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Oggi il nostro Paese vive una crisi profonda, nella quale sembra venir meno anche il legame che unisce il cittadino allo Stato. Questo legame è in concreto condizionato dalla capacità effettiva dello Stato stesso di farsi promotore e garante del bene comune.
Taluni fenomeni di decadimento politico cui assistiamo oggi e che rivelano mancanza di progettualità e resa ad interessi di corto respiro così come recenti episodi di abbrutimento finanziario che hanno portato al collasso il sistema economico, colpendo le fasce più deboli dei risparmiatori, confermano che l’etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone.
La fine dei veri partiti politici, inoltre, sta segnando la  fine del nostro sistema socio-economico e, a breve, la fine del sistema istituzionale sul quale poggia la nostra democrazia.
É un’affermazione forte, sostenuta dal fatto che, nel recente passato, il luogo della protesta era garantito dai partiti tramite idonei meccanismi di democrazia interna, popolare e territoriale, che sfociava poi nella messa in opera di “congressi ad hoc”, indirizzati a correggere le difformità lamentate dai cittadini.
Oggi, invece, nella migliore delle ipotesi, quei partiti sono diventati dei comitati elettorali, mentre, nella peggiore delle ipotesi, dei comitati d’affari.
Oggi appare evidente che la protesta o il dissenso non ha trovato più né lo spazio e né il sostegno da parte della classe politica e, quindi, la disperazione popolare si è trasferita nelle piazze.


Quali le cause del degrado politico, della mancanza di qualità individuale o dell’etica sociale?
Per colmare tale lacuna ritengo sia stimolante l’articolo del Corriere della Sera, a firma di Giovanni Sartori.
Per conoscere meglio le ragioni della crisi, ritengo quindi utile partire da alcuni suoi spunti, perché il politologo va proprio alla radice del “crac-Italia”.
Mentre il parto del nuovo governo Bersani si ingarbuglia sempre più, il presidente di Confindustria, Squinzi, dichiara che “siamo alla fine, non c’è più tempo né ossigeno”. Sembra anche a me. E per sostenere questa conclusione, Sartori elenca alcuni antefatti dei problemi che ci preoccupano. Eccoli!
In primis, l’Europa e gli impegni. Forse molti non sanno che l’Unione europea non comporta l’adozione di una moneta comune (l’euro).

I Paesi dell’Unione che hanno adottato l’euro sono 17, mentre i Paesi senza l’euro sono 10.
A parte l’Inghilterra che mantiene la sterlina e che è il caso più importante, sono fuori dall’euro: Danimarca, Svezia, Polonia, Ungheria, Romania e altri Stati.
L’Unione europea nacque quando venne di moda – diciamo così – la “globalizzazione”.
S’intende – afferma il politologo – che la globalizzazione finanziaria venne da sé, con la tecnologia che la rendeva non solo possibile ma anche ineluttabile.
La globalizzazione economica è tutt’altra cosa, avendo in mente, per l’Europa, il modello Stati Uniti.
Il problema è che un sistema federale richiede un linguaggio comune.
Gli Stati Uniti parlano l’inglese, la Germania il tedesco, l’India ha ereditato l’inglese, il Messico lo spagnolo, il Brasile il portoghese.
L’Europa parla invece 22 lingue, che certo non possono alimentare una aggregazione federale.
Invece l’Europa può diventare una comunità economica, che oggi è la comunità dell’euro.
Ma purtroppo la messa in opera di questa Unione è stata frettolosa e insufficientemente pensata.
Tutti gli Stati del mondo controllano la propria moneta e si possono difendere, economicamente, con dazi, dogane, e anche svalutando o rivalutando la propria moneta.
Così gli Stati Uniti tengono il dollaro “basso” per facilitare le proprie esportazioni. Invece, l’Unione europea è una comunità economica indifesa.
I singoli Stati che la compongono non possono stampare moneta, né difendere le proprie industrie con barriere doganali, né impedire che le popolazioni più povere dell’Unione si trasferiscano dove lo Stato sociale paga meglio.
Difatti quattro Paesi – Germania, Gran Bretagna, Austria e Olanda – chiedono di poter rifiutare il welfare agli emigrati comunitari.
Quali, in sostanza, le nostre colpe?
In questa vicenda tutti hanno le proprie colpe, scrive Sartori. Ma ne hanno di più i Paesi mediterranei, Italia inclusa, che si sono dati alla bella vita indebitandosi oltre il lecito.
L’ora della verità è scoccata, ahimè, troppo tardi per i Paesi che sono riusciti ad accumulare un debito pubblico (Buoni del Tesoro) che supera abbondantemente il Pil, il Prodotto interno lordo.
Come possono risalire la china nella quale sono colpevolmente precipitati? Si chiede, preoccupato, Giovanni Sartori.
In Italia ormai la pressione fiscale è altissima, a livelli che soffocano la crescita. E l’evasione fiscale resta largamente impunita.

Ora veniamo al caro euro.
Dovremo esportare di più. Ma qui l’ostacolo è, come ho già accennato, che la nostra moneta, l’euro, è sopravvalutata rispetto al dollaro.
In passato, nel 1972, avevamo escogitato il “serpente monetario” europeo che consentiva fluttuazioni delle monete entro una fascia del 2,25 per cento.
L’esperimento fu utile, ma venne sostituito nel 1979 dal sistema monetario europeo (Sme), che venne a sua volta sostituito, da ultimo, dalla Banca centrale europea di Francoforte.
Crescita zero, dunque! Varrebbe la pena di resuscitare un nuovo “serpente” sotto il controllo, beninteso, di Francoforte?
Non lo so. Ma varrebbe la pena di pensarci. Perché da 14 anni la crescita dell’Italia è vicina allo zero.
Aggiungo che il nostro Paese è particolarmente a rischio anche per le ragioni che passo rapidamente ad elencare.
Primo, risultiamo, nelle graduatorie internazionali, tra i Paesi più corrotti al mondo.
Il monito è stato lanciato mercoledì 27 marzo scorso dal Commissario Ue alla giustizia, Viviane Reding, che ha presentato i risultati di un monitoraggio sui sistemi giudiziari dei 27 Paesi membri.
Tra le piaghe del rapporto, lo strumento per individuare obiettivi strategici sul sistema giudiziario, emerge che in Italia occorrono in media più di 800 giorni per risolvere le cause civili e commerciali.

Quali i rimedi ?
Quello di avere un sistema giudiziario indipendente ed efficiente, fatto di giuste riforme giuridiche, che sono diventate una componente strutturale importante della strategia economica dell’Europa. Perché spiega il Commissario Viviane Reding, “un Paese attrae business se ha una giustizia indipendente ed efficiente”.
In tale contesto, non bisogna dimenticare che, tra l’altro, siamo anche gli inventori della cosiddetta “onorata società”, volgarmente mafia, e per essa un Paese forse più tassato dal pizzo che dallo Stato.
Associamo poi l’altissima inefficienza burocratico-amministrativa. A tal punto che i fornitori dello Stato vengono pagati con nove-dodici mesi di ritardo.
Un vero scandalo. Tutto sommato, allora, non vedo proprio come investitori stranieri siano, in queste condizioni, tentati di investire in Italia.
Inoltre, è spaventoso constatare che un italiano su quattro è a rischio povertà o esclusione sociale.
Per cui, quando ci interroghiamo sul futuro del nostro Paese finiamo quasi sempre per trarre conclusioni pessimistiche. Non mancano certo motivi di fiducia, ma questi non ribaltano la nostra valutazione.
Semmai aumentano l’amarezza per una deriva che sarebbe evitabile solo se lo volessimo, solo se risvegliassimo in noi il senso di appartenenza ad una comunità ricca di storia, di talenti o di grandi personalità (dai Mazzini, ai Garibaldi, ai Cavour) che hanno tratti comuni, nel moto continuo e diacronico che si tramanda fra gli spiriti magni di maestri e maggiori.
Amarezza e fiducia si intrecciano quando osserviamo i tanti talenti che si sprecano, oppure i tanti casi di persone che, con abnegazione e fantasia, lavorano silenziosamente per migliorare le condizioni di vita della collettività di cui fanno parte.
Sono casi non sempre noti, ma che bisogna far conoscere anche per la grande forza di contagio che recano in sé.
Dopo aver ricordato sommariamente le cause di questo gravissimo stato di cose, di cui molto si dice e molto si scrive, non voglio aggiungere altra prospettazione alle tante, più o meno plausibili, che circolano.
Mi sembra più opportuno, invece, domandare se e come l’Italia può uscire dal puntano in cui è finita.

Ora, che ne possa uscire non ho dubbi. Ma non ho neppure dubbi sul fatto che non esistano ricette belle e pronte, capaci di produrre effetti immediati.
Non esistono soluzioni miracolistiche.
Di questo dobbiamo essere consapevoli e guardare con sospetto e scetticismo a tutti coloro che ci vorrebbero far credere il contrario.
Cari amici, la strada è lunga e impegnativa.
A mio modesto parere, dobbiamo cominciare dall’ingegneria politico-istituzionale.
Bisogna prendere atto che il bipolarismo (con il connesso leaderismo) non ha funzionato.
Sarebbe comunque sbagliato e ingeneroso darne la colpa ai leader che si sono succeduti: e, infatti, non gliela diamo.
Diciamo solo che in Italia il bipolarismo come metodo di governo non funziona.
Sappiamo bene che altrove ha funzionato e sappiamo anche bene che, nel nostro Paese, sono tanti coloro che considerano il bipolarismo una vera e propria conquista, sulla quale non bisogna neppure aprire la discussione.
Noi però siamo convinti del contrario: non solo il bipolarismo ha fin qui prodotto guasti ma, ciò che è peggio, promette di produrne altri ancora maggiori.
Più che le nostre qualità esso, infatti, esalta i nostri difetti: spinge alla contrapposizione, alla visione di breve periodo, alimenta l’illusione che tutti i problemi si possono risolvere, hic et nunc, (qui ed ora) con un provvedimento normativo, con una riforma.
E così viviamo nell’attesa messianica “delle riforme”, che il più delle volte si rivelano per quello che sono: riforme malfatte, riforme fallite, perché concepite al di fuori di un coerente disegno complessivo.

L’Italia ha bisogno di un grande Progetto-Paese e di una forza politica sana, che abbia al suo interno un gruppo di persone capaci di attuarlo. Per questo Giorgio Napolitano, all’approssimarsi della fine del suo settennato, ha auspicato una “rinascita della componente ideale e morale della politica”.
Perché – aggiungo – senza la forza degli ideali la politica si impoverisce e diventa solo spregiudicata lotta per il potere.
Intendo dire quella politica – quella che, sia chiaro, si nutre anche di risentimenti, di dispettucci, di gelosie, di invidie, di personalismo sfegatato, di concorrenza sleale – che è anche capace di creare divisioni in famiglia, sotto il tetto comune, attorno ai valori eterni di fraternità e di pace, d’amore, di solidarietà, di mutualità, sentimenti che pongono l’uomo al di sopra e al di fuori della faziosità disgregante e della lotta fratricida fino all’ultima goccia di sangue.
Ed è triste constatare l’appannamento della intelligenza umana che, violentata dell’egocentrismo e dal protagonismo, finisce col precipitare nel nullismo in danno dell’unità e del beneficio di chi sulle divisioni altrui crea il proprio “impero”.
Le tristi vicende cui stiamo assistendo in questi giorni dimostrano come sia difficile sacrificare sull’altare dell’unità politica le bizzarrie del personalismo esasperato. Si impone, perciò, una buona dose di volontà e di educazione civica.
Incredibile come certi “sergenti americani” non riescano a scrollarsi di dosso la patina della superbia e di orgoglio che un tempo i loro antenati, forti, peraltro della posizione di primissimo piano che l’elettorato aveva loro generosamente elargito, ritenevano di poter esprimere in ogni loro azione e in tutte le direzioni del territorio.
Si impone un pizzico di umiltà e, in particolare, un momento di attenzione per poter se non altro raffrontare, e in piena serenità, le peculiarità e le caratteristiche delle parentesi storiche di ieri e di oggi e, di conseguenza, per poter scegliere, col metro dei fatti e delle prospettive, la strada giusta e le linee programmatiche possibili e praticabili.
In questa riflessione io credo si debbano collocare i passi da compiere con la testa sul collo e senza indulgere a sentimentalismi anacronistici o a desideri assurdi.
Diversamente, il rischio di sparire dalla scena, fagocitati dai più forti, diventa, purtroppo, una malattia mortale anche perché inevitabile.

La riconciliazione, dunque, tra le “energie” cattoliche impegnate in politica va considerata come esigenza di sopravvivenza da non eludere se si vuole, in sostanza, che i valori del Cristianesimo siano posti alla base d’ogni impegno politico mirato al progresso e al benessere nella solidarietà e nella convivenza civile.
Oggi e non domani. Ogni ora che passa si trasforma, se non vissuta nell’unità, in un passo indietro e, in definitiva, nel crollo d’ogni speranza.

I giochetti non servono più.
I tempi reclamano intelligenza e tempestività.
Diceva Giuseppe Mazzini: “pensare e operare, la vita è un dovere, il dovere è sacrificio”. E l’etica del mazzianesimo, la sua “mirabile coerenza” è come un’autentica rivoluzione nel costume italiano.
Così è! E aveva ragione!
La Repubblica, quindi, dovrebbe ripartire dall’etica del mazzianesimo, dall’impegno politico come dovere morale dell’insegnamento di Giuseppe Mazzini.
Perché dall’esempio del grande apostolo e patriota, espressione di un ricco paesaggio spirituale, che ha fatto ricco e moderno il nostro Paese, la gente ne tragga incoraggiamento e speranza per riportare la politica ad adottare una “strategia dei valori e dei doveri”, allo scopo di rendere vivibile e partecipata la democrazia nei suoi aspetti etico-socio-culturali.

Ci vuole, dunque, uno “scossone mazziniano” che sblocchi lo sfacelo, freni l’andazzo e crei il cittadino-protagonista della storia, non solo per integrare il linguaggio dei diritti con quello dei doveri, assieme al concetto di educazione morale, quale aspetto essenziale del processo di emancipazione, ma anche per porre il Paese alla base d’una serena convivenza pacifica nella giustizia, nel progresso, nel benessere, il più ampiamente partecipato.
Egli, quindi, non auspicava solo una più equa redistribuzione della ricchezza sociale, bensì una umanità resa migliore attraverso la libera associazione.
Non posso non ricordare che anche il suo patriottismo aveva una forte connotazione religiosa.
Mazzini, infatti, considerava l’affermazione dei diritti delle nazionalità come condizione affinché “l’idea divina potesse attuarsi nel mondo”.
In modo altrettanto categorico proclamò e visse una religiosità che era ricerca prima di essere verità, interiorità più che esteriorità, fede in Dio eterno e nell’immortalità dell’anima che si traduceva nella convinzione profonda che il divino è nell’uomo, e che proprio perché ha in sé la divinità l’uomo deve essere libero.
Oggi, come allora, quel pensiero mazziniano rappresenta, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, la consacrazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze, di una riforma delle strutture sociali e politiche.
Riforma, dunque, perché è illusorio pensare di ottenere risultati duraturi senza mettere mano ai processi organizzativi.
Del resto, la nostra macchina statale ha più di 150 anni di vita.
Nel tempo, le abbiamo affidato sempre nuovi compiti e non l’abbiamo mai sottoposta ad una vera revisione.
É prevedibile che in essa vi siano larghe aree di inefficienza.

Come insegna l’esperienza delle grandi aziende di tutto il mondo, le inefficienze non si eliminano con i tagli indiscriminati ma solo attraverso programmi di ristrutturazione, costruiti per quanto è possibile con il consenso delle persone che ne sono toccate.
Quando diciamo che lo Stato deve abbandonare alcune funzioni, non è un modo come un altro per dire che lo Stato deve ridurre il suo impegno in campo sociale e tanto meno per mettere in discussione le giuste conquiste sociali, vere e proprie conquiste di civiltà, che fanno parte ormai del nostro comune sentire.
Tutt’altro. L’impegno dello Stato in questa direzione, semmai, deve aumentare.
Occorre però renderlo ben più efficace: cioè che – realisticamente – si può fare solo coinvolgendo di più i cittadini e le loro organizzazioni piuttosto che ingigantendo, oltre misura, un apparato amministrativo pubblico che è ai limiti della paralisi.
Con questa consapevolezza, con l’esempio mazziniano e con questi auspici dobbiamo saper ricostruire la speranza nel futuro.
Non è facile. Ma è indispensabile essere coscienti e almeno cercare di riuscirvi.

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