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Omero narra che mentre Odisseo si avviava imprudentemente verso la casa di Circe, che aveva già trasformato in porci alcuni suoi compagni, gli apparve Ermes dicendogli: "Ecco, va' nelle case di Circe con questo benefico farmaco, che il giorno mortale può allontanare dal tuo capo. Ti svelerò tutte le astuzie funeste di Circe. Farà per te una bevanda, getterà nel cibo veleni, ma neppure così ti potrà stregare: lo impedirà il benefico farmaco che ti darò, e ti svelerò ogni cosa".

 

Dopo avergli spiegato come avrebbe dovuto comportarsi, "... mi porse il farmaco, dalla terra strappandolo e me ne mostrò la natura. Nero era nella radice e il fiore simile al latte. Gli dei lo chiamano moly e per gli uomini mortali è duro strapparlo: gli dei però possono tutto".(1)

 

Ispirandosi all'Odissea un epigramma dell'Antologia palatina interpretava l'episodio come un'allegoria dell'uomo diviso fra le due sfere -del celeste e del terrestre: "Lontana da me, tu caverna tenebrosa di Circe: son nato da progenie celeste, ed è per me vergogna le ghiande mangiare come un bruto! ... Concedermi il Nume voglia del moly, il fiore che scaccia i cattivi pensieri".(2)

 

Qui Odisseo simboleggia l'uomo eterno, posto fra il chiarore celestialmente luminoso di Ermes e le tenebrose seduzioni di Circe (3). La salvezza verrà dalla pianta che, donata dal messaggero degli dei, gli scaccerà "i cattivi pensieri": pianta dalla radice nera e dal fiore bianco, che è nello stesso tempo simbolo sensibile di quanto avviene nell'anima. "Grazie al potere che è in quest'ultimo" scrive Hugo Ralmer "1'uorno si svincola dalle potenze tenebrose nelle quali egli sa che anche la sua radice è immersa: egli è una progenie celeste che col suo fiore, il suo 10 spirituale, si dischiude verso l'alto, bianco come latte e puro. Ma (e questo è l'elemento determinante nella simbolica del mito) ciò gli è possibile solo in quanto egli riceve soccorso da Dio, in quanto gli viene incontro il potere errante di Ermes".(4)

 

La misteriosa pianta ha suscitato nei botanici una tale curiosità che ne è nata una piccola biblioteca di studi antichi e moderni con diverse interpretazioni. La prima risale a Teofrasto secondo il quale il moly crescerebbe realmente sul monte greco Cillene e presso il fiume Peneo,nei luoghi tradizionalmente consacrati al cultodi Ermes. La sua radice sarebbe a forma di cipolla e le foglie simili a quelle della scilla marittima (Urginea inaritinia), una pianta mediterranea che ha un grosso bulbo pesante circa duechili, da cui sorge lo scapo alto un metro e fornito di fiori bianchi in grappolo: un'agliaccadunque. In epoca moderna Linneo chiamò invece Afflum moly un tipo di porro.

 

L'interpretazione agliacca dell'erba molv parrebbe suffragata dalla comune credenza che queste piante garantirebbero da ogni maleficio. L'aglio in particolare sarebbe talmente potente da provocare malesseri gravissimi alle strghe e ai vampiri che si avvicinano, tant'è vero che in sanscrito è detto "uccisore di mostri". Una invocazione antijettatoria napoletana dice: "Agli e favagli fattura che non quagli./ Corne e bicorne/ capa 'alice e capa d'aglio". Per questo motivo si consigliava di portarlo sotto la camicia nella notte di San Giovanni, insieme con altre erbe come l'iperico, la ruta o l'artemisia, perdifendersi dalle streghe che passavano numerosissime per il cielo recandosi al gran sabba annuale.

 

Ma a questa tradizione si oppone quella che considera le aliacee contrarie alla fioritura spirituale. I faraoni e i sacerdoti egizi se ne astenevano stimandole sgradite agli dei celesti, ma le somministravano agli schiavi che costruivano piramidi per preservarli da infezioni. I taoisti a loro volta sostengono, non diversamente dai bramini, che l'aglio nutre i demoni del corpo e perciò se ne astengono. Lo Yoga Prapidika lo considera infine uno degli alimenti da cui ci si deve astenere se ci si avvia sulla strada dello yoga. Si tratta di un'antica tradizione che già si ritrova nella religione prebuddhistica bón, oggi diffusa soprattutto nel Tibet orientale. Nel trattato gZl-brjid si ammonisce: "Accidia, oscurità e languore, insensibilità e attaccamenti passionali ne provengono. Si somiglia allora al gattaccio in foia, i voti si trascurano, i sacramenti s'infrangono... Contaminati dall'agliaceo peccaminoso si soffre nella fangaia, nell'inferno della putredine. Contaminati dall'agliaceo dannoso si soffre nel lago di pus e di sangue. Contaminati dall'agliaceo debilitante malattie sciagurate compaiono nel corpo".(5)

 

Non diversamente Elémire Zolla scrive nel nostro secolo: "Che si varcasse un grado ulteriore nel percorso discendente del Kali Ybiga o ciclo della Distruttrice, attorno alla metà di questo secolo, fu chiaro allorquando andò smarrita la nozione, netta dianzi nella buona società, data per scontata nelle battute di Shakespeare, che almeno l'aglio fosse sconveniente e increscioso. In verità sono piante, le agliacee, soffuse di crudo zolfo, ottundono le facoltà sensitive e turbano il raccoglimento spirituale. Suscitano pertanto oggidì nelle anime deliberatamente rudi un amore che giunge al proselitismo, quasi costoro temessero di incontrare chi, non per capriccio del gusto, ne aborra".(6)

 

La ruta come "erba moly"

Un altro gruppo di botanici sostiene che "l'erba moly" sia la ruta (Ruta graveolens), basandosi su Dioscoride Pedanio che scriveva: "Quella pianta viene chiamata ruta montana e anche, in Cappadocia e Galazia, nioly. Altri la chiamano harmala, i Siri besasa, i Cappadoci moly" (7). Non erano, le sue, notizie di seconda mano perché Dioscoride proveniva proprio da quella zona. "Quindi moly è parola cappadoce" scrive Hugo Ralmer. "E v'è di più: la ruta montana significata con questo nome è per i Saqi persiani abitanti in Cappadocia il surrogato dello hom che avevano in patria e che era anch'esso un'erba magica, come ci riferirà più tardi Plutarco, il quale continua a chiamarla moly.Nella lingua sira questo moly si denomina besasa. In aramaico la denominazione della ruta montana suonava besas, e nella tradizione sira di Galeno, che attinge da Dioscoride, basaso.

Secondo Dioscoride la ruta montana ha una radice nera e fiori bianchi e perciò corrisponde perfettamente all'erba di cui parla Omero. In una interpolazione che si legge nello Pseudo Apuleio ed è tratta da Dioscoride, si dice: "Dai Cappadoci essa viene detta moly, da altri arniala, dai Sri besasa". E perfino nel VI secolo dopo Cristo il cosiddetto Dioscoride Longobardo riferisce: "Un'altra specie di ruta alligna in Macedonia e nella Galazia dell'Asia Minore, e gli abitanti la denominano mol y. La sua radice consiste in una radice maestra da cui si dipartono molte radici minori e che butta un fiore bianco".(8)

 

Fra le erbe cacciadiavoli usate nella notte di San Giovanni, essa ha una funzione importantissima, pari all'aglio e all'artemisia, tant'è vero che fu chiamata nel Rinascimento Herba de fuga denionis. Già Aristotele ne raccomandava l'uso contro gli spiriti e gli incantesimi. Nel Medioevo si ponevano corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni e, fino al secolo scorso, la piantina serviva anche nelle pratiche esorcistiche. Questa sua funzione potrebbe essere stata ispirata dalla forma vagamente a croce dei petali (9).

 

Negli Abruzzi la si considerava un amuleto contro le streghe: se ne cucivano delle foglie, preferibilmente quelle su cui una farfalla aveva depositato le uova, in un borsellino che si portava celato sul seno. La si consigliava anche contro il malocchio, come credevano le donne del popolo in Toscana.

 

Fin dall'antichità veniva prescritta per curare veleni e morsi dei serpenti: lo testimonia anche un emblema rinascimentale, riportato dall'iconologo Cesare Ripa, "Difesa contro i nemici malefici e venefici" dove una donnola porta in bocca un ramo di ruta? L'iconologo la utilizza anche per un altro emblema, "Bontà", raffigurata come una donna ben vestita d'oro, con una ,ghirlanda di ruta e con gli occhi rivolti al cielo, mentre tiene in braccio un pellicano con i suoi figliolini presso un verde arboscello in riva al fiume. La bontà è bella, spiega platonicamente, perché la si conosce dalla bellezza. E' vestita d'oro perché l'oro è l'ottimo fra i metalli o meglio, come aggiungiamo noi, perché è simbolo dell'essere supremo, del Buono per eccellenza. L'albero rammenta le parole di Davide nel primo salmo dove si dice che l'uomo che segue la legge di Dio è simile a un albero piantato sullariva di un limpido ruscello. Quanto al piriti maligni.... Ha ancora proprietà di sminuir l'amor venereo, il che ci manifesta che la vera bontà lascia da banda tutti gli interessi e l'amor proprio il quale solo sconcerta e guasta tutta l'armonia di quest'organo che suona con l'armonia di tutte le virtù".(10)

 

O l'erba moly è in realtà una pianta favolosa?

Vi è però chi, ispirandosi a una definizione degli scolii omerici ("Moly è una quintessenza di pianta, il cui nome proviene dal potere di rendere innocui i veleni")(11)sostiene che sia una pianta favolosa, una comune espressione poetica usata per indicare un antidoto. Sicché il modo migliore per capirne la "natura" sarebbe quello mitico-simbolico, già adottato dalla filosofia stoica, come testimonia Apollonio il Sofista: "Cleante, il filosofo, diceva che il moly significa allegoricamente il Logos dal quale vengono mitigati i bassi istinti e le passioni" (12): logos che nella filosofia stoica si doveva intendere come la legge di vita dell'uomo razionale. Lo conferma anche l'autore degli scolii all'Odissea: "Essendo un saggio, Odisseo ricevette il moly, che significa il perfettissimo Logos, per il cui aiuto coli non soggiacque a passione alcuna".(13)

 

Con il tardo platonismo l'interpretazione protoilluministica dello stoicismo venne ribaltata alla luce della concezione per la quale Ermes non era più la personificazione della ragione, ma l'ambasciatore di Dio, e l'erba niol v un dono divino: la quale altro non era se non la paidéia, l'educazione interiore dell'uomo tesa a liberare le sue potenzialità di luce dalle tenebre della passionalità terrena. Ermes psicopompo, che concedeva l'erba moly, conosceva la strada e concedeva la forza spirituale poiché era il Logos.

 

Grazie a questa interpretazione i cristiani poterono recepire allegoricamente i versi omerici sull'erba moly nella loro riflessione teologica, tant'è vero che Giustino paragonava Ermes Logos a Gesù-Logos dei cristiani: "Quanto alla nostra credenza che egli nascesse da Dio, Logos di Dio, essa è comune con la vostra di Ermes, detto da voi Logos annunciatore da parte di Dio".(14)

 

Da quel momento le interpretazioni allegoriche proliferarono fino alla più recente che vede il moly come il simbolo dello stesso uomo, dell'eterno Odisseo: "l'eterno Odisseo" scrive ancora Hugo Raliner "sta fra Elios risplendente e Foscura caverna. Nel suo proprio intimo infuria la battaglia fra il nero sangue del gigante e la luminosa natura solare. E lui medesimo il moly dalla nera radice e dal fiore bianco. Ma egli viene soccorso, salvato, elevato nella luce soltanto se la radice rigogliosa viene liberata con uno strappo deciso dalla madre terra. E' un'arte divina che solo Ermes può insegnare".(15)

 

1. Omero, Odissea X, 275306.

2. Antologia Palatina XV, 12.

3. La narrazione omerica riflette una tarda immagine di Circe, quella imposta dalla civiltà patriarcale achea alla precedente tradizione matriarcale. In realtà Circe, come capii Apollonio nelle Argonautiche, è una sciamana che getta gli uomini che le si abbandonano in transes totemiche. Fiaba del Sole, incarna la sapienza che separa il durevole dal transitorio. Quanto a Odisseo, di là dall'interpretazione omerica. egli pretende da Circe una iniziazione ierogamica che gli consenta di affrontare suecessivamente la discesa agli inferi. Cfr. a questo proposito E. Zolla, Verità segrete esposte con evidenza, Venezia 1990, pp. 13 1 143. Ma nel contesto omerico dobbiamo attenerci A'interpretazione che ne dà il poema omerico per capire la funzione simbolica dell'erba moly.

4. H. Ralmer, Miti greci nell'interpretazione cristiana. Bologna 1980, pp. 205207.

5. Citato da E. Zolla ne Le meraviglie della natura, Milano 1975, p.72.

6. Ibidem.

7. De materia medica III. 46.

8. H. Raliner. cit., pp.210211.

9. Cfr. C. Ripa, Iconologia, ampliata da G. Zaratino Castellini, Venezia 1669, pp. 147-148.

10. C. Ripa, cit., pp.70-72

11. Scholia Graeca in Homeri Odysseum (Dindorf, II, p.467)

12. Cleante, fr.526 (von Amim, Stoicorm veterum fragmenta, 1, 118)

13. Cit. II, p.467 lin. 19ss.

14. Apologia 1, 22.

15. H. Ralmer, cit. p.228.

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