Domenico Angherà [Potenzoni, frazione di Briatico, 16 agosto 1803 Napoli 1881 (?)1]; arciprete, patriota, massone, non è tra le figure più ricorrenti nelle storie della Libera Muratoria. Ulisse Bacci ne scrisse sulla traccia delle polemiche arse tra l'arciprete e il Gran Maestro Ludovico Frapolli, il quale dalle colonne del ''Bollettino del Grande Oriente d'Italia" aveva fulminato Angherà, "uno di quei sedicenti massoni che vendono gradi per l'Italia. specie di cani d'Oriente che van per le strade a raccattar fratelli e che v'appiccano la lebbra al loro contatto: di tali, il nome non può venir pronunciato da bocca onorata'' 2, onde Giuseppe Leti ne ignorò il nome nel classico Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano 3, benché, invece, correttamente Oreste Dito ne avesse parlato - in termini equilibrati e non solo pel vincolo di conterraneità 4 - e la damnatio memoriae proseguì, talché il suo, da Luzio affacciato nel quadro qui e là caricaturale, degli esordi massonici postunitari 5 non tornò tra i Mille volti di massoni 6, né con nostro speciale rammarico in altri più condensati recenti repertori 7.

 

Eppure meritava d'essere riscattato dall'immeritato oblio l'Autore della Memoria storico-critica sulla Società dei Fratelli Liberi-Muratori del Grande Oriente Napolitano (Napoli, 1864), che il benemerito editore cosentino Walter Brenner ripropone di pulita edizione anastatica 8: una fra le voci più emblematiche della Massoneria italiana nel difficile periodo della riorganizzazione all'indomani dell'unificazione nazionale e nel sùbito complesso intreccio fra Ordine e Riti.

 

Alla sua piena riscoperta conduce ora Pietro Emidio Commodaro, un cui robusto lavoro sulla Diocesi di Squillaca attraverso gli ultimi tre Sinodi comparve dieci anni or sono 9.

Non toglieremo al lettore piacere di scoprire da sé le minute vicende di questo "prete calabrese nel Risorgimento" da Commodaro ritratto con penna incisiva quanto documentata e sulla scorta di carte inedite tratte dall'Archivio Segreto Vaticano e da archivi civili ed ecclesiastici.

 

"Tarchiato. alto, sano, robusto e calabrese" (qual fu dipinto dalla "Civiltà Cattolica" nel 1877), di animo gioviale e d'estrazione borghese, Domenico Angherà maturò una vocazione sacerdotale per motivi non documentati.

Dal 1830 al 1832 fu curato a Pizzoni, poi parroco a San Vito, accolto con calorosi festeggiamenti da quanti già lo conoscevano per fama. Là dovette però brigare con notabili locali per ragioni economiche, in un'età, del resto, nella quale l'ameno centro sullo Jonio contava 15 preti per soli 2.000 abitanti. In quelle contese il carattere di Angherà apparve quale poi si sarebbe mostrato in Massoneria: "schiavo del diritto" (il papa gli appariva infatti "Sommo Gerarca" e la chiesa era da lui concepita in una visione "formalistica e gerarchizzata", p.47), Angherà avrebbe poi interpretato in termini altrettanto rigorosi l'insegna scozzesista "Deus meumque jus", un motto scrive Commodaro - che calza ad unguem alla personalità dell'Angherà, il quale non ammetterà altro nella sua inquieta esistenza se non il suo Dio ed il suo diritto, pur sempre in corretto rispetto dell'avversario".

 

Implicato nei moti risorgimentali del 1848, tendenzialmente repubblicano con venature d'un carbonarismo mai spento nelle terre di Vincenzo Padula, di don Luigi Marra e dei sacerdoti Domenico Antonio e Gaetano Aloisio, condannati a 20 e 19 anni per partecipazione alla cospirazione e sospetta connivenza con la "setta di Benedetto Musolino" praticante "rituali e formule massoniche... giuramenti dinanzi al Crocifisso, strani segnali con colpi di bastone, bende agli occhi per gli iniziati" (p.25), Domenico Angherà riparò in esilio a Malta, colà mescolandosi a molti patrioti in esilio e guadagnandosi vasta stima per le opere di matematica, tra le quali "Quadratura del cerchio e geometrica trisezione dell'angolo" (1854).

Sicuramente massone nel 1860 (forse iniziato nell'isola di Malta, ove anche visse Adriano Lemmi) Angherà rientrò a Napoli il 15 giugno 1861. In Loggia l'arciprete militò "come cattolico tota conscientia", già convinto (come avrebbe poi scritto Ferrer Benimeli) che "Roma aveva condannato la Massoneria senza conoscerla" (p.99).

Del resto per Angherà il teismo fu il discrimen tra massoni autentici e spuri, in un'età che in Loggia contava invece non solo deisti ma anche agnostici e taluni che confondevano la lotta contro l'intolleranza dogmatica con lotta contro le religioni in sé. Per quanto possibile, Pietro Emidio Commodaro mira anche a dipanare l'intricata matassa dello scozzesismo, che vide contrapposti i Supremi Consigli di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, con alleanze incrociate secondo tempi, umori e interventi dall'esterno. In vista del Convento di Losanna, Angherà stabilì un patto d'unione col Supremo Consiglio di Torino, i cui massimi esponenti (Alessandro de Milbitz, Timoteo Riboli, David Levi) non mancavano certo di patenti di regolarità. Nel 1876, con rovesciamento di fronte, sorse però il Grande Oriente Confederato di Napoli e Palermo: a conferma di quanto fosse travagliata la via dell'unità della Famiglia libero-muratoria, talora dilaniata da polemiche scadenti anche in mortificanti personalismi.

Mentre il Grande Oriente d'Italia puntava a liberarsi dall'abito posticcio di associazione semi-cospirativa e a trovare una collocazione consentanea alla stabilità politica del Regno (non è però affatto vero che il Parlamento per quattro quinti fosse composto di massoni, come, molto esagerando, scrive Commodaro) a Domenico Angherà (che "non spese una parola di pubblica adesione alla Casa Savoia") risultava due volte scomodo: sia in quanto repubblicano (sognava una "struttura democratica della società con venature socialiste", p.130) e sia per l'abito ecclesiastico in un'età nella quale Ludovico Frapolli si spingeva erroneamente a scrivere che un prete cattolico "non può cingere il grembiule senza essere spergiuro alla Massoneria", mentre da parte sua Giuseppe Garibaldi accettava con piacere la presidenza onoraria dell'organizzazione massonica dell'arciprete, così come aveva assunto la Gran Maestranza onoraria ad vitam del Grande Oriente d'Italia.

Secondo i criteri della cultura egemone - conclude Commodaro - non gradito alla chiesa diocesana per i suoi trascorsi patriottici, né alla storia ufficiale della Massoneria per via delle polemiche che lo accompagnarono sino all'oscuro tramonto, "Angherà appartiene alla categoria dei vinti della storia" (p.131).

Dal punto di vista filologico l'opera di Commodaro potrà essere ulteriormente arricchita, sulla scorta di documenti e scritti dello stesso Angherà che qui non vediamo ricordati; è però difficile aggiungere qualche cosa e dir meglio di quanto l'Autore faccia a proposito del nodo fondamentale della biografia dell'arciprete proteso a fondere cristianesimo e massonismo, giacché "uomini come Angherà, al di là delle espressioni grafiche, intendevano riferirsi allo stesso Essere, sia quando parlavano da cristiani, sia quando scrivevano da massoni. In tale ipotesi, dobbiamo dire che la fede cattolica di Angherà aveva subito una evoluzione, perdendo in profondità e di spessore" allorché presiedette col titolo di "rigeneratore" e di "sommo sacerdote" una Società Evangelica in Catanzaro sin dagli anni 1842-46.

"Personalità inquieta e disordinata" scrive Giacomo Martina nella succosa prefazione "l'abate carcerato e massone è in larga misura l'espressione di una società inquieta che va barcollando, cercando a tastoni il retto cammino, senza riuscirci, ma che preferisce cercare piuttosto che giacere inerte in condizioni arretrate, ingiuste e spesso disumane. Il tormentato prete calabrese è il simbolo di uno sforzo generoso di rinnovamento religioso e civile, viziato in partenza dall'ingenuità e dall'immaturità, dall'assoluta mancanza di spirito storico, eppur sincero nei suoi latenti desideri di un 'intima riforma. La sua fiducia nel liberalismo e persino nella Massoneria nascondeva una disperata ricerca di un riscatto da soprusi, ingiustizie, miserie".

Non ci pare però ch'essa possa pertanto essere liquidata come "ingenua" , né che si possa chiudere il "caso Angherà" sentenziando "l'obiettivo era buono, la strada sbagliata" (XIV), se non rinunziando, ancora una volta, alla storia e, più ancora, all'umana pietas cui l'arciprete massone ha due volte diritto.

 


 

(1). Lo stesso suo maggior biografo, Pietro Emidio Commodaro, Io dice morto "cristianamente" (sulla scorta di Galati, Gli scrittori delle Calabrie. Dizionario biobibliografico. Firenze, 1928, p. 156) ma non ha trovato elementi documentari sulla morte dell'arciprete negli uffici di stato civile di Napoli né di Roma, tantoché la data stessa rimane incerta.

(2). Cit. in A. MOLA, Storia della Massoneria italiana dall'Unità alla Repubblica. Milano, Bompiani. 196, p. 132.

(3). Non così poi R.F. ESPOSITO, La Massoneria e l'Italia dal 1800 ai nostri giorni. Roma, Edizioni Paoline, 1980, V (1", 1956), ad nomen.

(4). Massoneria, Carboneria ed altre società segrete nella storia del Risorgimento italiano. Torino, Roux e Viarengo, 1805, ora in anastatica, Bologna, Forni. 1966. Per la vasta produzione ritualistica dell'Angherà v. P. MARUZZI, Opere per una biblioteca massonica. Suggerimenti bibliografici. Roma, Tip. del Senato Bardi, 1921, ad nomen.

(5). A. LUZlO, La Massoneria e il Risorgimento italiano. Bologna Zanichelli. 1925, ora in anastatica, Bologna, Forni, 1966, vol. 2 °, libro VI, La restaurazione morale della Massoneria tentata da Lodovico Frapolli, aperto dal celebre passo: "Nella baraonda massonica d'Italia dopo il 1860, due figure campeggiano: l'una comica, l'altra tragica - l'arciprete Angherà, il colonnello Frapolli; entrambi, paladini convinti dell'associazione, e operosissimi nel diffonderla, ma nemici mortali fia loro'' (p.75).

(6). Roma, Erasmo, 1976.

(7). I liberi muratori di ieri e di oggi. Profili biografici, Roma, Camelo, 1986.

(8). Cosenza, 1986, pp. 167.

(9). P.E. COMMODARO, La diocesi di Squillace attraverso gli ultimi tre sinodi: 1754-1784-1889 (Dissertano ad Doctoratum in Facultate Historiae Ecclesiasticae Pontificiae Universitatis Gregorianae)? Vibo Valentia, 1975, pp. 362.