Il documento che segue è traduzione di Elizabeth B. Welles di Boston, lecturer d'Italiano alla Stade University of New York at Albany. Pubblicato negli Stati Uniti con il titolo: "The Unpublished Alchemical Sonnets of Felice Feliciano" è stato tradotto in italiano e pubblicato sulla rivista internazione di Alchimia Kemi-Hathor nell'Aprile del 1985. Ogni diritto è riconosciuto. La libera circolazione dello studio è subordinata alla citazione della fonte (completa di link) e dell'autore.

© Elizabeth B. Welles

 
 

Magnifico et Clarissimo Comiti Domino Antonio de Nogarolis Equiti, aurato amico et maiori honorando. Felix Felicianus salutem.

Druso Brutto, per quanto dimostri Valerio gli versi di Attico poeta, lui laudante nel fronte di alcun tempio, signava et Sylla in uno anello la fuga di Jurgurta portava, (1) et Gnaio Fabbio nelle pariete de Tempio di Salute da Junio Bubulco dedicato, il suo nome destrupse per cupidità de gloria (2).  Similmente, intervene a me cheper letitia e gaudio de l'aquistata amicitia da Vostra Magnificenza porto de quello l'ymagine dipinta nel mezo del cuor mio, la quale reputo preciosa e cara e tengola ligata a firma de indubitato amore per il testimonio di vostre littere a me mandate da farne oppinione e stima. E certo ho compreso in quello amor e dilectione non vulgare et signi de humanidate e clementia di che ne rendo ad essa Magnificenza Vostra ingentissime gratie con desiderio di far sempre cosa che grata mi sia riputenadomi vostro quanto di me proprio. Io mando, ad essa, Magnificenza Vostra, in una ampollina di vietro di quella pasta congielata di che già mi parlai essendo a Bologna a la Cena del Magnifico Antonio da Lino, fatine fare experientia a quel amico che la Vostra Magnificenza me disse che Dio voglia che riescha. Io ne diedi l'altro zorno ad alcuno amico il qual poi la converse in Saturno, ma credo non habia ne arte ne modo. Attenderò da la Magnificenza Vostra aviso come rieschano le cose, e pregarò Dio che una volta prima ch'io mora habii uno anno consolato, che tanto mi trovo saccio e stracco da gl'inganni di questo Jeber, che più non posso. E ben seria tempo de ripossari li fatigati legni da lugno corso di mare, e da le undatione de l'aqua, e da rabiosi venti spinti da furtuna, pur capitano in qualche porto e getan l'anchore, ese ripossano. E li correnti cavagli doppo longo combatere, tornati dal campo hano la quiete; et io tutto per contrario sempre a fine del mio affano, ricoglio faticha.

Parmi per ricreare gli spiriti che sono alquanto aflicti, mover un poco a riso el nostro parlare, tolendone prima licentia da Vostra Magnificenza laquale mi perdonarà s'io fusse longo e tedioso oltre al'apetito di quella; e già fue concesso a Socrate Cavalchar la canna con li sui picoli figlioli per sublevamento del suo longo studio, (3) et a Cornelio Schipine e Lelio, dui singulari lumi del mondo, interponer il tempo nelle sue sudate fatiche mentale, su per Io lito di Gaieta ricogliere le petroline et conche di pesci marini per dare ala faticha suava riposso (4).  Io, adunque, per isfogare un poco el sdignò dirò degli inganni e fallacie di questo ribaldo Jeber, ove per adventura si causarà qualche riso e solazo. Costui, adunque, come sa la più parte, invido degli altrui beni et in ogni cosa sagacissimo come malvaso ribaldo, ha posto in ceschaduna parte ov'io mi vada, subtili aguati et molte ispie, quali, come piutosto si accorgono me porre la mano ala borsa per riserbare alcun picolo danaro guadagnato, subito li vanno a referre a lui; e quello poi i con se lusinghe e false speranze di ben faremo, me li trahe dalle mani, ne mai vidi dele sue zonze alchun fructo seguire. O quante volte dissi, felice me, se io non havesse mai veduto li soi consigli, che diro più una volta fra l'altre gli fu referito me hauer sebato un pover florin doro; ne si vergogno questo ribaldo tramelo dale mani e darlo a divorare al foco. Et alchuna volta fu non hauendo danari e volendo seguire le sue ricepte, ch'io puosi al'Ebreo el mio vestito foderato di bestia e facto di lana di montone, ne existimai ch'l sole habitasse aquario e pescie, (5) ne qesto basto, che di compagnia del vestito mi puosi alchun lihri scripti in carta di peccora per comparare antimonio, alume, e sale di molte sorte, da insalare le sue e mie ceruelate pacie (6).  E tutto questo verno me ne andai fresco con la ragnola del frusto mantello sopre il zupone. Al quanto si può chiamare misero e sfortunato colui che tenghi cotale compagnia. Questo scellerato e fallace ti mostra apere le porte de la speranze, e poi nello intrar dentro, te le chiude nel pecto. Et è cossi distemperata la fama di questo lupo che non sisacia mai et quanto più divora, più crescie la fame et possi di lui ben dire queste parole;

 

«Et ha la nature si malvasa e ria

Che mai non empie la bramosa voia. (7)

Ma doppo il pasto ha più fame che pria»

 

in modo che chi volesse saciare la sua luparda fame, seria bastante in pochi giorni distrugier ogni facultate et ogni reame e signoria; ne bastaria a lui la torre di metello et ha gli denti cossi forti che rode fino ale mure dela casa, e dirovi miraviglia che lui ha divorati d'un mio vicino gli coppi del tecto non che gli mei vesti mesti che sono tenui e molli. Onde per la sua insaciabile golla quasi rimango nudo. Di che tardi pentuto di haverlo mai veduto biastimo el giorno che mai gionsi al' antico cassone ov'io lo ritrovai, coperto dun cuoi di capra incirata a guisa de visco con una tella d'intorno per dubio forse de l'aqua che non lo offendesse, che piacesse a Dio che prima hauesse ritrovato un venenoso serpente, che pure con qualche turiacha mi seria diffeso. Ma costui venenoso che alcuna vipera, per suoi arsinichi e risagalli mi ha tutto atossigato, e sono squalido nella faza, a da molto solphere e salnitro asimigliato ad un schiopetiero, e da la calzina e vediorlo ho tutte stortichate la mani e peliate le zighe de gli ochi, et per suoi fumi pestiferi ho scemato il cervello, et per pascer la sua voragine son facto mendico e divenuto del vulgo publica favola. Ma tutto con patientia, porto, se'l cupro si converte in Luna come lui mi ha promesso e iurato. Dice ancora guardarmi e diffendermi da la inimicitia di Saturno, e dal odio et ira di Iove li quali gia corseno armati in suie porte del mio lambico, (8) quelle gitate per terra, intrarano in case, e cazato fuori il cupro d'un chiaro christallo, e spinta la Luna, preseno del loro intiere possesione, et per questo modo rimasi agabato. Le sue promissione e le sua fede voglio a questo trato provare, e se'l inganna non mai più me ingangarà.

Fazo qui punto e prima priegò Vostra Magnificenza mi perdoni s'io son stato molesto. La molta fede presa in quella mi fa ardito a parlare troppo e forse temerario. La la quale come amico e servo continuo me ricomando Antiquarius Felicianus vi pistis M cccc LXXII.