuola dei Fratelli della Vita Comune, ove apprese i rudimenti del sapere. Entrò, quindi, nel convento agostiniano di Steyn, e se “Lutero entrò in monastero per salvarsi l’anima con buone opere, Erasmo vi entrò per illuminarsi la mente con buoni libri” (R.H. Bainton, Erasmo della cristianità, 1969, p. 11). In quegli anni seguì le lezioni di Rodolfo Agricola (Rudolf Husman), si imbevve delle idee di Nicola Cusano e studiò le opere di Lorenzo Valla. Erasmo si può definire, a tutti gli effetti, un litteratus, tanto da divenire noto per la sua ammirazione dell’antichità classica. Questo suo interesse non venne però mai in contrasto col magistero della Chiesa, come stanno a dimostrare ad esempio i rapporti con John Colet sul pensiero fiorentino e sul significato dell’antichità classica per gli studi biblici. Anzi, per Erasmo i classici pagani erano precursori e depositari di un sapere che preannunciava il cristianesimo e si completava in esso.

Erasmo viaggiò indefessamente per tutt’Europa, e nel 1500 rientrò a Parigi dall’Inghilterra, dove aveva conosciuto Thomas Moore, con cui strinse profonda e duratura amicizia. In quello stesso anno editò la princeps degli Adagia, raccolta di 800 massime e proverbi antichi, arricchiti e annotati con osservazioni e commenti personali: questo compendio del sapere antico crebbe, di edizione in edizione, fino a raggiungere più di quattromila proverbi nella sua stesura definitiva (1535), e gli garantì grande fama nel panorama letterario europeo. Il suo nome, tuttavia, si associò ben presto ad altre opere: coll’Enchiridion militis christiani (Manuale del soldato cristiano), stampato nel 1503, e con la traduzione del Nuovo testamento dal greco, Erasmo espone la propria concezione del Rinascimento e del cristianesimo. La fede, infatti, secondo il grande Umanista, non si esplica esclusivamente nel clero e nei conventi: ogni uomo degno di questo nome ha l’obbligo morale, civile e filosofico di interessarsi della fede, andando al di là della lettera del testo per penetrare nell’intimo il messaggio di Cristo. Le opere di Erasmo, in tal modo rappresentano le singole parti di un progetto culturale, filosofico e religioso, definito philosopia Christi.

Questa nuova concezione intellettuale, che si strutturava come un rinnovamento dall’interno, promuovendo l’abbandono delle categorie istituzionalizzate della religione per seguire un percorso tutto interiore e soggettivo, che andasse al di là delle pratiche esteriori, divenne in breve molto popolare. Nonostante ciò, e nonostante la stigmatizzazione della pratica della venerazione delle reliquie, che si compiva a scapito della comprensione del messaggio di Cristo, Erasmo non era ancora accusato apertamente di concezioni non ortodosse: l’Olandese concentrava, infatti, tutti i suoi sforzi per rinnovare dall’interno e in modo progressivo la Chiesa, troppo dedita agli affari terreni, e lo faceva con una straordinaria erudizione e un’abilità stilistica che gli permettevano di assumere posizioni ideologiche difficilmente attaccabili. Per questo scopo Erasmo si cimentò nella traduzione dei Vangeli, onde recuperare e diffondere la purezza della dottrina di Cristo, tendente, secondo il letterato, a null’altro che alla pace.

Con l’infuriare della Riforma, il grande umanista si vide costretto a dover operare una mediazione tra posizioni quasi inconciliabili e per lui comunque inaccettabili: da un lato, infatti, era ben consapevole delle pecche e delle mende della Chiesa, cui pure non intendeva ribellarsi; dall’altro, condivideva e aveva insegnato molte delle idee in materia di rinnovamento religioso e filosofico che Martin Lutero andava gridando per l’Europa, ma del quale non condivideva l’avventatezza e lo spirito distruttivo. In aggiunta a tutto ciò va sottolineato come egli ritenesse imprescindibile salvaguardare la propria libertà intellettuale. Così, Erasmo, amante della tranquillità necessaria per gli studi e per il fiorire delle amicizie, si ritrovò all’improvviso conteso dalle fazioni in lotta per il predominio temporale e spirituale nell’Europa, poiché personalità internazionalmente riconosciuta per le sue doti morali e intellettuali, e perciò capace di informare di prestigio e di potenza dialettica gli interessi in campo. Egli, tuttavia, evitò fino alla fine di schierarsi con altri se non con i tolleranti, i liberi e gli illuminati dalla ragione, convincendo, adulando, promettendo e vezzeggiando pur di mantenersi indipendente da vincoli di schieramento, accettando regali da tutti per non essere schiavo di nessuno. Anche l’abito sacerdotale, da cui ottenne la dispensa da due papi, gli andava stretto, ed egli, professati i voti per poter ricevere un’istruzione, si ingegnò molto abilmente per evitare la vita monastica, considerata automortificante e comunque non adatta allo studio delle lettere e al libero dispiegarsi della ragione.

Erasmo fu cristiano di fede viva e profonda, anche se, come si è accennato, condannò certa esteriorità propria della vita monastica a lui coeva. Il suo cosmopolitismo, la sua volontà di essere cittadino del mondo gli derivavano, infatti, dal suo cristianesimo – diciamo pure così – vissuto, ossia dalla consapevolezza della fratellanza, della concordia e dell’amore universale che devono contraddistinguere tutti i cristiani. Per Erasmo, del resto, le terribili guerre che devastavano l’Europa altro non erano che malintesi causati da ignoranza e carenze nell’educazione. Educare significava, del resto, per lui, esaltare ciò che avvicinava e univa i popoli, anteporre i vincoli umani a quelli della patria, trasformare i legami religiosi del mondo cristiano in una fede davvero universale. Solo seguendo tali ordinamenti sarebbe stato possibile, tra l’altro, realizzare l’unificazione degli Stati europei, un progetto grandioso che solo oggi, a distanza di cinque secoli, si sta pienamente realizzando.

Questa philosophia erasmiana si realizza coraggiosamente in una recisa difesa dei più nobili ideali dell’uomo e del cristiano, vale a dire pace e amore universali: la guerra, infatti, satanica negazione della vita e della carità, non fa che minacciarne e sconvolgerne con le sue follie la più intima essenza. Ma la pace, per Erasmo, non è una semplice idea o un mero argomento di discussione, perché – come ha acutamente osservato Jean‑Claude Margolin (1973, p. 9) – la pace fra le nazioni d’Europa e, soprattutto, fra i cristiani, la pace dell’uomo con se stesso e con i suoi simili, la pace dell’uomo con Dio, la dignità dello spirito che rifiuta di sottomettersi alla bestialità dell’istinto sono per l’Umanista un’esigenza viscerale, per non dire un’ossessione costante, che l’accompagna prima, durante e dopo che ha diffuso il suo messaggio irenico assecondando circostanze storiche o personali opportunità. In tal modo, il “pacifismo” erasmiano, intenso e pressoché totalizzante, non nasce dalla tolleranza e dalla ragionevolezza, bensì si configura come una componente determinante della sua adesione piena all’essenza etica e spirituale del messaggio evangelico, che vieta in ogni frangente l’uso delle armi.

Eppure Erasmo, attento studioso e fervente ammiratore di Paolo e Agostino, non rifiuta in toto la guerra, ma ne muta l’oggetto: tutte le energie che gli uomini e i cristiani indirizzano contro altri uomini e altri cristiani dovrebbero essere impiegate nella lotta contro i vizi e contro il peccato. Riconoscendo la natura imperfetta dell’uomo e la caduta adamica, Erasmo è convinto che ogni persona debba sforzarsi per vivere in armonia con la legge di Gesù Cristo, combattendo «la guerra bellissima contro i peggiori nemici della Chiesa: contro la cupidigia di ricchezze, l’ira, l’ambizione, la paura della morte» (Dulce bellum inexpertis). Per far fronte a questa guerra il cristiano deve poter disporre di adeguate “armi spirituali”, che Erasmo illustra nel trattatello del 1503 Enchiridion militis cristiani (“pugnale”, ma anche “manuale del cristiano militante”), in cui descrive una esistenza caratterizzata da infinite battaglie per la conquista della pace con se stessi e con gli altri, e tale da far attingere l’ineffabile pace di Dio. Impegnandosi con zelo in questa battaglia eccellente, il miles Christianus potrà limitare sensibilmente il male morale che angoscia e affligge la sua anima, alleviando il tormento che costituisce la causa vera di tutte le guerre che dilacerano l’umanità. «Io bramo – esplicita nel Sileni Alcibiadis, Adagia 2201 – vedere i pontefici ricchi straricchi: ma ricchi della perla del Vangelo, ricchi delle ricchezze del cielo, che più si moltiplicheranno nelle loro mani quanto più largamente le distribuiranno […]. Io voglio che i pontefici siano armati fino ai denti: ma con le armi del Vangelo, “lo scudo della fede, l’usbergo della giustizia, la spada della salvezza che è la parola di Dio”. Li voglio al massimo pugnaci e battaglieri: ma contro i veri nemici della Chiesa, la simonia, la superbia, la lussuria, l’ambizione, l’ira, la miscredenza. Questi sono i Turchi che i cristiani devono tenere costantemente sotto controllo, devono combattere senza tregua. Di questa specie di guerra ha da farsi duce e promotore il vescovo». Egli, del resto, aveva applicato questo stesso paradigma interpretativo nel Panegirico di Filippo il Bello (1504), in cui il filosofo, più che celebrare i successi di Filippo IV di Borgogna, si preoccupava di ricordargli i doveri dell’autentico principe cristiano (che è padre dei suoi sudditi e dedito ad ogni virtù) ed i mille disagi e dolori che accompagnano ogni guerra. Così, l’ampio commento dell’adagio Dulce bellum inexpertis, apparso nel 1515, ma compiuto nel 1526, è il frutto puro e spontaneo dell’inquieta meditazione del grande Olandese su uno degli argomenti che più gli stavano a cuore: per il suo carattere organico, esaustivo e relativamente sereno, questa dissertazione è considerata la più ricca, riuscita e significativa testimonianza del “pacifismo” erasmiano. Ispirandosi a capolavori di Cicerone, Plinio e Seneca, il grande umanista vi sviluppa o vi accenna numerosi dei temi che poi tratterà nella Querela Pacis (1517), la sua più celebre, suggestiva e trascinante opera sulla pace.

Nell’Institutio principis cristiani (1516) si impongono all’attenzione numerose e notevoli riflessioni sulla pace e sulla guerra. Questo mirabile e diffusissimo speculum principis, composto per Carlo d’Asburgo (il futuro imperatore Carlo V), insiste sull’idea che tutti gli sforzi del principe devono tendere al miglioramento materiale, morale e spirituale del suo Stato, realizzando concretamente la philosophia Christi. Le guerre, che immancabilmente causano un’infinità di sventure, dolori e morti, dovranno quindi essere evitate ad ogni costo, e il monarca dovrà educare se stesso e il popolo a quella pace che – come sottolinea Baruch Spinoza – non è soltanto l’assenza delle guerre, bensì un’elevata virtù morale. Se il sovrano cristiano – pensa ancora Erasmo – medita sulla differenza che intercorre tra l’uomo, «nato per la pace e l’amicizia», e le bestie feroci, «nate» invece «per saccheggiare e combattere», comprenderà di certo che nessuna forma di guerra è naturale, bensì disumana e, di conseguenza, detestabile ed esecranda.

Del 1517 è la Querela Pacis, che si può tradurre con Lamento (o anche con Protesta) della pace, scritto di assoluto impegno etico‑politico, nonché retorico‑stilistico, in cui Erasmo espone le proprie idee sulla pace, condensando l’essenza della sua speculazione morale e religiosa. Redatta su commissione del gran Cancelliere di Borgogna, Jean Le Sauvage, in occasione della nomina di Erasmo a Consigliere dello stesso Carlo di Borgogna nel 1515, l’opera doveva rappresentare uno strumento per perorare efficacemente la causa della pace presso i sovrani più potenti d’Europa. A tal fine Erasmo vi instilla il suo timore e la sua indignazione di fronte alle barbare atrocità della guerra, la sua fede incrollabile nei più alti valori umani e divini ed il magnanimo cosmopolitismo della sua coscienza, che aspira ad un’Europa pacifica ed unita. Su questa linea, non tralascia di appellarsi a ideali propri del ceto medio come l’ordine, la prosperità e la sicurezza delle risorse e dei commerci.

In quest’opera breve, ma colma di significato e di valori, Erasmo si avvale magistralmente della sua prodigiosa cultura classica e cristiana, e del vastissimo repertorio di strumenti retorici a sua disposizione: un’appassionata personificazione della Pace (in piena consonanza, naturalmente, con la philosophia Christi) denuncia alla cristianità intera le miserie morali e religiose, le assurdità e le follie che caratterizzano ogni guerra, sottolineando con toccante energia gli innumerevoli vantaggi che essa soltanto, la Pace divina, può recare a ogni Stato (e ad ogni uomo) che voglia cercarla e lasciarla operare.

 

Il Figlio di Dio – ricorda commossa ai suoi uditori – è stato definito dal profeta Isaia «il principe della pace» e, durante tutta la sua vita in terra, non ha fatto che predicare la pace, la mitezza, la bontà e l’amore.

Cosa lascia ai suoi, eh? State ascoltando? Lascia forse cavalli o un corpo di guardia o il comando o ricchezze? Nessuna di queste cose. E, allora, cosa lascia? Dà la pace, lascia la pace, la pace con gli amici, la pace con i nemici. Si faccia, ora, attenzione su questo punto: cosa ha chiesto al Padre fin da quella mistica cena, quando già incombeva l’ora della morte, in quelle estreme preghiere? Ha domandato, mi pare, una cosa che esula dall’ordinario Egli, che ben sapeva che avrebbe ottenuto dal Padre tutto ciò che chiedeva. «Padre santo – dice – conservali nel tuo nome, perché siano una cosa sola, come lo siamo pure noi ». Considera, per favore, l’eccezionalità della concordia che Cristo pretende dai suoi. Non ha detto «perché siano unanimi», ma «perché siano una cosa sola», e questo non in un modo qualsiasi, ma «come noi – dice – siamo una cosa sola», noi che siamo la stessa cosa in base a un ordine perfettissimo e meraviglioso; in questo modo, poi, tra le altre cose indica che è soltanto questa la strada che gli uomini devono percorrere, se vogliono la salvezza: nutrire tra loro una reciproca pace.

 

La conseguenza più diretta e immediata è che tutti i belligeranti sono falsi cristiani: i loro feroci istinti di guerra, che li spingono all’odio e al massacro dei loro fratelli, saranno inevitabilmente puniti da Dio. La guerra non è soltanto un clamoroso tradimento dei valori della vera religio, ma anche un’insensata e inescusabile rinuncia alla ragione umana, le cui virtù sono state mirabilmente descritte anche dai massimi autori greci e latini. «Se la malattia più distruttiva di uno Stato risiede nel disprezzare le leggi, rifletti: “tacciono le leggi tra le armi”», scrive l’Olandese riprendendo Cicerone.

Erasmo, nella pars construens della Querela, non lesina certo i suggerimenti per evitare i conflitti in Europa, anche se tali consigli sono sembrati piuttosto astratti e utopistici ad alcuni critici. Per riprendere la sintesi di Pierre Mesnard (1952, p. 187), si può affermare che per l’Olandese si doveva cominciare col disarmare gli antagonismi nazionali, facendo comprendere e vivere agli uomini la solidarietà cristiana; occorreva, poi, dare un assetto stabile agli Stati dell’Europa, chiedendo ai principi di fissare una volta per tutte i confini dei loro possedimenti; si dovevano, inoltre, fissare regole uniformi di successione, onde evitare contestazioni fra i candidati; togliere ai principi la facoltà di dichiarare guerra di loro iniziativa, e organizzare arbitrati fra le nazioni o i re, risolvendo così i conflitti prima ancora che scoppiassero; e, infine, mobilitare in favore della pace tutte le forze civili, morali e spirituali disponibili.

La Querela Pacis riscosse grande fortuna, tanto che se ne ebbero molte edizioni e traduzioni, in particolar modo durante i periodi di tensione internazionale. Il suo esplicito appellarsi a umanità e ragione viaggiò in parallelo con l’attacco alla debolezza di base della teoria della guerra giusta: perché la si ritenga tale, una guerra necessita di un organismo imparziale che possa determinarne la giustizia (R.H. Bainton, 1970). Quest’organismo non è mai esistito, nonostante alcuni tentativi attuati nella seconda metà del Novecento, che, sebbene probabilmente ispirati dalle necessità contingenti più che da un autentico spirito erasmiano, non si sono dimostrati all’altezza del delicatissimo compito loro assegnato.

Nel riflettere riguardo alle cause che suscitano tali conflitti e sugli effetti che ne derivano, il grande umanista conclude che le guerre non hanno altro effetto se non rendere più feroci e tragiche le controversie; per risolverle occorrerebbe adottare, all’opposto, soluzioni assai più civili e umane, quali il dialogo e le transazioni. La guerra per lui, inoltre, è sempre ingiusta, giacché i mali che provoca ricadono inevitabilmente su persone innocenti e spesso indigenti, che nulla hanno a che fare con essa. Ma quel che per Erasmo è ancor più grave e assurdo, quel che più ferisce ed affligge la sua coscienza di umanista religioso è la guerra fra cristiani: nei due campi, infatti, c’è Cristo, quasi egli fosse impegnato in una guerra contro se stesso. L’Olandese si scaglia risolutamente contro i vescovi, pessimi esempi, perché non si vergognano di stare su un campo di battaglia, né di mischiare i sacramenti con una realtà atroce, peggiore perfino di quella infernale. Neanche la difesa della fede, infine, legittima in alcun modo il ricorso alla guerra: in effetti – conclude Erasmo – la coerenza autentica e la forza morale sono strumenti ben più efficaci per difendere e divulgare il messaggio di Cristo.

Nonostante le considerazioni sin qui fatte, il padre della pace Erasmo, da attento ed esperto osservatore della natura umana e della storia, non si dichiara fautore di un pacifismo assoluto: la guerra è a parer suo – come s’è detto – oltremodo dolorosa e funesta, e va perciò in linea di principio evitata; d’altra parte, in taluni casi, quando ogni altra soluzione pacifica, ragionevole e cristiana si sia rivelata inutile, essa può rappresentare un’extrema ratio necessaria, che un princeps Christianus non può e non deve esimersi dall’adottare. «Un buon principe – precisa Erasmo nell’Institutio – non entrerà in guerra se non quando, dopo aver tentato di tutto, vedrà che non può proprio evitarla con nessun altro mezzo». Ciò non toglie, tuttavia, che anche tali conflitti apprezzabili e condivisibili arrechino ugualmente parecchi danni allo Stato. È per questo, allora, che la lezione principale che Erasmo intendeva lasciare ai suoi contemporanei e, in generale, a tutti gli uomini si può sintetizzare in un’esortazione – insieme lucida e appassionata – a meditare e vivere toto corde l’amore cristiano, che si deve trasformare in un’effettiva partecipazione alla vita e alle sofferenze degli altri, ossia si deve manifestare in un’attenzione costante e sincera verso il prossimo. In tal modo, nel suo Enchiridion leggiamo che amare gli altri, tutti gli altri, significa «correggere chi si comporta male, istruire chi non sa, risollevare chi è caduto, consolare chi è afflitto, soccorrere chi ha bisogno e, in una parola, usare tutte le nostre risorse per aiutare quante più persone possiamo».

Tutti, secondo il principe dell’umanesimo europeo, devono godere dei beni elargiti dal sublime magistero della pace cristiana: questo implica che la totalità dei cristiani – non solo i membri del clero, ma anche gli uomini di governo e gli educatori – debbano impegnarsi con zelo ed entusiasmo nel nobile scopo di diffondere ovunque la pacifica “buona novella” donata dal Messia. In tal modo, un numero sempre maggiore di uomini potrà conoscere, amare e praticare l’esempio e gl’insegnamenti di Cristo, quel modus vivendi amorevole e pacifico che, secondo Erasmo, rappresenta l’unica vera filosofia.

Nonostante il sopracciglio alzato con cui il lettore moderno recepisce il postulato dell’umanesimo secondo cui «l’uomo istruito non è più capace di rozza violenza» (un’idea rinascimentale professata da Erasmo, cui la storia recente ha aggiunto un corollario, «a meno che l’istruzione non serva per perseguire fini malvagi») a quasi cinque secoli dalla loro pubblicazione, tutti questi scritti sulla pace ci si impongono ancora come vivissimi e attuali, in virtù soprattutto dei valori universali che sostengono le loro pagine: la dignità di ogni uomo, la ragione, la fratellanza, l’amore reciproco. All’alba del terzo millennio, come nel XVI secolo, la guerra appare un’aberrazione stupida, atroce e odiosa, del tutto incompatibile non solo con le massime evangeliche, ma soprattutto con la razionalità stessa della stirpe umana. Anziché architettare violenze inaudite e costruire armi via via più micidiali e incontrollabili, l’uomo postmoderno potrebbe risolvere – forse – la maggior parte dei problemi etico‑politici che lo turbano e l’opprimono mediante un confronto non-violento ed onesto con i presunti “nemici” e con le loro ragioni, grazie ad un’apertura franca e disinteressata verso tutti gli altri, e specialmente verso le loro diversità. Ancora una volta Erasmo può illuminarci la strada, egli che «aveva subito il medioevo nel corpo e nell’anima» (S. Zweig, 1994, p. 35), sotto una ferrea disciplina aveva imparato a odiare, come antiumana, ogni chiusa unilateralità dottrinaria, ogni irrinunciabile dogma, ogni opinione indiscutibile, optando per il dialogo, per la condivisione e per la persuasione degli altri.

Erasmo, per tutta la durata della sua non lunghissima vita, mise in pratica questi principi; basti, però, un esempio per dimostrare come la tensione verso il dialogo costituisse sul serio le radici della filosofia erasmiana: il difficile rapporto con Martin Lutero e col movimento della Riforma protestante. Erasmo e Martin Lutero non avrebbero potuto essere maggiormente dissimili: nell’aspetto, come nel carattere rappresentavano la ragione contro la passione, l’indulgenza contro il fanatismo, la cultura contro la forza primigenia, l’evoluzione contro la rivoluzione. Pur sostenendo essenzialmente le medesime tesi, la forma e l’uditorio cui erano rivolte erano tali per cui dove Erasmo suscitava reazioni spirituali di una ristretta cerchia di intellettuali, Lutero scuoteva gli animi, e le sue parole diventavano grido di battaglia. Lutero, che «tra tutti gli uomini geniali che la terra ha prodotto […] fu forse il più fanatico, il più intransigente, il più indocile e bellicoso» (S. Zweig, 1994, p. 100) fu fronteggiato da Erasmo, che aveva fatto del non‑fanatismo quasi una religione, in modo pacato e cortese, quasi stesse compiendo un gioco di stile, perplesso di fronte alla compiacenza dell’avversario nel vincere e schiacciare un nemico.

Entrambi rimasero scandalizzati dal mercato delle indulgenze durante il pontificato di Leone X, pur reagendo in modo opposto, dato che, mentre Erasmo elaborava testi arguti e ironici diffusi in un’élite culturale, Lutero affiggeva le sue Tesi sul portone della chiesa di Wittemberg. Il Riformatore provocò la costernazione dell’Olandese, che era invece convinto che questi argomenti di teologia si sarebbero più proficuamente discussi sottovoce e in un gruppo di dotti, piuttosto che gridati in una piazza. Come, infatti, la storia ci ha dimostrato, attorno all’appello religioso di Lutero, cui il Riformatore attribuiva scopi puramente spirituali, si addensò una pesante atmosfera di interessi politici ed economici, e Lutero divenne, probabilmente suo malgrado, il simbolo di complicati interessi terreni. Quanto egli aveva desiderato nel regno dello spirito, da molti, forse troppi, fu attuato nel regno della carne e portò a risultati assai inferiori alle aspettative.

Erasmo non si volle mai legare a Lutero, che pur condivideva gran parte delle sue idee, perché questi le sosteneva in modo troppo violento e dispotico e perché riteneva gli scettici come nemici ed emissari di forze maligne. Alle richieste di sostegno del Riformatore l’Umanista rispose con cortesia e, qualche volta, con ambiguità, al fine di salvaguardare a ogni costo la propria libertà d’azione e l’integrità della sua persona: «Tutto ciò che Lutero invoca, io stesso l’ho insegnato, ma non con tanta violenza e senza quel linguaggio estremo», confesserà a Zwingli, riformatore religioso svizzero. Ma, mentre Erasmo proponeva una cura progressiva ai mali della chiesa, fatta di ragione e satira, Lutero propugnava l’amputazione: «Salda è la mia decisione di lasciarmi piuttosto dilaniare a brano a brano che non favorire la discordia, tanto più in argomenti di fede. […] Ma benché io ammetta che molte cose entro la Chiesa dovrebbero venire mutate a vantaggio della religione, non mi piace affatto ciò che porta ad una ribellione di questo genere». Erasmo in qualche modo prevede che tale secessione dei paesi germanici dal potere ecclesiastico non si sarebbe potuta attuare senza sanguinosi conflitti, che per lui significavano immancabilmente regresso, barbarie e annichilimento della ragione. In questa delicatissima fase storica rappresenterà, da solo, la chiara ragione, difendendo, armato solo della penna, l’unità d’Europa, della Chiesa e dell’uomo dal crollo e dalla rovina. Ma consigliare saggezza e prudenza ad un uomo sostenuto dal plauso popolare e certo di udire il comandamento divino si dimostrò vano, così come vani furono i tentativi di indurre il pontefice e i principi a evitare il fanatismo che mai riconosce i propri errori, e a cercare il dialogo con Lutero, piuttosto che la scomunica.

La Dieta di Worms (1521), risultato diplomatico di tali esortazioni, fu il luogo ove l’imperatore Carlo V e Martin Lutero si confrontarono, e dove il monaco osò ribellarsi e ricusare obbedienza alla Chiesa in faccia all’imperatore e alla corte radunata col famoso: «Questa è la mia posizione, non posso altrimenti», causando in questo modo una frattura insanabile in Europa. E dov’era Erasmo? Purtroppo, in quest’ora fatale egli se ne restava chiuso al sicuro nella sua stanza, incapace di offrire la sua persona in sacrificio alle sue idee. Forse, proprio quest’attimo mancato, ancor più che la sua assenza alla successiva Dieta di Augusta (1530), rappresenta la causa della sconfitta storica delle idee erasmiane, la mancata traduzione del suo volere in azione.

Nell’ora tremenda dello scontro, tanto i luterani quanto il Papato e l’Impero anelavano e rivendicavano a gran voce l’approvazione e l’appoggio di questo campione del sapere che, tuttavia, non poteva schierarsi né con la Chiesa, dato che egli stesso ne aveva criticato le torbide consuetudini e ne aveva per primo chiesto il rinnovamento, né con Lutero, perché questi non rappresentava né diffondeva la sua idea di un Cristo portatore di pace. Agli attacchi iracondi di Lutero, Erasmo risponderà col suo De libero arbitrio, esortazione alla tolleranza di enorme successo, in cui affronta il tema della libertà e schiavitù del volere umano secondo la teoria luterana. Lutero col suo De servo arbitrio, trattato sulla schiavitù della volontà umana, sosteneva invece la necessità della certezza e intransigenza di ogni buon cristiano, laddove, per Erasmo, il cristiano era colui che sentiva nell’animo una divina pace ed indulgenza.

Molti sono i critici che ritengono questo scontro il punto di rottura tra Umanesimo e Riforma, il divorzio tra ragione e passione. Così Erasmo, consapevole che la sua alta concezione della razionalità è stata sconfitta e che, in periodo di follia quale quello che stava vivendo, era risultato vano invitare gli uomini all’humanitas, rifiuta di stringere la mano tesagli da Lutero, che aveva infranto il suo progetto filosofico‑religioso: «Quel che è stato tra noi due non ha importanza, e tanto meno per me, già prossimo alla morte; ma quello che suscita scandalo in ogni uomo dabbene come me medesimo, è il vedere che il tuo contegno pretenzioso, impudente e ribelle distrugge il mondo intero […] e che per volontà tua questa bufera non giunge alla soluzione pacifica per cui io ho combattuto».

Nel 1535 Erasmo si spense nella tollerante Basilea, estremo porto di una peregrinazione durata tutta la vita alla ricerca di un santuario del sapere, di un luogo intatto da interferenze storiche e violenti contingenze, ove continuare l’opera di infaticabile filologo e di scrittore eruditissimo, da spirito libero. Egli morì isolato e amareggiato, mentre gli inquisitori cattolici condannavano la sua opera e la rendevano oggetto di ludibrio da parte dei riformatori. Johan Huizinga (1941, p. 235) sottolinea l’aspetto probabilmente più tragico della sua esistenza: «aver visto meglio di ogni altro il nuovo che stava per venire, e non averlo potuto accettare, pur essendo entrato in conflitto col vecchio». L’astro di Erasmo era dunque al declino, e, per l’Italia, il 1542 segna la data dello stabilirsi della santa inquisizione e del definitivo tramontare della fortuna del grande filologo. Qualche anno dopo papa Paolo IV metterà all’indice tutte le sue opere, comprese quelle che non avevano come oggetto la religione.

Se si vuole paragonare la volontà di potenza, rappresentata dal pensiero machiavelliano, e il potere della ragione, sostanziato da quello erasmiano, il primo risulta storicamente vincente (S. Zweig, 1994). Eppure, nonostante questa considerazione, spiritualmente la speculazione erasmiana offre elementi di notevole interesse, anche se si caratterizza per un’intrinseca difficoltà a tramutarsi in pensiero di massa: la costante tensione all’imparzialità, a poco a poco, si fa partito, nella stessa misura in cui il raziocinio e l’imperturbabilità di rado sono caratteristiche delle folle. Ma, come afferma Mesnard (1963, p. 129), «Nel momento stesso in cui il Machiavelli condensa nel Principe le conclusioni politiche del Rinascimento italiano […] e cela sotto le formule amare un mondo in decomposizione, il saggio Erasmo edifica una visione serena dell’uomo e dello Stato proprio nel cuore di un grande fervore costruttivo».

In questo nostro tempo, simile troppo forse a quello di Erasmo, in cui si attuano una nuova rivoluzione e un nuovo relativismo tanto cognitivo quanto culturale, assistiamo a un rifiorire e a un riaffermarsi dell’ideologia del grande Umanista. A lui infatti si rivolgono gli spiriti liberi, ossessionati dalla preoccupazione di non ridurre in cenere quanto si vorrebbe difendere e preservare dagli attacchi esterni, ossia quella fiducia nella ragione e nella ragionevolezza umana e quella avversione per gli eccessi violenti e spesso controproducenti per ogni tipo di rapporto tra individui e tra Stati. Nel suo levigatissimo latino il sommo Umanista intratteneva corrispondenza e amicizie con un’impressionante numero di persone che, pur separate dalla distanza geografica, erano accomunate dagli interessi filantropici e dall’amore per le lettere e per la cultura. Dalla sua vita, se non proprio lezioni di coraggio, si possono tuttavia trarre insegnamenti di tolleranza, ragionevolezza, coerenza e, soprattutto, ci si può ispirare al suo radioso esempio di libertà intellettuale. Il suo cosmopolitismo, animato da una pietas produttrice di carità fraterna e comprensione, resta, a nostro avviso, l’unica via percorribile verso un’integrazione dei popoli che non significhi eliminazione delle differenze.

Nonostante la sua sconfitta storica, pertanto, merito di Erasmo è sicuramente l’aver aperto la strada al pensiero umanistico, a questa concezione eterna ed intuitiva secondo cui compito supremo dell’umanità è di farsi sempre più umana, sempre più spirituale e sempre più aperta. Lo spirito della conciliazione e della tolleranza affermerà le sue ragioni di fronte a quello della violenza successivamente da Montaigne a Spinosa, da Kant a Tolstoj, a Gandhi, a Rolland, e con più forza nei momenti più bui della nostra storia, animato e animatore dell’istinto che spinge l’umanità nella sua irruenta corsa nella storia: la speranza di un’ascesa, magari verso la moralità, forse verso l’accordo.

Per concludere, quindi, con le parole dello stesso Erasmo, possiamo affermare che «la cosa più scellerata è che alcuni, scaltriti come tiranni, sapendo bene che, se il popolo è concorde al suo interno, il loro potere è meno sicuro e che, se il popolo è diviso, riescono a comandare più stabilmente, subornano persone che, di proposito, inneschino una guerra: in tal modo, dividono coloro che erano uniti e derubano l’infelice popolo con più libertà (Querela Pacis)».

 

 

 

 

1. Opere di Erasmo

 

Opera omnia emendatiora et auctiora, a cura di J. Leclerc (1703-6), Hildesheim, 1962, 11 voll.

Le Chevalier de Berquin, La Complainte de la Paix (1525). Introduction, notes, commentaires et appendices par E. V. Telle, Paris, 1978.

The Complaint of Peace. With an introduction by W. J. Hirtenn. Translated by T. Paynell (1559), New York, 1946.

Il lamento della pace, a cura di L. Firpo, Torino, 1968.

Contro la Guerra, a cura di F. Gaeta, L’Aquila, 1968. (Vi si trovano accurate versioni del Dulce bellum inexpertis e della Querela Pacis.)

La philosophie chrétienne. Introduction, traduction et notes par P. Mesnard, Paris, 1970.

Erasme. Guerre et Paix. Introduction, choix de textes, commentaires et notes par J.-Cl. Margolin (1973), Paris, 1992. (Offre, inter alia, un’importante versione della Querela.)

The Praise of Folly. Translated with an introduction and commentary by C. H. Miller, New Haven and London, 1979.

Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, a cura di S. Seidel Menchi, Torino, 1980.

La formazione cristiana dell’uomo, a cura di E. Orlandini Traverso, Milano, 1989. (Contiene valide traduzioni dell’Enchiridion militis christiani, dell’Institutio principis christiani, del De pueris statim ac liberaliter instituendis e della Paraclesis.)

Elogio della follia, a cura di L. D’Ascia, Milano, 1989.

Il lamento della pace, a cura di C. Carena, Torino, 1990.

The Education of the Christian Prince. Edited by L. Jardine. Traslated by N. M. Cheshire and M. J. Heath, Cambridge, 1997.

I colloqui, a cura di G. P. Brega, Milano, 2000.

Plaidoyer pour la paix. Traduit du latin et présenté par Ch. Labre, Paris, 2002.

Colloquia. Progetto editoriale e Introduzione di A. Prosperi. Edizione con testo a fronte a cura di C. Asso, Torino, 2002.

Adagia, a cura di D. Canfora, Roma, 2002.

Scritti religiosi e morali. Progetto editoriale e Introduzione di A. Prosperi. A cura di C. Asso, Torino, 2004.

Per una libera educazione, a cura di L. D’Ascia, Milano, 2004.

Il galateo dei ragazzi, a cura di L. Gualdo Rosa, Napoli, 2004.

 

2. Alcuni studi su Erasmo

 

C. Augustijn, Erasmo da Rotterdam. La vita e l’opera (1986), Brescia, 1989.

R. H. Bainton, Erasmo della cristianità (1969), Firenze, 1989.

M. Bataillon, Erasme et l’Espagne. Recherches sur l’histoire spirituelle du XVIe siècle (1937). Préface de J.-Cl. Margolin, Genève, 1998.

L. Borghi, Umanesimo e concezione religiosa in Erasmo da Rotterdam, Firenze, 1935.

L. Bouyer, Erasmo tra Umanesimo e Riforma (1955), Brescia, 1962.

L. D’Ascia, Erasmo e l’Umanesimo romano, Firenze, 1991.

L. D’Ascia, Frontiere. Erasmo da Rotterdam, Celio Secondo Curione, Giordano Bruno, Bologna, 2004.

M. Dazzi, Aldo Manuzio e il dialogo veneziano di Erasmo, Vicenza, 1969.

M. Delcourt, Erasme (1944), Bruxelles, 1986.

A. M. Erba, L’umanesimo spirituale. L’Enchiridion di Erasmo da Rotterdam, Roma, 1994.

G. Faludy, Erasmus of Rotterdam, London, 1970.

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A. Gambaro, La pedagogia di Erasmo da Rotterdam, Torino, 1942.

M. de Gandillac, Introduction à la politique d’Erasme, in Umanesimo e scienza politica, Milano, Marzorati, 1951, pp. 181-184.

E. Garin, Erasmo, Fiesole, 1988. (Il volumetto contiene, fra l’altro, un’eccellente traduzione della Querela Pacis.)

L.-E. Halkin, Erasmo (1987), Roma-Bari, 1989.

J. Huizinga, Erasmo (1924), Torino, 2002.

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P. Imbart de la Tour, Les origines de la Réforme. Tome 3: L’Evangelisme (1521-1538), Paris, 1914.

L. Jardine, Erasmus, Man of Letters. The Construction of Charisma in Print, Princeton, 1993.

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M. Mann, Erasme et les débuts de la Réforme française (1517-1536), Paris, 1934.

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J.-Cl. Margolin, Erasme. Une abeille laborieuse, un témoin engagé, Caen, 1993.

J.-Cl. Margolin, Erasme précepteur de l’Europe, Paris, 1995.

D. Ménager, Erasme. 1469-1536, Paris, 2003.

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P. de Nolhac, Erasme en Italie. Etude sur un épisode de la Renaissance (1888), Sala Bolognese, 1988.

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A.   Renaudet, Etudes érasmiennes, 1521-1529 (1939), Genève-Paris, 1981.

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H. Trevor-Roper, Erasmo e la fine dell’umanesimo cristiano, in H. Trevor-Roper, Il Rinascimento, Roma-Bari, 1987, pp. 75-94.

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